aVVENTO, ECUMENISMO,
CONCISTORO ED ALTRO

        
nelle parole del Prof. Luciano Nicastro


Rita Salerno (a cura di)


 

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Luciano Nicastro è nato a Ragusa nel 1942, laureato in Filosofia alla Cattolica di Milano e in Sociologia all’Università degli Studi di Urbino, è stato per molti anni professore di filosofia e storia al Liceo Scientifico “E. Fermi” di Ragusa.

Filosofo e sociologo di orientamento “mounieriano”, è attualmente docente di antropologia filosofica presso l’Istituto Teologico Ibleo  di Ragusa e docente  di Sociologia delle Migrazioni e di Sociologia dell’educazione alla LUMSA di Caltanissetta. È autore di numerosi libri, tra cui  “La rivoluzione di Mounier”, “La politica, una passione inutile?”, “Quo vadis? -  una moderna lettera a Diogneto”  159), una ricerca su “Fede e laicità: tra fondamentalismo e insignificanza”  e il recentissimo “Un Vescovo per il nostro tempo” – Scritti in ricordo di Monsignor Cataldo Naro. A lui abbiamo rivolto alcune domande su tematiche di stretta attualità ecclesiale.


Siamo in periodo d’Avvento: quali suggerimenti può offrire al credente per vivere questo momento nel giusto spirito?

 “C’è innanzitutto da precisare il contesto. La rimozione di Dio è l’epigono della tarda modernità, è l’aria che respiriamo. Nel senso che anche i credenti oggi sono coinvolti in questa generale atmosfera di rimozione di Dio almeno nel segno di una sua “riduzione” ad un bisogno puramente soggettivo e privato. Spesso il Natale diventa un fatto ‘ad intra’ del  credente e della Chiesa, più che un “Evento” dell’intimità della persona, della famiglia e della pubblica società. Non si tratta di “riprendere” nostalgicamente la società cristiana del passato, ma di ricostruire, nelle mutate condizioni storiche della nostra società “multiculturale”, il senso del Natale di Gesù Cristo per ogni credente, sia egli cristiano e cattolico o appartenente ad altre confessioni religiose, o ateo o indifferente (chiuso nel suo dramma di vivere!) in modo tale che ridiventi nella vita individuale e nella società globale delle tante città un evento pubblico significativo di liberazione e di speranza, cioè tempo della fraternità e della comunione con i più bisognosi. Mi spiego: il senso autentico del Natale di Dio, di un Dio oggettivamente uno e unico nella natura deve passare da una nuova e più diffusa coscienza e convinzione. Non è più possibile, ne ha senso per l’uomo contemporaneo concepire Dio in modo astratto e separato dalla condizione umana e dal futuro dell’uomo.

L’evento nuovo della multiculturalità è il nuovo altare della varietà plurale dove Dio continua la sua incarnazione nella storia degli uomini, delle società e dei popoli. Il fatto “nuovo” della società “multiculturale” ci porta a considerare quindi questo Natale non tanto come una delle tante feste religiose, minacciate dal consumismo e dal vicolo cieco della società secolare, ma come ricerca e scoperta di un Vangelo per l’uomo d’oggi. Il Natale cristiano è ancora una ‘buona novella’ perché realizza un evento salvifico “universalista” che riguarda e tocca tutti. Non si può celebrare nella  polemica apologetica ma per la legittima difesa delle nostre antiche tradizioni religiose e dello stesso sacro valore  della libertà religiosa non possiamo accettare ‘cancellazioni laiciste’ dei nostri simboli ed eventi religiosi.

E’ ora di affermare insieme a un cristianesimo dolce, “un Natale di Dio”  per tutti gli uomini del nostro tempo, nella società globale di casa nostra. Dio appartiene a tutti perché egli è il Creatore, il Padre e il Redentore di tutti. Il Natale per il credente poi deve essere, a sua volta, una riscoperta del volto di Dio che è Amore, come ha sottolineato nella sua prima enciclica Papa Benedetto XVI. Al Dio di tutti, che è Amore, si perviene non attraverso l’arida ragione, né mediante il conflitto religioso, ma attraverso l’esperienza diversa e profonda dell’amore verso gli uomini, che porta la stessa ragione ad aprirsi oltre lo sperimentale verso orizzonti di trascendenza, a tentare visioni più coraggiose e meno integraliste, soprattutto meno trionfalistiche e meno disincarnate”. Il Natale di Dio si precisa come un orizzonte di senso più ottimistico, come inclusione fiduciosa e universale nella storia della Salvezza del Dio Crocifisso, morto e Risorto”.


