Le nuove tecnologie
di comunicazione
 
nelle parole di P. Antonio Spadaro

a cura di Rita Salerno

     (3 settembre 2012)

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Gesuita, ha conseguito la licenza in teologia fondamentale e il diploma in comunicazioni sociali, il dottorato di ricerca in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, per poi completare la formazione negli Stati Uniti. Si occupa di critica letteraria, di nuove tecnologie di comunicazione e il loro impatto sul modo di vivere e di pensare. Ha fondato un progetto culturale conosciuto come Bombacarta, e curatore di una collana di poesia delle edizioni Ancora. Dal settembre 2011 è direttore della rivista La Civiltà Cattolica, nonché consultore dal dicembre 2011 del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. La sua attività in rete è legata, oltre alla presenza nei social networks anche alla cura di un sito personale e di due blog: uno dedicato alla scrittrice statunitense Flannery O'Connor e uno incentrato sulla CyberTeologia. Temi di grande attualità su cui gli abbiamo rivolto alcune domande.
 

Il tema del messaggio del Papa per la giornata mondiale delle comunicazioni 2012 accosta il silenzio alla Parola che “se si integrano reciprocamente, fanno acquistare valore e significato alla comunicazione”. Condivide questa affermazione?

“Certamente la condivido. Basti pensare che persino la grammatica ci fa comprendere come una frase non avrebbe senso senza punti e virgole, che sono di fatto espressione di silenzio. E d’altra parte, questo è un punto anche molto importante, non bisogna chiudersi in un elogio del silenzio fine a se stesso. Come se oggi ci fosse bisogno di fare silenzio. Il Papa dice chiaramente che sarebbe sterile un silenzio chiuso in se stesso, sarebbe mutismo e non silenzio. Il silenzio è sempre orientato alla parola. Anche il silenzio è radicalmente comunicativo. Quindi, questa integrazione delineata dal Papa mi sembra una intuizione importante in questo tempo”.
 

In questo scenario la tecnologia al servizio della comunicazione come si colloca?

“Direi come prima cosa che solitamente la tecnologia è percepita come qualcosa di freddo e poco umana, quasi in contrapposizione netta. In realtà non è vero. Lo stesso Benedetto XVI nella sua enciclica “Caritas in veritate” afferma chiaramente che la tecnologia è l’espressione della libertà dell’uomo. Quindi ha a che fare con la sua spiritualità e con la sua moralità. È il luogo in cui l’uomo esprime i suoi desideri e i suoi bisogni. In fondo, restiamo sempre molto colpiti dalle novità, specie tecnologiche. In realtà queste sono solo novità formali che danno espressione ai desideri che l’uomo ha sempre avuto. Bisognerebbe guardare che cosa muove la tecnologia, che cosa la fa essere realmente tale. A mio avviso, quindi si può affermare senza timore di smentite che la tecnologia è spirituale. Cioè, è l’espressione della spiritualità dell’uomo. Dunque, la tecnologia è al servizio della comunicazione nel senso che dà una forma al bisogno di comunicazione che l’uomo da sempre ha avuto”.
 

Ai religiosi e alle religiose quale compito spetta sempre in chiave di comunicazione ed evangelizzazione?

“Il primo compito, secondo me, è di tipo radicale. Cioè di considerare come al tempo della rete e con l’avvento di internet, l’ambiente che si viene a creare non è un mezzo di evangelizzazione. Bisogna stare molto attenti a considerare la rete, meglio l’ambiente digitale, come uno strumento di evangelizzazione. Perché non lo è. Quindi, il primo compito di un credente, in particolare dei religiosi e delle religiose orientati in senso pastorale, è di non immaginare che la rete possa diventare una sorta di martello, di chiodo, di strumentario per una evangelizzazione più efficace. Si entra in questa rete, si vive in questo ambiente, si testimonia la propria fede ognuno con le proprie attitudini e sensibilità. La rete, oggi, sempre di più è un network sociale di fatto. Cioè un luogo in cui i messaggi partono attraverso le relazioni. Quindi, la modalità che una volta esisteva di pura trasmissione – broadcasting – non ha più valore. Oggi, un messaggio passa se è condiviso da più persone. Queste sono secondo me le sfide principali per i religiosi e per le religiose impegnati nella rete”.
 

I social network possono essere utili in questo scenario? E come sfruttano l’integrazione tra silenzio e parola?

