passione per Cristo,
passione per l’Umanità

Il Congresso mondiale
sulla Vita Consacrata

nelle parole di Mons. Gianfranco Ravasi


Rita Salerno (a cura)

 

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 L’avevamo promesso! Ora siamo al compimento. Il Congresso sulla Vita Consacrata non può e non deve restare un glorioso, felice, ben organizzato momento della storia della Chiesa. I molti e significativi punti illuminanti devono continuare a essere luce; le proposte o le suggestioni devono tradursi in realtà nei contesti più molteplici nei quali religiose e religiosi si trovano a vivere e operare. Non vorremmo che fra un po’ di anni, non molti, si dovesse ripetere la domanda: che ne è rimasto? A che è servito? E’ stato – a testimonianza comune - una esperienza forte, un dono dello Spirito alla sua Chiesa. E che ne pensa chi è rimasto fuori, non vi ha partecipato, ma comunque ha seguito l’evento e ha un “suo” pensiero?

 

Come incarnare oggi la “passione per Cristo, passione per l’umanità”, filo conduttore dei lavori del Congresso Mondiale che si è svolto a Roma nel novembre scorso?

“Terrei come punto di riferimento soprattutto la figura centrale di questa frase, la persona di Cristo, che si presenta sostanzialmente all’interno della teologia con i due grandi volti che sono stati cantati dal prologo del Vangelo di Giovanni. Da una parte, abbiamo logos, cioè la trascendenza, la divinità, l’Assoluto, l’eterno. E dall’altra parte, abbiamo sarx cioè la carne, la storia, la contingenza, il relativo, la debolezza, la miseria della vicenda umana. In questa luce, se si tiene la barra della navigazione della vita spirituale puntata sulla figura di Cristo, è inevitabile per il cristiano essere ininterrottamente testimone di Gesù nell’umanità e per l’umanità.

A maggior ragione, coloro che hanno dedicato integralmente la loro esistenza all’annuncio del Regno. In questo senso, devono ininterrottamente costruire una loro spiritualità, una loro fede, di grande intensità, di grande approfondimento di tipo teologico che deve avvenire a tutti i livelli non soltanto in alcuni ambiti delle varie congregazioni religiose. Dall’altra parte, devono essere capaci, ciascuno per il proprio carisma e in base alla propria vocazione, di essere sempre presenti all’interno della storia dell’umanità. Continuamente attenti a declinare quel messaggio che hanno ricevuto come ha fatto Cristo, che dopotutto non dimentichiamo mai, all’interno dei Vangeli presenta sì l’annuncio del Regno, ma anche continua a ricordare che bisogna ungere di olio gli infermi e liberare dal male le creature. E che occorre continuamente andare per le strade dei lebbrosi, di tutti coloro cioè che sono sofferenti e quindi far scattare questa passione profonda per l’umanità”.

 

A Suo avviso, come è percepita oggi dall’opinione pubblica italiana la vita consacrata?

“Se teniamo come punto di riferimento la televisione, che è il mezzo egemone, oltre a una certa tradizione cinematografica, dobbiamo dire che costantemente sono stati due i profili che sono stati offerti. Qualche volta in maniera abbastanza banale, a volte più intensa o forse anche più provocatoria. Da un lato, c’è sicuramente la concezione della vita consacrata come qualcosa di alonato di luce, di trasfigurato, anche magari alcune volte, acuta. È evidente il tentativo di mostrare una scelta di totale consacrazione, di totale felicità interiore e anche di totale generosità. Alla Biblioteca Ambrosiana si è appena conclusa una mostra, che è durata alcune settimane, di una fotografa Grazia Alissi, nota per essersi cimentata con i personaggi dello spettacolo e del panorama musicale. La Alissi ha deciso di dedicarsi, da tempo, a istantanee d’arte di grande intensità proprio dell’esperienza religiosa, soprattutto di quella della vita claustrale, inclusa di tutti coloro che hanno una forte dimensione verticale, come dimensione di consacrazione.

Da un lato, quindi, c’è sicuramente una raffigurazione positiva. Pensiamo a quello che hanno rappresentato le miniserie dedicate recentemente a Don Bosco e a Don Gnocchi. Certamente, qualche volta questo aspetto positivo conosce il sapore della retorica, dell’enfasi, del santino quasi. Una sorta di melassa che è proprio la percezione non autentica della spiritualità, più di superficie. Per questo dico che non bisogna subito inneggiare, ma sviluppare un senso critico nei confronti di questa attenzione.