Cosa dice alla Chiesa l’Avvento?

“In realtà, in questa fase forse l’Avvento sembra una finzione rituale del cuore e della ragione più che una speranza escatologica. C’è chi ha adottato la dizione beneaugurate, che sembra più laica, più “multiculturale e multireligiosa”, di Buone Feste, ma in questo caso si spegne nel silenzio del Natale di Dio la vera speranza e l’augurio come progetto vivo sul piano esistenziale ed escatologico. La Chiesa di oggi sembra ritornata alla paura del nemico e si chiude nelle sue certezze. Sembra aver dimenticato che senza la dimora di Dio in noi, cioè senza l’incarnazione di Dio che è progetto e realtà di resurrezione non è possibile alcuna vera civilizzazione, né una nuova evangelizzazione per ritrovare quel “Deus absconditus”  (S. Agostino) che la fede della Chiesa ci ha fatto riscoprire lungo i secoli. Il volto del Dio ignoto (S. Paolo) è il Signore, il Cristo implicito, presente in tutte le religioni monoteistiche. Non è soltanto la commozione del Natale che bisogna rinnovare, riprendere o riscoprire ma una nuova coscienza del Natale.

Nella Chiesa di oggi l’avvento dovrebbe essere l’occasione per andare a Betlemme da bambini a ritrovare il Dio bambino delle Religioni, di tutte le religioni, il fondamento comune, liberante e rispettoso, non il Dominus di una parte ma il Padre di tutti. E’ il momento di recuperare la speranza del Concilio Ecumenico Vaticano II, la pedagogia del dialogo e dei segni dei tempi, la fiducia nell’umanità “colorata” nelle razze e nelle religioni sui sentieri non della competizione per marcare la differenza, ma al contrario, su quelli inesplorati del tutto tessendo fili di dialogo  e di comunione verso tutti gli uomini. Se Dio nel mondo contemporaneo appare  “silente e assente”, ciò dipende dal nostro ostinato “velare” con la tecnica e la potenza il suo volto e con la nostra presunzione coprire il suo cielo.

Dio è il più grande bisogno oggettivo che l’umanità ha oggi  anche se è sentito in modo diverso da ogni singolo uomo, credente o no, nella società della paura, del rischio e dell’incertezza. Se non si trova Dio in Gesù Cristo questo è il risultato, purtroppo, di una nostra omissione sul piano della testimonianza, come diceva Gandhi. Noi non annunciamo il Dio dell’amore che è paziente e misericordioso, non siamo più e sempre “quelli dell’amore più grande”, come era solito dire don Primo Mazzolari quando ci ricordava la parabola di Gesù per cui “non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici”. Molti, anche cristiani, sono preoccupati per la presenza degli immigrati nella nostra vita e nelle nostre città, ma abbiamo dimenticato che Dio in Gesù Cristo è stato un immigrato come noi. Anzi, Dio è un immigrato. Nel senso che oggi Dio non risiede né ha dimora “pubblica” nelle nostre città, è diventato “un clandestino” (cfr. il mio “Fratello immigrato”. EdiArgo 2005).

 
Cosa può dire alla società di oggi l’Avvento?

“L’Avvento, oggi, dovrebbe dilatare i cuori e le menti ad una nuova grande speranza: quella dell’unità futura del genere umano. L’Umanità non ha più un sogno di fratellanza, non è ancora impegnata a realizzare un progetto concreto di globalizzazione della solidarietà da parte di tutti i credenti. Da questo punto di vista, i credenti non possono essere opposti né contrapposti. Le diverse confessioni religiose sono modalità diverse attraverso le quali si incontra Dio e si rivela il Signore della storia, come è stato detto da autorevoli e grandi pensatori cristiani. Noi non possiamo ridurre Dio né adattarlo alle miopie culturali e storiche di alcune società contemporanee. Alla società unidimensionale di oggi Dio apre orizzonti nuovi e inediti di libertà, di solidarietà e di uguaglianza. Alla società individualista, egoista e consumista di oggi Dio apre il cuore verso una nuova speranza, verso la possibilità di costruire “cieli nuovi e terre nuove” a misura dell’uomo persona secondo il progetto del Dio dell’Eden.”


