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Il Convegno
ecclesiale di Verona non aveva fine in se stesso. E allora: come renderlo
attuale giorno dopo giorno? E’ quanto si sono proposte le partecipanti a
questo Convegno, richiamato da sr Vittoria
Tomarelli e sr Emma
Zordan. Le loro parole sono state
come una ventata di freschezza e di entusiasmo, di comunione e di Chiesa.

Sr
Vittoria
ne ripercorre, con agili note e riflessioni, gli obiettivi, i luoghi, i
lavori, il clima insomma, che si è respirato nei giorni di quell’evento.
Introduce, pertanto, questo Convegno, che alla luce di ‘Verona’, fra i
cinque ambiti trasversali di riflessione lì seguiti (vita affettiva,
lavoro e festa, fragilità, tradizione e cittadinanza), ha scelto di
soffermarsi sulle forme e condizioni di esistenza in cui emerge e si
esprime la fragilità umana.
Sr
Emma fa
riflettere l’assemblea sull’obiettivo che il Convegno si propone:
interrogarci sul significato delle diverse fragilità umane e riconoscerle
come caratteristica della nostra vita; guardarle in faccia con la speranza
che ci viene da Gesù risorto; con la forza dello Spirito; senza
nasconderle, imparare ad accoglierle nelle situazioni estreme ed anche,
più semplicemente, nei rapporti quotidiani con ogni creatura; farlo con
discrezione e tenerezza e restituire così ogni fragilità, arricchita di
senso, al cammino della vita.
Concretamente, se a
Verona è emerso il “popolo del grande sì” dell’innamoramento, nel
dopo-Verona si riparte senza sottrarci alle complessità attuali e alla
fatica di cercare forme nuove di vicinanza e di sostegno, per uscire
ancora una volta da noi stessi e dalle nostre illusioni e ‘arrivare’ lì
dove la “fantasia della carità” ci conduce.

A noi religiose
viene chiesto in particolare di rendere visibili, attraverso la
testimonianza della speranza, le meraviglie operate da Dio nella nostra
fragile umanità, affinché la Grazia possa aprire la notte del dolore di
ognuno alla luce pasquale del Cristo crocifisso e risorto.
La dott.ssa
Rosanna Virgili cui era stata chiesta
la trattazione del tema Fragilità e speranza nella Bibbia,nel suo
intervento esamina e riflette su alcune esperienze di fragilità presenti
nel testo sacro. Le legge con il cuore, al femminile, e ne deduce il
messaggio che la fragilità è il sacramento dell’incontro, perché è il solo
che fa entrare, attraverso la comunione, nella speranza.
Chiarisce che i casi
di fragilità, al primo impatto, non generano una luce di speranza, ma sono
spesso segno di inferiorità e di poco valore.
Come fare allora a
coniugare queste due realtà, fragilità e speranza, così distanti ed
estranee e rendere credibile la possibilità che proprio nell’esperienza
della fragilità, si annidi la speranza? La relatrice coglie una risposta
nel messaggio che ci viene da alcune figure e situazioni dell’Antico
Testamento:
1. La
fragilità della madre: Agar
(Gn
21,14-21)
Agar, smarrita nel
deserto, quando il suo otre ha versato l’ultima goccia di acqua, ha
terrore del dolore del figlio, della sua sete…L’urlo d’Ismaele rompe il
silenzio sordo del deserto e fa rabbrividire la carne della madre.
La storia di Agar
dice che l’impotenza e la fragilità appartengono ad ogni esperienza di
maternità, e rimanda a tante donne di oggi impotenti a tenere il figlio
sulle proprie spalle ed anche nel proprio grembo. La fragilità di Agar si
accende di speranza quando l’angelo del Signore si affaccia sottovoce sul
suo cuore devastato e le permette di vedere un pozzo d’acqua. Allora il
suo dolore diviene incontro, dialogo e consolazione.
