Per una teologia utile...
 

nelle parole del
prof. MICHELE SORICE
 

a cura di R. Salerno

     (novembre 2011)

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Internet e new media sempre più agorà del messaggio evangelico. Internet e new media, infatti, stanno diventando un elemento costitutivo della società di oggi con i quali non possiamo non fare i conti. La Chiesa, da sempre “esperta di umanità”, non è indifferente a questi mutamenti, consapevole com’è dei rischi legati all’uso dei media tradizionali come delle enormi potenzialità positive dei new media e di internet. Abbiamo rivolto alcune domande sul tema al professor Michele Sorice, docente di Comunicazione Politica e di Sociologia della comunicazione alla Facoltà di Scienze Politiche della LUISS “Guido Carli”, dove dirige il Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini” e membro dell’Advisory Board del Media and Politics Group della Political Studies Association of the UK.  Inoltre è coordinatore, insieme al professor Philip Schlesinger, un network europeo di ricerca sul servizio pubblico e dirige il centro di ricerca internazionale Political Communication Lab. Insegna in qualità di professore invitato Comunicazione Politica e Scienza Politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Quali possono essere i nuovi modi per adeguare la diffusione dei principi cattolici ai nuovi mezzi di comunicazione?

“La Chiesa ha una lunga e importante tradizione di comunicazione. Il messaggio evangelico è un grande annuncio, in effetti, e gli stessi media sono stati usati fin dal loro apparire dalle realtà ecclesiali. Non è un caso che la Radio Vaticana appaia già nel 1930 e finanche i primi esperimenti di radiofonia si debbano all’impegno di un prete di Porto Alegre (Brasile), p. Roberto Landell de Moura, che sperimentava le potenzialità delle onde elettromagnetiche e che riuscì a trasmettere ben più che semplici segnali elettrici persino prima di Marconi. Insomma i mezzi di comunicazione rappresentano da sempre uno dei territori privilegiati di impegno della Chiesa. Anche i documenti del Magistero riconoscono ai media un ruolo di straordinaria importanza sociale; dall’Inter Mirifica alla lettera pastorale del Card. Martini, “Il lembo del mantello”, fino ai tanti interventi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI nei messaggi per le diverse giornate delle comunicazioni sociali. 

Proprio papa Benedetto ci ha indicato il modo per usare in maniera corretta i media: la trasparenza della fonte emittente e la sua credibilità innanzitutto; e poi un atteggiamento di apertura e inclusione che, ovviamente, rifiuta qualunque paura. Ecco, uno dei problemi che talvolta abbiamo è che si percepiscano i media come un pericolo; nel passato si aveva paura della televisione (e prima ancora del cinema e della radio) ora si teme internet e in particolare i social network. Questo atteggiamento sarebbe profondamente sbagliato, oltre che inefficace. I media – e anche i nuovi media – sono abitati da persone, con il loro carico di difetti e potenzialità e, volendo, con i loro peccati e la loro santità.

In altre parole, il primo modo per adeguare la diffusione dei principi cattolici ai media è la presenza: una presenza attenta, critica, consapevole ma liberata da paure e rifiuti preconcetti; il secondo è lo stile dell’apertura: non media e contenuti solo per cattolici ma presenza qualificata dei cattolici; il terzo modo è il riconoscimento del potere dei media ma anche delle loro potenzialità, che significa, fra l’altro, impegnarsi ad acquisire competenze sui linguaggi e sui metodi della comunicazione; il quarto può essere rintracciato nello stile del dialogo. Quest’ultimo aspetto è molto importante perché dovrebbe rappresentare la cifra distintiva della comunicazione dei credenti (ma non solo ovviamente): dialogo inteso non come mera interlocuzione ma come parola che sta in mezzo, a cui tutti possono accedere ma di cui nessuno è proprietario. Questa è la logica soggiacente – almeno in teoria – alle dinamiche comunicative del cosiddetto web 2.0, della comunicazione che garantisce accesso sociale e promuove partecipazione civile. Non è un caso che il tema del dialogo sia stato al centro del Card. Bagnasco nel suo discorso al convegno della CEI dell’aprile 2010, “Testimoni Digitali”, e nel messaggio di Benedetto XVI per la XLIV giornata delle comunicazioni sociali.

In alcuni recenti articoli pubblicati in “La Civiltà Cattolica” padre Antonio Spadaro usa il termine di cyberteologia come intelligenza della fede nel tempo della rete. Cosa ne pensa? Quali possono essere i possibili adattamenti da accogliersi negli orientamenti pastorali?