 “Parola di Dio ed ecumenismo”: è il tema scelto per il convegno dei delegati diocesani per l’ecumenismo e il dialogo svoltosi recentemente a Roma, che ha voluto essere in continuità con la terza assemblea ecumenica europea di Sibiu e la XII assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicato alla Parola di Dio nella vita della Chiesa. Un tema quindi straordinariamente attuale, anche se è emerso che pochi italiani si accostano alla Bibbia. In che modo aiutarli a scoprire parole di vita eterna come quelle delle Sacre Scritture?

“Innanzitutto, bisogna dire che la dimestichezza con la Parola di Dio è il frutto di una lunga e paziente catechesi di popolo. Siamo stati, purtroppo, cresciuti nella riduzione concettuale della Parola di Dio a poche frasi o a pochi slogans. Bisognerebbe ripristinare, tra i cristiani, ma in senso lato, anche tra tutti coloro che credono nella trascendenza di Dio, il primato culturale ed esistenziale della Parola di Dio che è “luce gentile” e via, verità e vita. Non è solo padrone, il Dio delle religioni monoteistiche, ma Padre buono e misericordioso che non ha finito di accompagnare l’umanità come ad Emmaus. Come aiutare a scoprire parole di vita eterna come quelle della Bibbia? Bisogna cominciare da un’opera di alfabetizzazione non filologica, ma mistica: occorre pregare con la Scrittura, parlare a Dio con la Sua stessa Parola.

L’ecumenismo ritrova la chiave del suo cammino e il suo cuore proprio nella Parola. Solo che qui scontiamo come cattolici i nostri ritardi. Non ci può essere futuro dell’uomo, né spazio in un mondo migliore se non si riparte dalla comune Parola di Dio, da Cristo che è Parola incarnata e dalla Chiesa che è segno concreto e sacramento della sua Parola. Non possiamo, cioè, pensare ai segni dei tempi e fra questi non includere il nuovo, grande segno dei tempi: che è appunto la riscoperta della Parola di Dio. Mi viene alla mente il cardinale Suhard quando nel ’48 diceva: ‘In questo mondo che Dio ha fatto, Dio non ha più dimora. È divenuto l’Assente’.

L’assenza di Dio in realtà non può essere la mancanza reale e logica del fondamento, ma è l’assenza esistenziale e “pubblica” di un volto paterno, di una “presenza” che dia senso, sicurezza e speranza agli uomini di buona volontà. L’assenza di Dio è stata “gridata” di fronte al male radicale del Novecento, alle guerre di sterminio, all’ateismo di Stato. Forse, più del passato  si sente oggi quest’assenza come allontanamento e alienazione. Si avverte quindi con più forza il bisogno di un Natale meno folcloristico ma più ecumenico e universale. Non però un Natale di Dio indistinto, ma autentico e riconoscibile nel cuore paterno di  Dio. Bisogna quindi alzare il sipario più che sulle tradizioni che cambiano, sul mistero che lo rinnova anche se in forma più “colorita”. E’ stato questo il senso autentico dell’originale intuizione del Presepe di S. Francesco: fare memoria vivente dell’incarnazione del Dio povero che nasce tra i poveri per gli uomini che sono l’umanità povera di tutti i tempi”.


  “L´altro non è un nemico da combattere ma è un fratello da cercare, da incontrare, da aiutare”: è quanto ha dichiarato l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, monsignor Salvatore Nunnari, incontrando una delegazione di Rom. Come possono le religiose aiutare a vivere senza paura l’incontro con i rom?

“Per quanto riguarda la questione dei rom, bisogna cominciare ad operare una riconversione di mente e di cuore. Passare, cioè, dalla atavica diffidenza alla fiduciosa accoglienza fraterna. Dio è stato anche lui, per così dire, un rom. Dio non è un principio da affermare, ma una presenza che dimora anche nell’umanità rom. In fondo, un po’ tutti siamo rom, non nel senso di ladri, ma di zingari senza fissa dimora. Al di là del folclore bisogna guardare la loro emarginazione e prendersene cura. Guardare i rom “dentro le loro catapecchie” per capire le loro e le nostre difficoltà che derivano anche dal perbenismo dei cristiani e dei cattolici, o in senso più ampio, dagli stereotipi e dai pregiudizi di quanti si sentono cittadini di serie A nelle metropoli.