2. La
fragilità dei popoli oppressi
(Es 1-2)
Israele geme per la
sua schiavitù, urla di dolore a un Altro, il Padre. Accetta il libero
confronto con Lui e d’intraprendere la via del deserto, dove scoprirà di
essere creatura. Il deserto è il luogo della fragilità per eccellenza:
della fame e della sete; della malattia e del pericolo dei nemici; del
dubbio sulla presenza di Dio e della paura di essere abbandonati; dello
smarrimento e della morte. Il deserto è la metafora biblica dell’esistenza
umana. In esso ogni persona potrà trovare la morte se smetterà di gridare.
Nel grido invece la vita e il futuro diventano promessa.
3. La
fragilità del corpo
(1Sam 1; Gb 7,11-19)
Nella nostra cultura
non si accettano i limiti, l’imperfezione e la debolezza del corpo, che
deve invece essere bello e forte, in grado di rispondere alle esigenze di
una società fortemente concorrenziale. È bandito il sacrificio e negato
ogni valore alla sofferenza fisica e psichica, di cui non si riesce certo
a cogliere il senso e il valore. Così non accettiamo il limite del non
poter avere figli e vogliamo procurarceli a tutti i costi. Il caso di
Anna. E il deserto del suo delirio si trasforma in luogo di incontro con
lo Spirito di Dio …per cui «il suo volto non fu mai più come prima»
(v. 18).

Cappella dell'USMI. Proclamazione della Parola
4. La
fragilità della testimonianza
(Ger 12, 1-6; 2 Cor
4, 7-12)
In un contesto in
cui le fragilità sono tante e difficili da affrontare, sempre più fragile
diventa anche la testimonianza critica del cristiano alla mentalità del
nostro tempo. Paolo, vantandosi della debolezza nel Signore, parla della
testimonianza “debole”, della fragilità cioè come testimonianza:
«…quando sono debole è allora che sono forte». La fragilità diventa
come sacramento dell’amore di Cristo, luogo dell’offerta e verità della
fede del cristiano.

Mons. Giuseppe Petrocchi
ha parlato de La speranza e la fragilità nell’identità della donna
consacrata. Egli afferma che la consacrata è per definizione una donna
di comunione, chiamata ad arricchire di tenerezza la Chiesa e il mondo. E’
Donna impegnata nel vivere una piena e totale appartenenza a Dio e nel
costruire con Lui l’unum della Chiesa, con il mondo tra le braccia
e nel cuore. La missione della religiosa infatti (come di ogni persona), è
mediata da due schemi autointerpretativi fondamentali che la condizionano
nell’approccio agli altri, alle situazioni e alla realtà: - l’Io più
(propositivo) di chi è convinto di avere una statura spirituale superiore
alla media e che ritiene di sapere sempre come la comunità e gli altri
debbano comportarsi; e l’Io meno (impaurito) di chi possiede una
bassa autostima, si sente in genere non amato ed è afflitto da un bisogno
ossessivo di approvazione nella vita comunitaria e nel servizio pastorale.

Mons. Giuseppe Petrocchi e M. Vitttoria
Tomarelli
Ci sono poi
innumerevoli sotto-schemi auto-percettivi, con i quali osserviamo noi
stessi, le persone intorno a noi e tutto ciò che accade. Essi dicono la
fragilità nella propria identità. Molti di questi non sono
‘cristianizzabili’ perché esprimono atteggiamenti egocentrici:
-
la
tipologia della Star, che ha sempre bisogno dei riflettori e regge
poco gli incidenti di percorso; la sindrome della Zarina che chiede
esecutività, non collaborazione, e simpatizza solo con chi si rivela ‘vassallo’;
la sindrome di Atlante, con l’affanno di chi sente il mondo sulle
proprie spalle, mentre segue in tutte le sue scelte la logica dell’essere
indispensabile; la sindrome della Cicala, di chi è dominato dalla
tendenza indolente a rimandare e a ‘scaricare’ sugli altri; conclude poco
e sbuffa sempre; la sindrome della Crocerossina, avventata e
precipitosa, dominata dall’immaginario e da un ottimismo ingenuo
È necessario mettere
sotto indagine i propri schemi auto-percettivi perché si potenzi nella
persona ciò che è positivo e si lasci alla misericordia di Dio di
consumare il resto. Questa è metanoia, ed è nella comunità che deve
avvenire, perché le religiose sono ‘con-vocate’: consacrate assieme, unite
dallo stesso ‘sì’ nello Spirito. Verificare noi stessi solo nel rapporto
personale con Dio è un’illusione. La verifica veritiera avviene fra me e
Dio, che incontro nel ‘noi’, altrimenti a muovermi è solo la mia
idea di Dio. L’esodo da se stessi non è a misura d’uomo. Via della
speranza è nel giocare la propria vita in un rapporto di famiglia e nel
vivere la comunità (non solo ‘nella’ comunità). Rimane
la differenza, visibile e umana, fra ciò che pensiamo e predichiamo
ardentemente e ciò che pratichiamo modestamente. Strada della speranza è
il ‘reale’ delle persone concrete che Dio mi ha messo a fianco, palestra
per la comunione, e l’apertura a tutti, nessuno escluso. Terapia sanante è
vivere in comunità (non quella dello psicologo). La Provvidenza infatti
dota ogni comunità del necessario per guarire nell’autopercezione.