Dall’altra parte, abbiamo avuto anche delle banalizzazioni attraverso prodotti televisivi o cinematografici, o anche dei veri e propri atti d’accusa, persino ingiusti anche se con qualche fondamento. Penso, ad esempio, al film “Magdalene” ambientato in un collegio inglese dove la formazione religiosa di queste ragazze era scandita da una ipocrisia farisaica giungendo ad evidenti eccessi. O all’ultima pellicola di Almodovar “La mala educacion”, esempio di pellicola che introduce elementi oscuri che rappresentano una forma di ribellione e di sfregio nei confronti di un’esperienza che ha inciso profondamente nella storia della cultura e dell’umanità occidentale come quella religiosa.

Per questo motivo, sono portato a dire che di fronte a questa domanda, il giudizio è duplice: da un lato, c’è un ritorno al gusto e al desiderio di conoscere questo mondo che è per certi versi al di là di una siepe, dall’altro lato c’è qualcuno che entra dentro con tutti e due i piedi e cerca di calpestarne non soltanto i sentieri che meritano di essere percorsi ma anche le aiuole”.

 

La televisione e più in generale i mezzi di comunicazione di massa possono contribuire alla causa dell’evangelizzazione? Si può parlare di corretta veicolazione del messaggio?

“Sicuramente devono contribuire. Perché questo è il linguaggio del nostro tempo, della comunicazione, soprattutto direi la televisione. Fermo restando che tutti gli altri mezzi, la stampa in particolare, hanno una funzione costante e decisiva. Bisogna scommettere su queste risorse. Ma con due riserve. La prima attenzione è quella che coloro che praticano questi mezzi, mi riferisco agli addetti ai lavori e non ai fruitori, devono conoscerne il linguaggio e i meccanismi. Non si va da sprovveduti, all’interno di strumenti, immaginando di essere spontaneamente portati, istintivamente destinati a questa opera. Bisogna avere una preparazione, occorre essere anche capaci di calibrare i propri interventi. Ricevo spesso da sacerdoti e da religiosi testi e articoli che desidererebbero fossero pubblicati sui settimanali o sui quotidiani a cui collaboro. Ebbene, non hanno neppure vagamente il senso del genere letterario del giornale, che pure leggono. E immaginano che il giornale sia in grado di sopportare venti pagine delle loro elucubrazioni. Non hanno neppure il senso esatto del come si comunica, pur avendo magari dei messaggi degni di rispetto.

La seconda attenzione è di non cedere al rischio di un’eccessiva presenza sul mezzo. La Cei giustamente ha emanato un direttorio per cercare di arginare una certa presenza di religiosi nei mezzi di comunicazione, soprattutto quelli di immagine. Una presenza che risulta non di rado mancante di stile cristiano e di stile umano. Il desiderio dell’esposizione assomiglia molto, per certi versi, ad una droga. Bisogna essere capaci di astinenza, bisogna essere capaci di capire che quando si va in certi programmi, necessariamente il contesto è decisivo e riesce a fuorviare chiunque, anche chi pensa di andare ad annunciare la Parola. Il contesto banalizza e certe volte diventa un boomerang nei confronti della persona che si illude di poter lanciare un messaggio. Saper rinunciare al programma che ha bisogno della presenza del religioso, per fare notizia, consci che si può finire triturati e ridotti non dico a presenza di macchietta, ma certamente che non ha raggiunto lo scopo prefissato.

Preparazione, dunque, e cautela nel trattare i mezzi di comunicazione di massa”.

 

Quale il contributo che le persone consacrate possono offrire alla società attuale?

“Credo che se ci guardiamo alle spalle la vicenda delle persone consacrate è sempre stata ritmata, per dirla con l’espressione di un grande teologo morto nei campi di concentramento nazisti Dietrich Bonhoeffer, su due aggettivi: hanno annunciato da una parte le realtà penultime e la loro funzione era quella soprattutto di annunziare le realtà ultime. Le penultime sono tutte le strutture caritative, i centri di impegno sociale, di amore verso il prossimo, sulla base del capitolo venticinquesimo di Matteo. Dobbiamo dire che sicuramente la dimensione penultima, quella che appartiene alla storia in cui siamo, è sempre stata praticata e deve essere ancora praticata. Sia pure con l’ormai diversa sensibilità. Ci sono, infatti, tante persone consacrate che guidano o sono impegnate nelle strutture ad esempio del settore dell’assistenza sanitaria che sono davvero all’avanguardia.