La nostra prevalente tentazione è sempre quella del ghetto. Di ghettizzare, di emarginare, di vivere con un po’ di compassione e non con la bandiera virtuosa della solidarietà. Non c’è Natale di Dio senza i rom. Se traslochiamo Dio dalla Sua dimora nel mondo e nella storia, dalle sofferenze degli uomini, dalla vita dei giovani, dalle menti e dai luoghi di coloro che piangono e soffrono, lo neghiamo nella sua natura. Mi sembrano quanto mai opportune le parole pronunciate dall’arcivescovo monsignor Nunnari.

Non si tratta di assecondare un moto romantico del cuore, ma di affermare la realtà ontologica che è iniziata con l’incarnazione e che si è consolidata definitivamente con la Resurrezione di Cristo: il Figlio di Dio. Il Dio incarnato non solo ha creato per amore, ma ha ricreato con la sua Resurrezione le condizioni di un profondo e definitivo rinnovamento dell’umanità. Dopo Cristo una umanità senza Dio non ha più senso perchè non è in grado di costruire una nuova civiltà per il futuro millennio. Le religiose e i religiosi come i rom hanno il senso del provvisorio perché sono pellegrini che camminano nella luce dell’essenziale. Per quanto riguarda i rom non si deve dimenticare la saggezza “laica” di Bertold Brecht quando diceva: ‘Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati’. La logica ‘moderna’ dei cristiani è sempre il cuore antico della imitazione di Cristo”.


A più di un anno dal quarto convegno ecclesiale di Verona quali le ricadute di questo importante evento di Chiesa?

La speranza umana come segno della speranza cristiana è stato il messaggio più importante affidato ai laici cristiani dal Convegno di Verona ma essa nasce dal processo ontologico, storico e antropologico della Resurrezione di Cristo. La speranza “viva” nasce e rinasce nella Chiesa, dall’Amore di Cristo e cambia il cuore dei peccatori pentiti e la qualità umana degli ambiti vitali ed esistenziali, individuali e sociali. La speranza, che è “un sorriso fra le lacrime” (E. Mounier) è la pastorale di una Chiesa che soffre in tempi “ostili” e sordi ai valori fondanti e non si rassegna né ai confini dello spazio intimo individuale né all’utopismo delle ideologie cristiane, vecchie e nuove. La speranza “viva” genera maturità e libertà di adesione.

Le speranze umane da sole alimentano e si alimentano di illusioni e tradiscono le vere attese della persona e della Società. Nella dimensione trascendente si vive invece il legame profondo e il respiro dell’Eterno. Solo una fede amica della Ragione ed una ragione amica della fede possono costruire una inedita e nuova civiltà dell’Amore e della Pace nell’epoca del dominio di senso e di valore della scienza e della tecnica. “La fede cristiana, purificando la ragione, può dare slancio nuovo alla cultura del nostro tempo” (Padre Bartolomeo Sorge S. J.). “Ruolo guida” specifico, di natura etico-religiosa è quello della Chiesa senza ridursi solo a presenza politica, economica o a forza sociale dei cattolici.


Il 24 novembre scorso Papa Ratzinger ha presieduto il suo secondo concistoro – il primo è stato celebrato il 24  marzo 2006 – ed ha creato 18 nuovi cardinali, di cui dieci – tra gli elettori – sono europei. Quale il ruolo di un principe della Chiesa oggi in una società in costante cambiamento?

Storicamente il cardinalato è legato ad una genesi particolare ed ha una precisa motivazione gerarchico-giuridica. Talvolta è stato percepito come una specie di arena per la scelta del Papa o di ‘Vestale del tempio’ per lo splendore e la gloria della Chiesa. A mio modo di vedere va recuperata l’intuizione di Papa Giovanni XXIII che volle tutti i cardinali “vescovi” innovando l’antica tradizione e affermando uguale dignità e prerogative più pastorali.

I cardinali sono ormai i profeti della nuova evangelizzazione, i fratelli maggiori del Collegio apostolico contemporaneo che comprende tutti i vescovi attorno e in comunione con il Vicario di Cristo. Sono diventati non tanto ‘i Generali di assalto’ ma le avanguardie pastorali dell’annuncio fedele, della missione generosa e della testimonianza eroica sino al martirio, ‘quelli dello splendore della povertà della chiesa’ che privilegiano, incontrano e toccano ‘i più poveri tra i poveri’, secondo la logica e la testimonianza della Beata Madre Teresa di Calcutta”.

 

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