 “Padre Spadaro rappresenta una delle personalità più significative della riflessione ecclesiale sui media digitali. La sua sensibilità a questi temi è nota: non a caso ha un profilo Facebook seguitissimo ed è molto attivo nella rete. Insomma rappresenta un testimone di quell’atteggiamento di apertura al mondo che un cattolico dovrebbe avere quando usa i media. Il concetto di cyberteologia va proprio in questa direzione di apertura e contaminazione. D’altra parte, una teologia che non irrompe nella prassi di fede è puro esercizio intellettuale e quindi è inutile. O al più può servire solo l’elaborazione accademica.

L’idea di padre Spadaro, che condivido pienamente, è quella di dare spazio all’intelligenza della fede nel tempo della rete. In un recente post, pubblicato proprio sul suo sito – cyberteologia.it – padre Spadaro ricorda le conclusioni a cui è giunto il convegno di Santiago del Cile su Chiesa e comunicazione: «decisa lotta all’esclusione digitale delle persone, studiando nella mappa della connettività della Chiesa dove si trovano le comunità che non hanno accesso alla cultura e allo scambio via internet». Ecco, credo che la cyberteologia abbia una grande potenzialità e, peraltro, si colloca perfettamente in quella cultura della comunicazione come dialogo e apertura al mondo di cui parlavamo prima.

Sempre più spesso si è messi di fronte alla problematica tra cultura e spiritualità che vede il mondo cattolico reticente ad adattarsi e conformarsi alle nuove esigenze. A suo modo di vedere su quali linee essenziali la Chiesa potrebbe portare avanti con successo questa sfida, specie a partire dal territorio?

Io credo che l’opposizione fra cultura e spiritualità sia l’esito di un retaggio antico; quello che vuole la Chiesa come opposta al mondo, il corpo separato dallo spirito, la fede sempre e ineluttabilmente opposta alla ragione. E’ come se l’eresia monofisita non fosse mai morta. In realtà non c’è frattura fra cultura e spiritualità, come non esiste quella fra dimensione storica e tensione alla trascendenza. Il mistero dell’Incarnazione ci dice proprio questo.

Una parte del mondo cattolico vive spesso come insanabile la relazione fra culture digitali e territorio. In realtà esse sono strettamente connesse: ciascuno di noi è al tempo stesso abitante di uno spazio fisico e fruitore di luoghi simbolici (ma assolutamente non irreali) come quelli della rete. L’uno rimanda all’altro. I miei “contatti” in un social network sono spesso parte della mia quotidianità o potrebbero esserlo. Virtuale, d’altra parte, non significa “finto” o “irreale” ma semplicemente ciò che non è ancora presente ma potrebbe manifestarsi. Da questo punto di vista l’opposizione fra reale e virtuale è concettualmente scorretta; inoltre è anche socialmente pericolosa perché induce a pensare alla persona umana come somma di parti separate e non a soggetti che vivono l’esperienza di abitare un tempo (nelle mille possibilità che ci sono offerte dalle tecnologie e dalle reti sociali). Ecco, mi sembra che su questo punto nella Chiesa ci siano ancora paure immotivate che generano comportamenti irresponsabili, come la chiusura al mondo; con la paura di essere contaminati dal “virtuale” (nell’accezione erronea che dicevamo) spesso rischiamo di rifiutare il reale, e quindi i nostri fratelli e le nostre sorelle.

Noto, con un po’ di tristezza, che spesso gli atteggiamenti di chiusura provengono proprio da una parte del laicato, talvolta incapace di seguire i tanti ottimi esempi che provengono da sacerdoti e suore.

Credo che la Chiesa debba fare lo sforzo di aprirsi ancora di più al mondo, accogliendo senza paura la sfida della comunicazione. I presunti pericoli della rete, per esempio, sono gli stessi che abbiamo sempre trovato nelle strade o in tante altre esperienze; cambiano i modi ma restano i pericoli. Restano però anche le opportunità, anzi aumentano: cyberteologia.it insieme a tante altre realtà periferiche e centrali costituiscono esempi concreti di intervento progettuale.

In che modo, a suo avviso, i consacrati dovrebbero vivere e accogliere questa sfida?

Come tutti i credenti. Con l’intelligenza della fede. Per prima cosa è necessario che acquisiscano competenze, non solo tecniche ma anche – e soprattutto – teoriche. E’ importante che si conoscano le regole di funzionamento, le “policies” e le culture della comunicazione. E poi, appunto, che entrino senza paura nel mondo della nuova comunicazione. Siamo nel mondo ma non del mondo. Spesso dimentichiamo una delle due parti; e invece l’una senza l’altra non ha senso.

Quale spazio riservarle all’interno degli anni in seminario?

