"VERONA E DOPO VERONA"

        
nelle parole di Brunetto Salvarani


Rita Salerno (a cura di)
 
 

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È direttore, dal gennaio 2005, di CEM Mondialità, mensile e movimento  dei padri saveriani di Brescia, primo laico nella storia sessantennale della rivista. Nel 1995 ha conseguito la licenza in Teologia dell’evangelizzazione presso lo Studio Teologico Accademico Bolognese (STAB) con una tesi in esegesi dell’Antico Testamento su “In difesa di ‘Giobbe e Salomon’, Giacomo Leopardi e la Bibbia”. E’ fra gli esperti nazionali della Caritas Italia, di Pax Christi Italia, di Rinascita cristiana, di Alfa-Omega e del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), e fa parte del Comitato Bibbia Cultura Scuola (comitato che si propone di favorire la presenza del testo sacro e della  tradizione ebraico-cristiana nel curriculum delle nostre istituzioni scolastiche). In quanto membro dell’ATI (Associazione Teologi Italiani e dell’AETC, l’associazione dei teologi europei), ha collaborato con diversi Master post-dottorato, tenendo lezioni su argomenti di carattere biblico e di educazione interculturale, presso le Università Statali di Padova, Siena, Bologna e presso l’Università Cattolica di Milano. Come giornalista ha preso parte al quarto convegno ecclesiale di Verona, le cui prospettive sono l’argomento dell’intervista che ha rilasciato.

Il Papa al convegno di Verona ha ribadito che “la Chiesa non è e non intende essere un agente politico” e che i fedeli laici impegnati in questo campo “operano come cittadini sotto propria personale responsabilità”. Quale immagine di Chiesa emerge, alla luce dei lavori del quarto convegno di Verona e delle parole di Benedetto XVI?

“Emerge l’immagine di una Chiesa italiana che si è concentrata, negli ultimi venti anni, sulle modalità di essere presente nella società. Una grossa operazione di ripensamento dopo la fine dell’unità politica dei cattolici. Questo è stato il grande tema reso obbligatorio dal passaggio dalla prima alla seconda repubblica, con il venir meno del partito dei cattolici, cioè della Democrazia Cristiana, di una stagione in cui la Chiesa italiana aveva affidato più o meno implicitamente le proprie istanze politiche a questo partito. Il tema successivo è stato quanto mai delicato. Probabilmente c’è stato un momento in cui si è covata l’ipotesi di poter rifare la DC.

Credo che le parole di Benedetto XVI citate nella domanda mettano la parola fine a questa ipotesi, se mai fosse ancora presente nell’orizzonte di qualcuno. Questa è una stagione nuova, stagione in cui la Chiesa non ha una longa manus diretta sul piano politico e i laici, come ha detto il Pontefice, operano sotto la propria personale responsabilità. Una sottolineatura importante, a patto però di non rappresentare una totale dismissione rispetto alla comunità. Credo che la questione oggi abbia due risvolti: il primo è che i cittadini laici e cattolici che fanno politica e credo debbano sentirsi sostenuti anche nella discussione e nella riflessione dalla comunità e non di serie b, l’altra è legata alla necessaria attenzione che deve esserci nelle parrocchie e nella Chiesa locale alla politica che non può essere considerata qualcosa da lasciare esclusivamente degli addetti ai lavori. Dovrebbe essere uno dei compiti naturali del credente, senza per questo temere di sporcarsi le mani o di subire giudizi sul piano ideologico. Credo che oggi sia importante che la politica divenga sempre di più un orizzonte di lavoro, di interpretazione della realtà da parte delle Chiese locali. Anche perché questo è quello che succede tutti i giorni, senza che ce ne rendiamo conto. Oggi rischiamo di vedere solo la componente negativa della politica, come gestione del potere o come spartizione, mentre invece c’è tutta una parte rilevante che è legata alla comunità civile, ai rapporti con la città, delle trasformazioni dell’urbe. Su questo piano è decisivo che i laici cattolici siano presenti con il loro contributo e non si tirino indietro”.

Rispetto all’evento di Palermo del 1995, quali sono le differenze e quali i punti in comune?