Detto questo, però, ciò che il mondo aspetta da loro è che siano capaci di mostrare il senso ultimo dell’esistenza. che siano capaci di parlare di vita e di morte, di bene e di male, di etica. Di presentare degnamente il Vangelo e la forza trascinante delle Beatitudini. In questa luce, credo che ci sarà sempre da fare e che sarà necessario un rigoroso esame di coscienza da parte delle persone consacrate. Per capire se hanno saputo essere, come disse Gesù, non soltanto lievito nella storia ma anche la città sul monte, la luce che viene posta sul candelabro e che indica alla fine direzioni, proiezioni, itinerari che vanno oltre le mode e i modi del tempo, che vanno oltre ciò che dobbiamo mangiare e bere, cose pur fondamentali appartenenti alla storia. Per eccellenza, la persona consacrata è il segno del Regno di Dio ed è questo che deve essere mostrato in maniera la più trasparente possibile”.

 

Ritiene che dopo l’undici settembre 2001 anche la vita consacrata e dunque le comunità religiose hanno risentito del clima che si è creato?

“Forse questa data ha cambiato molto l’atmosfera e la temperie. Ha cambiato di conseguenza gli stessi conventi, gli stessi monasteri di clausura, non del tutto alieni dall’essere attraversati da questa aria che percorrere tutto il mondo. Può darsi che si sia creato uno stato di tensione maggiore. Credo però il compito delle persone consacrate in un tempo di paura come l’attuale sia quello di non cavalcare questa grande tentazione: la paura dell’altro, il disprezzo dell’altro, cercando di entrare in duello con il mondo musulmano.

Di fronte all’insicurezza del mondo attuale spaventato dal terrorismo, il cristiano e colui che è il testimone di vita consacrata non deve lasciarsi tentare da questa paura memore della frase di Cristo che ha vinto il mondo perché soprattutto ha continuato a ripetere: coraggio, non abbiate paura! È questa, tra l’altro, la frase tipica degli oracoli profetici. In questa luce, la funzione del credente è quella di essere testimone di fiducia e di dialogo, capace di scommettere fino all’ultimo nella possibilità del confronto, prima di estrarre l’arma del duello. Devo riconoscere che molte comunità religiose hanno fatto e fanno molto. Dimostrano di essere proprio il segno del Regno che continua con la sua piccolezza, con il suo essere seme microscopico, ma anche con la sua fecondità”.

 

Per essere segni del Regno nella società, secondo padre Thimothy Radcliffe, i religiosi debbono saper rinunciare a scegliere sempre l’opzione sicura, accettando la precarietà e la vulnerabilità. Condivide questa affermazione?

“Una considerazione che ritengo molto importante e significativa. Affermazione che è poi alla base dell’autentica struttura della fede. Occorrerebbe mostrarla in maniera molto più limpida e folgorante. Julienne Green diceva che finché si è inquieti, si può stare tranquilli. Esiste cioè una inquietudine agostiniana, una ricerca profonda che è segno dell’autenticità della propria fede, la quale è continuamente cammino nell’infinito e nell’eterno di Dio che non si esaurisce mai.

Chi possiede la verità come se fosse una pietra preziosa racchiusa in uno scrigno ed è quindi convinto di avere ormai la sicurezza del futuro, non conosce che cos’è l’autentica fede. Che è quella di Abramo che deve uscire dalla sua terra e mettersi in cammino verso un paese che non conosce. Come quando sale dal monte Moria sulla base di un comando di Dio incomprensibile, pronto a percorrere fino in fondo la salita. O come quando Giacobbe che lotta con Dio nell’oscurità della notte e ne esce ferito. O ancora come quando Giobbe continuamente s’interroga sul mistero del dolore che lo pervade o del male che ci attanaglia e che non si accontenta di spiegazioni di seconda mano ben confezionate ma continua ad interpellare Dio.

Questa vulnerabilità o precarietà non è tanto la scoperta che tutti siamo fragili e limitati, è proprio il senso della relatività delle cose nei confronti della pienezza del Regno di Dio. Questo non vuol dire perdita però di sicurezza interiore, non significa assolutamente agitazione o frenesia, ma avere una pace e una serenità che nasce continuamente dalla ricerca, che nasce dal cammino, dalla domanda dell’uomo. Una vita senza ricerca non mette conto di essere vissuta: diceva Socrate nei suoi Dialoghi di Platone. In questo senso, essere perfetti come è perfetto il Padre vuol dire avere continuamente questa capacità di camminare vedendo cadere tanti sogni, tante sicurezze che il mondo offre continuando a cercare una meta trascendente e come tale, esige che noi abbiamo ininterrottamente a spogliarci dalle mete che abbiamo già raggiunto convinti che siano queste quelle definitive. Sono soltanto le tappe verso la grande rappresentazione finale della Gerusalemme nuova che è cantata dall’Apocalisse”.  

 

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