La dotte.ssa
Chiara Palazzini parlando delle
dinamiche affettive: sentimenti e relazioni tra certezze e difficoltà
ha chiarito che la persona non può definirsi se non in relazione con
l’altro; un’autentica vita affettiva rispettosa dell’umano non può che
essere un’esperienza di relazione, comprensiva cioè di passione e ragione,
di attrattiva e responsabilità. Una società tutta ripiegata sull’immediato
e dominata dalla cultura dell’individualismo, confonde spesso affetto e
amore, riducendoli ad emozione e sentimentalismo; a soddisfazione
passeggera ed edonismo; a pura passività, incontrollabile dalla libera
volontà. Tutto questo rende l’affettività fragile perché la pone fuori
dell’orizzonte etico e religioso.

Maria Chiara Palazzini
Viviamo perciò oggi un falso dilemma: mentre siamo dominati dalla voglia
di stringere relazioni significative, non le vogliamo però codificare in
legami; stringiamo ogni giorno ‘legami’, da cui teniamo invece lontani gli
affetti. La frammentarietà come anche l’indifferenza emotiva - spesso
caratterizzate da relazioni formali – producono vere e proprie patologie,
espressione di un’affettività senza speranza. Il “per sempre” oggi
spaventa un po’ tutti perché contiene un’ineluttabilità di cui si nota
solo l’aspetto gravoso. Il rovescio della medaglia apre invece ad una
dimensione luminosa. I religiosi sono chiamati ad essere testimoni di
questa luminosità e bellezza pur nella consapevolezza della fatica; a
proporre con onestà e autenticità la felicità in cui credono. E’ perciò
importante chiedersi a che punto siamo nel cammino, personale e
comunitario, di formazione affettiva integrale, umana e spirituale.
L’affettività è una cartina di tornasole della buona salute dell’anima.
Contiene un bene irrinunciabile da far emergere, educare e liberare.
Impegno per un cammino che dura tutta la vita, ma che punta alla qualità
propriamente umana e perciò divina dell’affettività. In questa prospettiva
la vita affettiva, anche se fragile, rimane valore. Un banco di prova per
una testimonianza credibile della speranza cristiana.
Suor
Mimma Scalera
asc ha
portato il gruppo a riflettere su la La convivialità delle differenze e
la speranza nel contesto multiculturale.
La Chiesa
della speranza, partecipe delle gioie e delle speranze, delle angosce e
delle tristezze degli uomini, è solidale con ogni uomo e ogni donna, in
quanto capace di praticare l’ospitalità, ascoltando la presenza
dell’altro, sospendendo il giudizio e promuovendo il dialogo per divenire
capaci di intraprendere un nuovo cammino. Questo significa realizzare la
“convivialità delle differenze”, e quindi essere chiamati a vivere sulla
terra ciò che le tre Persone divine vivono nel cielo: la comunione e la
fraternità. Per sr. Mimma è fondamentale allora chiedersi quale progetto
socio-culturale e pastorale, capace di elaborare cammini di solidarietà,
di accoglienza reciproca e di interazione sia necessario per costruire una
società globale che sappia riconoscere nell’altro-diverso una risorsa
preziosa per lo sviluppo culturale, sociale, economico e religioso.