”Premetto che non sono stato a Palermo e l’ho vissuto attraverso i racconti  dei testimoni e le letture, mentre a Verona ho preso parte come giornalista. È evidente che sono passati undici anni e si sentono molto, nel senso che sono stati un periodo storicamente denso, di accelerazioni di alcuni processi e di freno ad altri, ma soprattutto direi di progressiva erosione della dimensione della cristianità in un paese come l’Italia. Il che non vuol dire che non esista più una dimensione popolare del cattolicesimo italiano, questo che in effetti mi è parso uno dei tratti caratteristici di Verona, forse anche in rapporto a Verona. Nel senso che uno dei filoni che si sono presentati  più chiaramente nella riflessione teologica fondante di Brambilla è questo recupero della dimensione popolare del cattolicesimo in Italia. Si tratta poi di vedere cosa significa e di non giocarlo al ribasso, come lui stesso ha detto, ma di valorizzare questa dimensione. Naturalmente è il compito che ci attende ora. Quello che mi ha colpito è che, mentre a Palermo c’è stata una presa sul serio delle dinamiche del pluralismo religioso che si stanno ormai imponendo all’attenzione di tutti in maniera evidenti e con degli esiti non sempre positivi, a Verona mi è sembrato più sottaciuto. Mi riferisco al fatto che a Palermo al mattino le meditazioni erano state affidate ad un pastore valdese, ad un rabbino, ad un imam musulmano, ad un pope ortodosso. C’era stata una valorizzazione di questa dimensione. A Verona, invece, ci sono stati i saluti di un ebreo, di un valdese e di un ortodosso. L’impressione relativa anche al peso specifico di questa presenza e del tema del dialogo, tema che mi sta particolarmente a cuore, è che non sia stata affrontata in una maniera approfondita. Paradossalmente, a dispetto del documento preparatorio e al punto numero quattordici che riportava l’importanza di lavorare nel campo ecumenico in prospettiva europea. Mi sembra che questa istanza ecumenica e interreligiosa negli interventi in aula e negli esiti dei cinque focus non è emersa molto. So che qualcosa è emerso qua e là nel dibattito innescato dai cinque ambiti, in realtà  non è stato certamente uno degli elementi decisivi. Personalmente, trovo che questo sia se non un passo indietro, certamente una perplessità rispetto a quello che a Palermo era apparsa una traiettoria evidente. È chiaro che la mia è una scelta operata in base ad una angolazione, perché Palermo è stata soprattutto la sottolineatura del Vangelo della carità, mentre Verona è stata soprattutto la sottolineatura della scelta del cattolicesimo popolare come modello italiano che ancora oggi in una stagione come l’attuale di secolarizzazione spinta ha qualcosa da dire. E che probabilmente può tentare di proporsi come modello su scala europea”.

Quale compito attende ora il cattolicesimo italiano dopo Verona? E in particolare quale ruolo potrà ritagliarsi in questo percorso la vita consacrata?

“E’ un compito gravoso, serio. Perché oggi la domanda di essere cristiani seri in un paese come quello nel quale viviamo è impegnativa. Stiamo vivendo una stagione molto delicata, da tanti punti di vista. C’è una evidente erosione di numeri e di significatività del cristianesimo e della vita evangelica in questo paese. Il rischio di indifferenza e di irrilevanza, e in questo concordo  con l’analisi di Ruini, è molto forte. Il compito è quello di ridare senso e significato alla vita del Vangelo, interrogandosi seriamente su ciò che questo comporta. Significa andare a fondo di un processo che implica meno preti e importati da terre a più alta vocazione, accorpamento di parrocchie, presenze a messa ridotte e sempre più di generazioni mature e anziani, anziché di giovani, scarsa partecipazione dei ragazzi alla vita parrocchiale, scarsa incidenza della dimensione associativa e movimentistica che invece negli anni scorsi era sembrata uno degli elementi più caratteristici del periodo postconciliare. Credo che queste cose sia ancora tutte presenti. Senza contare quello che è stato chiamato ‘lo scisma sommerso’. Intendo dire quel fenomeno per cui si verificano abbandoni silenziosi della pratica religiosa e dell’interesse  verso la religione, senza che questo venga percepito come un problema serio. Tutto questo è qualcosa di molto impegnativo. Mi sembra che Verona abbia colto qua e là qualche aspetto di questo scenario, anche se credo che non ancora siano emerse risposte. Probabilmente non è dall’appuntamento veronese che possiamo attenderle. Almeno qualche assunzione di responsabilità maggiore, rispetto ad un tempo opportuno.

È un impegno serio, che ancora oggi ha bisogno di un salto di qualità, anche rispetto a quella dimensione che a me sembra fondamentale della  discussione interna alla Chiesa che vedo ancora poco utilizzata, oltre che lacunosa e frammentaria. Mi sembra che ci sia un certo silenzio rispetto ad alcuni temi scottanti e poca voglia di dibatterli anche al proprio interno. È questo un aspetto evidente, anche se si studiano attentamente alcune scelte culturali di questi anni. Non va dimenticato il ruolo della vita consacrata, dal mio punto di vista, che è a mio avviso la grande ricchezza della Chiesa. E non si tratta solo una affermazione di principio. Ma di una valorizzazione di percorsi diversi che è difficile immaginare oggi. Perché credo che uno dei problemi seri sia quello che si fa fatica a riprendere in mano il discorso tutto paolino della valorizzazione dei carismi. In questa Chiesa ci sono molti carismi, anche nascosti, che vivono una dimensione quasi sotterranea. Occorrerebbe che la gerarchia si interrogasse su come valorizzare questa grande ricchezza di carismi. All’interno di questo, la vita consacrata con la sua sensibilità specialmente sulla preghiera e sulla dedizione al misticismo, è secondo me un bene prezioso e moderno. Per niente antiquata o sorpassata. Questo è un grande punto interrogativo perché il mio auspicio è che si ritagli un grande spazio. Le voci che dicono qualcosa di nuovo oggi vengono spesso dal mondo degli ordini religiosi o dal nuovo monachesimo. Credo che sia un segnale che andrebbe maggiormente considerato”.

