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Area Pastorale d’Ambiente

Convegno unitario

La Speranza cristiana e le situazioni di fragilità che maggiormente interpellano l’esistenza contemporanea.
Riflessioni alla luce del Convegno di Verona

Roma, 1-3 marzo 2007

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Il Convegno ecclesiale di Verona non aveva fine in se stesso. E allora: come renderlo attuale giorno dopo giorno? E’ quanto si sono proposte le partecipanti a questo Convegno, richiamato da sr Vittoria Tomarelli e sr Emma Zordan.  Le loro parole sono state come una ventata di freschezza e di entusiasmo, di comunione e di Chiesa.

   Sr Vittoria ne ripercorre, con agili note e riflessioni, gli obiettivi, i luoghi, i lavori, il clima insomma, che si è respirato nei giorni di quell’evento. Introduce, pertanto, questo Convegno, che alla luce di ‘Verona’, fra i cinque ambiti trasversali di riflessione lì seguiti (vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione e cittadinanza), ha scelto di soffermarsi sulle forme e condizioni di esistenza in cui emerge e si esprime la fragilità umana.

   Sr Emma fa riflettere l’assemblea sull’obiettivo che il Convegno si propone: interrogarci sul significato delle diverse fragilità umane e riconoscerle come caratteristica della nostra vita; guardarle in faccia con la speranza che ci viene da Gesù risorto; con la forza dello Spirito; senza nasconderle, imparare ad accoglierle nelle situazioni estreme ed anche, più semplicemente, nei rapporti quotidiani con ogni creatura; farlo con discrezione e tenerezza e restituire così ogni fragilità, arricchita di senso, al cammino della vita.

Concretamente, se a Verona è emerso il “popolo del grande sì” dell’innamoramento, nel dopo-Verona si riparte senza sottrarci alle complessità attuali e alla fatica di cercare forme nuove di vicinanza e di sostegno, per uscire ancora una volta da noi stessi e dalle nostre illusioni e ‘arrivare’ lì dove la “fantasia della carità” ci conduce.

A noi religiose viene chiesto in particolare di rendere visibili, attraverso la testimonianza della speranza, le meraviglie operate da Dio nella nostra fragile umanità, affinché la Grazia possa aprire la notte del dolore di ognuno alla luce pasquale del Cristo crocifisso  e risorto.

La dott.ssa Rosanna Virgili cui era stata chiesta la trattazione del tema Fragilità e speranza nella Bibbia,nel suo intervento esamina e riflette su alcune esperienze di fragilità presenti nel testo sacro. Le legge con il cuore, al femminile, e ne deduce il messaggio che la fragilità è il sacramento dell’incontro, perché è il solo che fa entrare, attraverso la comunione, nella speranza.

Chiarisce che i casi di fragilità, al primo impatto, non generano una luce di speranza, ma sono spesso segno di inferiorità e di poco valore.

Come fare allora a coniugare queste due realtà, fragilità e speranza,  così distanti ed estranee e rendere credibile  la possibilità che proprio nell’esperienza della fragilità, si annidi la speranza? La relatrice coglie una risposta nel messaggio che ci viene da alcune figure e situazioni dell’Antico Testamento:

1. La fragilità della madre: Agar (Gn 21,14-21)

Agar, smarrita nel deserto, quando il suo otre ha versato l’ultima goccia di acqua, ha terrore del dolore del figlio, della sua sete…L’urlo d’Ismaele rompe il silenzio sordo del deserto e fa rabbrividire la carne della madre.

La storia di Agar dice che l’impotenza e la fragilità appartengono ad ogni esperienza di maternità, e rimanda a tante donne di oggi impotenti a tenere il figlio sulle proprie spalle ed anche nel proprio grembo. La fragilità di Agar si accende di speranza quando l’angelo del Signore si affaccia sottovoce sul suo cuore devastato e le permette di vedere un pozzo d’acqua. Allora il suo dolore diviene incontro, dialogo e consolazione. 