Questo è un problema molto serio, su cui bisognerebbe aprire un dibattito articolato all’interno della comunità ecclesiale, un tema su cui i Vescovi dovrebbero aiutarci, cercando insieme a tutti i credenti delle possibili risposte.

Sicuramente nei seminari mancano percorsi di studio che aiutino a comprendere la complessità e l’importanza della comunicazione. Un’importanza che non è solo sociale e politica ma che riguarda innanzitutto la formazione della personalità dei futuri religiosi e delle future religiose. E’ un problema che riguarda anche la formazione universitaria: spesso si inviano i giovani preti e le giovani suore a studiare nelle università cattoliche, spingendo affinché tornino presto alle loro diocesi d’origine. La motivazione è nobile: c’è bisogno di persone accanto al popolo. Però il rischio è quello di spingere i giovani ad acquisire una formazione da “praticoni”, poche nozioni, facili da usare nella quotidianità ma una sempre più scarsa formazione culturale, una dimensione critica sempre più leggera.

Un calo nella formazione culturale dei giovani preti (non di tutti ovviamente) è purtroppo evidente; chi di noi insegna anche in università pontificie osserva molto chiaramente il fenomeno.

In questa situazione, il rischio è che si abbandonino alcune aree di studio che sono state la grande conquista del Concilio Vaticano II: le scienze sociali, i fenomeni della comunicazione, l’analisi della relazione fra soggetti e comunità. Non solo queste aree di ricerca non devono essere abbandonate ma dovrebbero essere potenziate, entrare anche nei seminari.

A quali condizioni i cosiddetti “new media” possono integrarsi con profitto con i mezzi tradizionali al fine di favorire una diffusione capillare dei principi cattolici, specie tra i più giovani?

I new media sono già di fatto integrati con i media tradizionali. I processi di convergenza sono ormai a livelli molto avanzati e anche fenomeni come il “cross media story telling” costituiscono parte della nostra quotidianità.

Ancora una volta il tema centrale non riguarda le tecnologie bensì l’uso che ne facciamo. Entrare nella rete, per esempio, significa al tempo stesso stare nei social media, aprire un blog, usare un profilo twitter per dare informazioni o proporre brevi riflessioni ma anche costituire “buzz” (il “chiacchiericcio” in rete, banale ma su cui spesso si costruiscono dinamiche di opinione) sui programmi televisivi o sui modi in cui la stampa informa. Insomma, dovremmo non pensare più ai singoli “media” bensì ragionare in termini sistemici: c’è uno spazio pubblico mediatizzato in cui circolano flussi ininterrotti di informazioni e pezzi di immaginario sociale. Dobbiamo entrare in questo flusso, non per orientarlo ma per proporre testimonianze credibili. Evitare logiche da giudici e assumere l’atteggiamento di chi ascolta. I principi e i valori passano attraverso la credibilità della fonte, il rapporto fiduciario che riusciamo a stabilire con le persone, la presenza da compagni di strada.

E’ possibile stimolare l’interesse per i principi cattolici attraverso un tablet? E come?

Ma certo. Padre Spadaro lo fa da tempo, e non solo lui. Possiamo usare “applicazioni” e magari proporne di nuove, possiamo usare l’arma della curiosità per stimolare i giovani alla scoperta di un messaggio di gioia (ecco, di gioia, non triste e mortifero come a volte si vede in qualche parrocchia…).

Un aneddoto personale, se posso. Qualche tempo fa ero in una chiesa; ho preso il mio iPhone e ho cominciato a usare l’applicazione iBreviary, con cui è possibile seguire la liturgia delle ore. Una signora anziana mi ha guardato con raccapriccio e pena: avrà pensato “ecco il solito perditempo che usa la chiesa per mandare messaggini o peggio”. Non poteva conoscere le applicazioni per gli smartphone e forse dal suo punto di vista poteva anche aver ragione. Più di recente ho preso a usare un tablet. Conosco giovani che, dopo averlo visto, si sono divertiti a scaricare i Breviary e poi la Bibbia e così via. Dal gioco all’interesse, fino alla preghiera.

Forse ci sarà ancora chi storcerà il naso vedendo uno di questi giovani pregare con il tablet ma la cosa importante è che ci sono questi giovani.

Se il “Prologo” dovesse scriverlo oggi, forse Giovanni userebbe un testo multimediale, e lo distribuirebbe su Youtube. La potenza di quel testo sarebbe sempre la stessa: perché non è il supporto a fare la differenza ma la capacità di quello che viene detto di produrre senso. I valori cristiani possono oggi usare un tablet come nel passato si usavano le pergamene: prima di tutto, però, c’è sempre la credibilità e la forza serena di chi testimonia.

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