sr. Mimma Scalera e p. Lorenzo Prencipe
Padre Lorenzo
Prencipe,
come responsabile del Centro Studi Emigrazione Roma (CSER), ma anche per
le diverse e ricche esperienze fatte nella sua vita, si interessa delle
grandi questioni legate alla mobilità umana, emigrazioni e incontri dei
popoli. A lui era stato affidato il tema: Noi e le diverse culture:
ricchezze e limiti.
Come possiamo
assumere nel quotidiano la realtà diversa e plurale? Quali dinamiche
permettono di superare gli ostacoli per arrivare ad incontrare l’altra
cultura? Il relatore spiega in che modo possiamo considerare ricchezza
l’incontro fra culture diverse, superando la tentazione di una
comprensione parziale, che porta inevitabilmente allo scontro.
La complessa realtà
europea, marcata oggi dalla diversità e da un pluralismo crescente, può
generare un duplice approccio al problema: un pluralismo religioso e
culturale come via positiva per il dialogo e l’incontro; oppure un
rinnovato clima di “guerra di religione e di civiltà”, soprattutto con
l’Islam. Possiamo parlare di interculturalità quando c’è interazione tra
persone di culture diverse, senza dimenticare che la coesione di una
società si fonda sull’accettazione di regole comuni di comunicazione (il
linguaggio), su un sistema giuridico comune (il diritto) e soprattutto
sull’impegno costante di educazione interculturale. Tale educazione però
riguarda tutti i membri di una società (stranieri ed autoctoni) che, in un
contesto di molteplici riferimenti culturali, sono chiamati tutti a
mettere in relazione le loro diverse appartenenze identitarie (etniche,
religiose, sociali…) con la vocazione universale della persona.
L’interculturale è oggi la via obbligata per una Chiesa e una società che
vogliano rispettare realmente la nuova composizione del loro tessuto
umano. La sfida per l’Europa consiste nella capacità di pensare e
costruire una nuova società ‘coesa’. L’interazione tra cittadini perciò è
la strada da seguire, necessaria e fondamentale è la co-passione,
che, a livello di esperienza, mette in relazione con donne e uomini
portatori di cultura diversa. La co-passione non elimina le differenze, ma
cambia il proprio modo di guardare ad esse. Così se siamo fortemente
provati dalla fragilità, possiamo però essere trasformati dalla speranza.
Padre Barry Fisher,
CPPS, superiore generale, nell’omelia durante la Celebrazione Eucaristica,
ha ricordato che l’amore di Dio cammina con noi e ci chiama ad essere
presenza che parla e annuncia il Vangelo. La chiamata di Cristo è ad
andare come pellegrini della compassione, calice aperto a ricevere i
problemi, le angosce e tutta la fragilità degli uomini; a bere la Speranza
nel Calice per nutrirci e camminare di nuovo nel mondo portando il dono
immenso del Suo amore e della Sua solidarietà.
Tavola
Rotonda
«Provati dalle fragilità e trasformati dalla speranza»
Le comunicazioni dei relatori
e i dialoghi, che ad esse sono seguiti, sono stati per tutti intensi
‘momenti’ di crescita umana e spirituale, quasi un esercitarsi per uno
stile di vita più lento, più essenziale, più consapevole e più solidale.
Moderatrice:
Suor Eugenia Bonetti MC,
responsabile dell’Ufficio “Tratta Donne e Minori” dell’USMI Nazionale
Suor
Marzia,
che lavora da 40 anni in Somalia, racconta che in quella terra i
pochissimi cristiani presenti vivono oggi come nelle catacombe e per i
missionari è possibile solo una spiritualità della presenza. Lì i
poveri soffrono, muoiono e nessuno se ne cura. Le donne in particolare
sono martiri: emarginate e per niente riconosciute. Ma sono questi poveri
la forza delle tre suore che, dopo l’uccisione di sr Lionella, hanno
scelto di rimanere in Somalia e prima ancora sono l’Eucaristia e la
Parola che diventano carne, pensiero, azione e vera comunione fra loro.