2. La fragilità dei popoli oppressi (Es 1-2)

Israele geme per la sua schiavitù, urla di dolore a un Altro, il Padre. Accetta il libero confronto con Lui e d’intraprendere la via del deserto, dove scoprirà di essere creatura. Il deserto è il luogo della fragilità per eccellenza: della fame e della sete; della malattia e del pericolo dei nemici; del dubbio sulla presenza di Dio e della paura di essere abbandonati; dello smarrimento e della morte. Il deserto è la metafora biblica dell’esistenza umana. In esso ogni persona potrà trovare la morte se smetterà di gridare. Nel grido invece la vita e il futuro diventano promessa. 

3. La fragilità del corpo (1Sam 1; Gb 7,11-19)

Nella nostra cultura non si accettano i limiti, l’imperfezione e la debolezza del corpo, che deve invece essere bello e forte, in grado di rispondere alle esigenze di una società fortemente concorrenziale. È bandito il sacrificio e negato ogni valore alla sofferenza fisica e psichica, di cui non si riesce certo a cogliere il senso e il valore. Così non accettiamo il limite del non poter avere figli e vogliamo procurarceli a tutti i costi. Il caso di Anna. E il deserto del suo delirio si trasforma in luogo di incontro con lo Spirito di Dio …per cui «il suo volto non fu mai più come prima» (v. 18).

Cappella dell'USMI. Proclamazione della Parola
Cappella dell'USMI. Proclamazione della Parola

4. La fragilità della testimonianza (Ger 12, 1-6; 2 Cor 4, 7-12)

In un contesto in cui le fragilità sono tante e difficili da affrontare, sempre più fragile diventa anche la testimonianza critica del cristiano alla mentalità del nostro tempo. Paolo, vantandosi della debolezza nel Signore, parla della testimonianza “debole”, della fragilità cioè come testimonianza: «…quando sono debole è allora che sono forte». La fragilità diventa come sacramento dell’amore di Cristo, luogo dell’offerta e verità della fede del cristiano.

                   

Mons. Giuseppe Petrocchi ha parlato de La speranza e la fragilità nell’identità della donna consacrata. Egli afferma che la consacrata è per definizione una donna di comunione, chiamata ad arricchire di tenerezza la Chiesa e il mondo. E’ Donna impegnata nel vivere una piena e totale appartenenza a Dio e nel costruire con Lui l’unum della Chiesa, con il mondo tra le braccia e nel cuore. La missione della religiosa infatti (come di ogni persona), è mediata da due schemi autointerpretativi fondamentali che la condizionano nell’approccio agli altri, alle situazioni e alla realtà: - l’Io più (propositivo) di chi è convinto di avere una statura spirituale superiore alla media e che ritiene di sapere sempre come la comunità e gli altri debbano comportarsi; e l’Io meno (impaurito) di chi possiede una bassa autostima, si sente in genere non amato ed è afflitto da un bisogno ossessivo di approvazione nella vita comunitaria e nel servizio pastorale.

Mons. Giuseppe Petrocchi e M. Vitttoria Tomarelli
Mons. Giuseppe Petrocchi e M. Vitttoria Tomarelli

Ci sono poi innumerevoli sotto-schemi auto-percettivi, con i quali osserviamo noi stessi, le persone intorno a noi e tutto ciò che accade. Essi dicono la fragilità nella propria identità. Molti di questi non sono ‘cristianizzabili’ perché esprimono atteggiamenti egocentrici:

-          la tipologia della Star, che ha sempre bisogno dei riflettori e regge poco gli incidenti di percorso; la sindrome della Zarina che chiede esecutività, non collaborazione, e simpatizza solo con chi si rivela ‘vassallo’; la sindrome di Atlante, con l’affanno di chi sente il mondo sulle proprie spalle, mentre segue in tutte le sue scelte la logica dell’essere indispensabile; la sindrome della Cicala, di chi è dominato dalla tendenza indolente  a rimandare e a ‘scaricare’ sugli altri; conclude poco e sbuffa sempre; la sindrome della Crocerossina, avventata e precipitosa, dominata dall’immaginario e da un ottimismo ingenuo