Quale proposta dell’esperienza cristiana è rivolta all’uomo di oggi?

“Questa la domanda delle domande. Si potrebbe dividere in due: quale proposta è fatta oggi e quale andrebbe fatta, alla luce anche della situazione attuale. Credo che la proposta che viene fatta concretamente sia piuttosto impostata su una appartenenza di tipo tradizionale o tradizionalista addirittura. Dove i valori sono di una appartenenza tradizionale, dell’identità cattolica di questo paese e della condivisione di alcuni valori e non di altri, che vengono sottolineati. Per esempio, quelli fondamentali oggi definiti non negoziabili. Accanto a questi, ce ne sono altri, abbastanza trascurati. Trovo che questo sia una cosa che rischia di far perdere un aspetto non secondario dell’esperienza cristiana. Mi riferisco ad esempio a tutti quei valori che riguardano l’ambito della pace, della giustizia sociale, dell’apertura agli ultimi. Credo che più utilmente l’esperienza cristiana troverebbe una rispondenza se fosse più completa, più evangelica. In fondo, il valore fondamentale è Gesù. il tema facile e difficile allo stesso tempo sarebbe quello di proporre Gesù come l’Uomo che ha saputo interpretare fino in fondo la figliolanza con Dio e l’apertura agli altri in maniera sublime. E di questo credo che l’uomo di oggi abbia molto bisogno”.

Padre Bartolomeo Sorge, direttore della rivista “Aggiornamenti Sociali” in un articolo ha lanciato la proposta di un luogo nel quale pastori e laici si possano incontrare per confrontarsi. Che ne pensa?

“Penso che sarebbe importante dibatterne e parlarne. Posto che lo vedrei bene, temo anche l’esito di alcune forme di democrazia partecipativa, che si sono diffuse nel periodo postconciliare e che poi non hanno trovato una rispondenza reale alle esigenze della Chiesa locale. Penso ad esempio ai consigli pastorali che per quello che io vedo sono esperienze che hanno il fiato grosso. Certamente a Verona è emersa, segnale di una certa arretratezza culturale, la volontà di contare di più da parte dei laici nelle dinamiche ecclesiali. Sacrosanto e ovvio. Ma negativo perché emerso in una modalità a mio avviso vecchia e superata, come se la questione sia che i laici deve avere più spazio rispetto ai preti perché i preti dovrebbero ritrarsi e cedere loro spazi e potere. tutto questo mi ha fatto venire in mente dibattiti di molti anni fa, del postconcilio, che in fondo credevo superati. Se il tema è questo, questa modalità non mi entusiasma. Se invece dietro questa istanza ci fosse, come mi auguro, il tema della valorizzazione dell’opinione pubblica all’interno della Chiesa e di un dibattito reale, lo troverei sacrosanto e benvenuto”.

Il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano e presidente del Comitato preparatorio, ha auspicato per la Chiesa e per la società quella che ha definito la “triade” ovvero un cammino di comunione, collaborazione e corresponsabilità. Come valuta questo auspicio? Questa “triade”, a Suo avviso, è riservata all’Italia o serve per ogni Chiesa locale?  

“Lo valuto molto positivamente anche perché è legato ad una traiettoria che già aveva cercato di darsi la Chiesa italiana. Penso che sia valido non solo per l’Italia in generale, ma anche per ogni Chiesa locale”.

Nel corso dei lavori è emersa una singolare urgenza per la missione della Chiesa di fronte alla distanza che oggi sussiste tra fede cristiana e mentalità contemporanea. Come rispondere a questa sfida?

“Credo che si può rispondere innanzitutto prendendo sul serio il Vangelo e cercando di interrogare il Vangelo su quanto sta accadendo sul piano culturale. Le dinamiche culturali e il Vangelo devono essere al centro di questa sfida, cioè la Bibbia e il giornale, per dirla alla maniera di Karl Barth. Si è parlato della seconda fase del progetto culturale. Certamente potrebbe essere interessante, occorre però vedere in che modo si dipanerà”.

Non basta essere credenti: bisogna essere credibili” potrebbe essere lo slogan del convegno di Verona, che a detta di alcuni osservatori, non è stato centrato appieno. Quali, a Suo giudizio, i punti deboli della proposta di Verona?   

“Se si è davvero credenti fino in fondo, si è anche credibili: questa la battuta che la domanda mi suscita. Ho l’impressione che il punto debole, per me, è stato quello che è stato definito dai giornali lo sdoganamento degli atei devoti. Questa idea del cristianesimo come religione civile che potrebbe rispondere alla fine della cristianità secondo me è una illusione perché certe dinamiche non tornano indietro. Non ci aiuta a fare dei passi in avanti, ma ci fa rischiare di illuderci di poter tornare alle stagioni che invece non torneranno più. La Chiesa deve fare i conti con situazioni di minorità che però possono anche essere occasione di rinnovamento”.

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