Quello che soffre la gente è così la forza dei missionari ed essi sono la
speranza della gente. Finchè ci sono le suore Dio è con noi,
ripetono i musulmani. E le suore continuano a seminare a piene mani senza
aspettare ‘frutti’.
Signora Lidia Obando,
proveniente dal Nicaragua, già catechista e docente nel suo Paese,
laureata in devianza giovanile, entra nelle Acli in Italia, di cui diventa
poi membro della direzione nazionale e si interessa della pastorale del
lavoro. Migliorare la qualità della vita - a–ferma- comprende lo
sviluppo della cura dell’anima. Il suo messaggio è a vivere la parola
di Dio per migliorare anche il proprio cuore insieme al mondo del lavoro.
Padre Vittorio
è francescano e cappellano delle carceri di Regina Coeli a Roma: uno
spazio pastorale del tutto particolare, di cui la comunità civile sa poco
o niente. Per molte delle persone recluse, prive della libertà e del
proprio mondo affettivo, spogliate e degradate, sul vocabolario non esiste
più la parola speranza. Il Cristo povero vuole farsi incontrare in carcere
e chiede una testimonianza viva di amore, comprensione e speranza. Per
descrivere la testimonianza cristiana possibile in una struttura che è il
contrario dell’ambiente educativo, in mezzo ad una umanità ferita e
sconfitta, Padre Vittorio ricorre a tre parole chiave:
- Presenza:
apertura ad incontrare la persona senza alcuna discriminazione; ad entrare
in dialogo (che in carcere assume quasi unicamente la dimensione
dell’ascolto) al fine di aiutare ognuno a ricostruirsi un’immagine
positiva. Anche chi sbaglia gravemente ha infatti su di sé il progetto del
Padre che lo vuole salvo e nel quale è nascosto il senso vero di ogni
esistenza umana.
- Misericordia:
in tutte le strade di Trastevere c’è bisogno di misericordia, ma alla
Lungara essa deve arrivare a fiumi. Chi è misericordioso ama, ha fiducia e
riconosce che ogni uomo, qualsiasi azione abbia compiuto, porta dentro di
sé la dignità del figlio. Dio riapre così il percorso della fiducia, lo
spazio in cui ricominciare.
- Speranza:
è certo che lo Spirito può cambiare il cuore quando riconosciamo di avere
sbagliato. La nostra croce non parla di morte, ma di risurrezione e di
vita. Per essere testimoni in questa realtà ci si chiede soprattutto di
essere persone serene, che non si lasciano bloccare da niente e che sanno
tradurre nel sorriso la propria speranza.
Padre Vittorio si chiede anche se c’è
speranza per il dopo-carcere, considerato che chi ne esce
parte con problemi infiniti: niente lavoro, niente casa, niente amici… E’
necessaria ai cristiani una riflessione antropologica ed etica, che porti
a pensare per il futuro ad una modalità diversa dal carcere, più
corrispondente alla sicurezza, alla persona e, in prospettiva, per il
dopo- carcere… Pensare ad istituzionalizzare, per esempio, un percorso di
rieducazione per chi esce dal carcere.
Suor
Eugenia Bonetti
racconta, attraverso
storie concrete e sconvolgenti di cui ha una conoscenza profonda, sofferta
e diretta, il volto della povertà e dell’emarginazione, della
discriminazione e dello sfruttamento nel mondo, che oggi assume, sempre
più, il volto di donna.

sr. Eugenia Bonetti, moderatrice tavola
rotonda
E’ impossibile
riassumere la sua relazione così ricca di dati, di riscontri, di vita
dolorosa e tragica. E’ stata, per tutti coloro che hanno potuto
ascoltarla, una comunicazione di vita, di pensiero e anche di luce intorno
ad una realtà che è terreno privilegiato di quella speranza che Dio
chiede, in particolare ai religiosi, di testimoniare con risposte concrete
suggerite dalla ‘fantasia della carità’. (cfr. relazioni varie in:
www.usmi.pcn.net – Archivio)
Luciagnese
Cedrone
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