È necessario mettere sotto indagine i propri schemi auto-percettivi perché si potenzi nella persona ciò che è positivo e si lasci alla misericordia di Dio di consumare il resto. Questa è metanoia, ed è nella comunità che deve avvenire, perché le religiose sono ‘con-vocate’: consacrate assieme, unite dallo stesso ‘sì’ nello Spirito. Verificare noi stessi solo nel rapporto personale con Dio è un’illusione. La verifica veritiera avviene fra me e Dio, che incontro nel ‘noi’, altrimenti a muovermi è solo la mia idea di Dio. L’esodo da se stessi non è a misura d’uomo. Via della speranza è nel giocare la propria vita in un rapporto di famiglia e nel vivere la comunità (non solo ‘nella’ comunità). Rimane la differenza, visibile e umana, fra ciò che pensiamo e predichiamo ardentemente e ciò che pratichiamo modestamente. Strada della speranza è il ‘reale’ delle persone concrete che Dio mi ha messo a fianco, palestra per la comunione, e l’apertura a tutti, nessuno escluso. Terapia sanante è vivere in comunità (non quella dello psicologo). La Provvidenza infatti dota ogni comunità del necessario per guarire nell’autopercezione.                                                                         

La dotte.ssa Chiara Palazzini parlando delle dinamiche affettive: sentimenti e relazioni tra certezze e difficoltà ha chiarito che la persona non può definirsi se non in relazione con l’altro; un’autentica vita affettiva rispettosa dell’umano non può che essere un’esperienza di relazione, comprensiva cioè di passione e ragione, di attrattiva e responsabilità. Una società tutta ripiegata sull’immediato e dominata dalla cultura dell’indi­vidualismo, confonde spesso affetto e amore, riducendoli ad emozione e sentimentalismo; a soddisfazione passeggera ed edonismo; a pura passività, incontrollabile dalla libera volontà. Tutto questo rende l’affettività fragile perché la pone fuori dell’orizzonte etico e religioso.

Maria Chiara Palazzini
Maria Chiara Palazzini

Viviamo perciò oggi un falso dilemma: mentre siamo dominati dalla voglia di stringere relazioni significative, non le vogliamo però codificare in legami; stringiamo ogni giorno ‘legami’, da cui teniamo invece lontani gli affetti. La frammentarietà come anche l’indifferenza emotiva  - spesso caratterizzate da relazioni formali – producono vere e proprie patologie, espressione di un’affettività senza speranza. Il “per sempre” oggi spaventa un po’ tutti perché contiene un’ineluttabilità di cui si nota solo l’aspetto gravoso. Il rovescio della medaglia apre invece ad una dimensione luminosa. I religiosi sono chiamati ad essere testimoni di questa luminosità e bellezza pur nella consapevolezza della fatica; a proporre con onestà e autenticità la felicità in cui credono. E’ perciò importante chiedersi a che punto siamo nel cammino, personale e comunitario, di formazione affettiva integrale, umana e spirituale. L’affettività è una cartina di tornasole della buona salute dell’anima. Contiene un bene irrinunciabile da far emergere, educare e liberare. Impegno per un cammino che dura tutta la vita, ma che punta alla qualità propriamente umana e perciò divina dell’affettività. In questa prospettiva la vita affettiva, anche se fragile, rimane valore. Un banco di prova per una testimonianza credibile della speranza cristiana.

Suor Mimma Scalera asc ha portato il gruppo a riflettere su la La convivialità delle differenze e la speranza nel contesto multiculturale. La Chiesa della speranza, partecipe delle gioie e delle speranze, delle angosce e delle tristezze degli uomini, è solidale con ogni uomo e ogni donna, in quanto capace di praticare l’ospitalità, ascoltando la presenza dell’altro, sospendendo il giudizio e promuovendo il dialogo per divenire capaci di intraprendere un nuovo cammino. Questo significa realizzare la “convivialità delle differenze”, e quindi essere chiamati a vivere sulla terra ciò che le tre Persone divine vivono nel cielo: la comunione e la fraternità. Per sr. Mimma è fondamentale allora chiedersi quale progetto socio-culturale e pastorale, capace di elaborare cammini di solidarietà, di accoglienza reciproca e di interazione sia necessario per costruire una società globale che sappia riconoscere nell’altro-diverso una risorsa preziosa per lo sviluppo culturale, sociale, economico e religioso.


sr. Mimma Scalera e p. Lorenzo Prencipe

Padre Lorenzo Prencipe, come responsabile del Centro Studi Emigrazione Roma (CSER), ma anche per le diverse e ricche esperienze fatte nella sua vita, si interessa delle grandi questioni legate alla mobilità umana, emigrazioni e incontri dei popoli. A lui era stato affidato il tema: Noi e le diverse culture: ricchezze e limiti.

Come possiamo assumere nel quotidiano la realtà diversa e plurale? Quali dinamiche permettono di superare gli ostacoli per arrivare ad incontrare l’altra cultura? Il relatore spiega in che modo possiamo considerare ricchezza l’incontro fra culture diverse, superando la tentazione di una comprensione parziale, che porta inevitabilmente allo scontro.

La complessa realtà europea, marcata oggi dalla diversità e da  un pluralismo crescente, può generare un duplice approccio al problema: un pluralismo religioso e culturale come via positiva per il dialogo e l’incontro; oppure un rinnovato clima di “guerra di religione e di civiltà”, soprattutto con l’Islam. Possiamo parlare di interculturalità quando c’è interazione tra persone di culture diverse, senza dimenticare che la coesione di una società si fonda sull’accettazione di regole comuni di comunicazione (il linguaggio), su un sistema giuridico comune (il diritto) e soprattutto sull’impegno costante di educazione interculturale. Tale educazione però riguarda tutti i membri di una società (stranieri ed autoctoni) che, in un contesto di molteplici riferimenti culturali, sono chiamati tutti a mettere in relazione le loro diverse appartenenze identitarie (etniche, religiose, sociali…) con la vocazione universale della persona. L’interculturale è oggi la via obbligata per una Chiesa e una società che vogliano rispettare realmente la nuova composizione del loro tessuto umano. La sfida per l’Europa consiste nella capacità di pensare e costruire una nuova società ‘coesa’. L’interazione tra cittadini perciò è la strada da seguire, necessaria e fondamentale è  la co-passione, che, a livello di esperienza, mette in relazione con donne e uomini portatori di cultura diversa. La co-passione non elimina le differenze, ma cambia il proprio modo di guardare ad esse. Così se siamo fortemente provati dalla fragilità, possiamo però essere trasformati dalla speranza.

Padre Barry Fisher, CPPS, superiore generale, nell’omelia durante la Celebrazione Eucaristica, ha ricordato che l’amore di Dio cammina con noi e ci chiama ad essere presenza che parla e annuncia il Vangelo. La chiamata di Cristo è ad andare come pellegrini della compassione, calice aperto a ricevere i problemi, le angosce e tutta la fragilità degli uomini; a bere la Speranza nel Calice per nutrirci e camminare di nuovo nel mondo portando il dono immenso del Suo amore  e della Sua solidarietà.

Tavola Rotonda

«Provati dalle fragilità e trasformati dalla speranza» 

Le comunicazioni dei relatori e i dialoghi, che ad esse sono seguiti, sono stati per tutti intensi ‘momenti’ di crescita umana e spirituale, quasi un esercitarsi per uno stile di vita più lento, più essenziale, più consapevole e più solidale.

Moderatrice: Suor Eugenia Bonetti MC, responsabile dell’Ufficio “Tratta Donne e Minori” dell’USMI Nazionale

Suor Marzia, che lavora da 40 anni in Somalia, racconta che in quella terra i pochissimi cristiani presenti vivono oggi come nelle catacombe e per i missionari è possibile solo una spiritualità della presenza. Lì i poveri soffrono, muoiono e nessuno se ne cura. Le donne in particolare sono martiri: emarginate e per niente riconosciute. Ma sono questi  poveri la forza delle tre suore che, dopo l’uccisione di sr Lionella,  hanno scelto di rimanere in Somalia  e prima ancora sono l’Eucaristia e la Parola che diventano carne, pensiero, azione e vera comunione fra loro. Quello che soffre la gente è così la forza dei missionari ed essi sono la speranza della gente. Finchè ci sono le suore Dio è con noi, ripetono i musulmani. E le suore continuano a seminare a piene mani senza aspettare ‘frutti’.

Signora Lidia Obando, proveniente dal Nicaragua, già catechista e docente nel suo Paese, laureata in devianza giovanile, entra nelle Acli in Italia, di cui diventa poi membro della direzione nazionale e si interessa della pastorale del lavoro. Migliorare la qualità della vita - a–ferma- comprende lo sviluppo della cura dell’anima. Il suo messaggio è a  vivere la parola di Dio per migliorare anche il proprio cuore insieme  al mondo del lavoro.

Padre Vittorio è francescano e cappellano delle carceri di Regina Coeli a Roma: uno spazio pastorale del tutto particolare, di cui la comunità civile sa poco o niente. Per molte delle persone recluse, prive della libertà e del proprio mondo affettivo, spogliate e degradate, sul vocabolario non esiste più la parola speranza. Il Cristo povero vuole farsi incontrare in carcere e chiede una testimonianza viva di amore, comprensione e speranza. Per descrivere la testimonianza cristiana possibile in una struttura che è il contrario dell’ambiente educativo, in mezzo ad una umanità ferita e sconfitta, Padre Vittorio ricorre a tre parole chiave:

-         Presenza: apertura ad incontrare la persona senza alcuna discriminazione; ad entrare in dialogo (che in carcere assume quasi unicamente la dimensione dell’ascolto) al fine di aiutare ognuno a ricostruirsi un’immagine positiva. Anche chi sbaglia gravemente ha infatti su di sé il progetto del Padre che lo vuole salvo e nel quale è nascosto il senso vero di ogni esistenza umana.

-         Misericordia: in tutte le strade di Trastevere c’è bisogno di misericordia, ma alla Lungara essa deve arrivare a fiumi. Chi è misericordioso ama, ha fiducia e riconosce che ogni uomo, qualsiasi azione abbia compiuto, porta dentro di sé la dignità del figlio. Dio riapre così il percorso della fiducia, lo spazio in cui ricominciare.

-         Speranza: è certo che lo Spirito può cambiare il cuore quando riconosciamo di avere sbagliato. La nostra croce non parla di morte, ma di risurrezione e di vita. Per essere testimoni in questa realtà ci si chiede soprattutto di essere persone serene, che non si lasciano bloccare da niente e che sanno tradurre nel sorriso la propria speranza.

Padre Vittorio si chiede anche se c’è speranza per il dopo-carcere, considerato che chi ne esce parte con problemi infiniti: niente lavoro, niente casa, niente amici… E’ necessaria ai cristiani una riflessione antropologica ed etica, che porti a pensare per il futuro ad una modalità diversa dal carcere, più corrispondente alla sicurezza, alla persona e, in prospettiva, per il dopo- carcere… Pensare ad istituzionalizzare, per esempio, un percorso di rieducazione per chi esce dal carcere.

Suor Eugenia Bonetti racconta, attraverso storie concrete e sconvolgenti di cui ha una conoscenza profonda, sofferta e diretta, il volto della povertà e dell’emarginazione, della discriminazione e dello sfruttamento nel mondo, che oggi assume, sempre più, il volto di donna.

sr. Eugenia Bonetti, moderatrice tavola rotonda
sr. Eugenia Bonetti, moderatrice tavola rotonda

E’ impossibile riassumere la sua relazione così ricca di dati, di riscontri, di vita dolorosa e tragica. E’ stata, per tutti coloro che hanno potuto ascoltarla, una comunicazione di vita, di pensiero e anche di luce intorno ad una realtà che è terreno privilegiato di quella speranza che Dio chiede, in particolare ai religiosi, di testimoniare con risposte concrete suggerite dalla ‘fantasia della carità’. (cfr. relazioni varie in: www.usmi.pcn.net – Archivio)

Luciagnese Cedrone

 

 

 

 

 


 


 

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Modificato giovedì 31 ottobre 2013
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