“Non sono utili in quanto mezzi, ma come luoghi da abitare con tutte le contraddizioni, i pericoli e i rischi che ci sono. Come, d’altra parte, nella vita. Direi che si collocano in questo scenario dando una forma alla trasmissione dei contenuti. Che non è pura trasmissione del messaggio, ma al contrario è condivisione di questo all’interno di un ambiente, come avviene nei social network. L’integrazione tra silenzio e parola è qualcosa di estremamente delicato. Perché, come facevo notare prima, nel social network se una cosa non è mostrata o detta, di fatto non è condivisa. Bisogna stare attenti a non cadere nella dinamica del troppo detto o di essere molto espliciti. Anche nel social network occorre vivere la dimensione della reticenza, dell’allusione, della simbologia. Specialmente quando parliamo dell’annuncio del Vangelo. Quindi, non basta fare propaganda per raggiungere l’obiettivo. Il Papa stesso nel messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali dello scorso anno ha detto chiaramente che non bisogna fare propaganda del Vangelo come se fosse un messaggio ideologico. Bisogna vivere coerentemente questo ambiente. E quindi, vivere anche la dimensione del silenzio come reticenza, del rinvio silenzioso, della domanda, della questione come la sapienza cristiana ci ha abituati. Direi che il brano evangelico che può fare da icona a questo atteggiamento è quello dei discepoli di Emmaus, quando Gesù è molto reticente e fa sì che dal cuore dei discepoli emerga la sua presenza”. 
 

Lei ha dichiarato ai microfoni di RV che “la grande sfida oggi per la Chiesa non è imparare ad usare il web, ma vivere e pensare bene al tempo della rete”. Questo cosa comporta? E come deve animare la quotidianità dei religiosi e delle religiose?

“La vera questione calda di oggi non è come usare la rete, ma come vivere bene al tempo della rete. Nel senso che oggi la rete è una dimensione della nostra esistenza, una parte della nostra vita è in rete, una parte della nostra capacità di pensare è in rete quindi della nostra relazionalità e dei nostri contatti sono nell’ambiente digitale. Questo significa che non è staccato dal mondo o peggio una alienazione della vita ordinaria. Quindi, non bisogna considerare l’ambiente digitale come astratto rispetto al flusso ordinario della nostra vita. È al contrario una parte integrante della nostra vita.

Questo implica delle questioni specifiche fondamentali per la vita religiosa. Una di queste riguarda la formazione. È chiaro che i giovani sono abituati a convivere con questi mezzi grazie ai cellulari. Tutto questo pone delle sfide alla vita religiosa. Siamo abituati a pensare che l’ingresso nella vita religiosa comporta un distacco dalla vita precedente, uno stacco virtuoso che permette di assumere la sapienza di un ordine religioso, di una congregazione che ha le relazioni tipiche di una comunità. Come far sì che le persone che vivono in ambienti digitali possano entrare nella vita religiosa in maniera seria? Basta staccare i contatti, i cosiddetti fili? A parte il noviziato che è un tempo tutto particolare, come educare successivamente le persone a vivere la rete? Sono tutti interrogativi che rappresentano altrettante sfide per la vita religiosa. A mio avviso, non si può risolvere semplicemente staccando i fili, perché questo rischierebbe di essere una alienazione, oggi come oggi.  Bisogna individuare vie più sapienti che mettano in discussione la persona e la sua presenza nel social network.

Un’altra grande sfida è quella che la rete, essendo un ambiente di vita, permette al carisma di vivere anche in rete attraverso forme di presenza che possono essere anche quelle dei blog. Come può esprimersi in maniera adeguata in rete un carisma?  Questa è la domanda che discende da questa constatazione. E un’altra questione è che in rete ci sono tutti, quindi più carismi partecipano dell’ambiente digitale. Di qui occorre interrogarsi su come promuovere la conoscenza  reciproca tra religiosi e carismi diversi in ordine ad una comunione maggiore. Queste sono secondo me le sfide più stimolanti in questo momento”.
 

La rete può essere considerata un mezzo di evangelizzazione?

“Assolutamente no. Perché è un ambiente, come dicevo prima”.
 

Nel silenzio si colgono – si legge nel messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali – i momenti più autentici della comunicazione tra coloro che si amano. Dobbiamo forse riappropriarci del valore del silenzio anche in famiglia, prendendo spunto dalla famosa frase del film di Fellini “La voce della luna” in cui si afferma che “se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”?

“Penso che la dimensione del silenzio non è mutismo e nemmeno isolamento. Al contrario, la ritengo comunicativa. Il silenzio ha significato se aiuta a vivere bene i rapporti umani. Chiaramente, quelli familiari sono fondamentali per una persona. Nella famiglia c’è una radicale condivisione di vita, dove tutto a partire dalle parole per finire con i gesti e gli umori sono in comunione. A volte il silenzio è più espressivo di mille parole. Il silenzio nella famiglia, come è inteso dal Papa, potrebbe essere quel livello che supera la parola e la sua sovrabbondanza. Noi abbiamo il silenzio comunicativo nel momento in cui la parola non è in grado di esprimere fino in fondo dei contenuti, lasciando spazio al silenzio espressivo”.

rimo piano
Nota.
Per motivi indipendenti dalla nostra volontà, l’intervista viene pubblicata con notevole ritardo in relazione ai tempi nei quali le domande sono state poste all’interlocutore. L'intervista non è stata rivista dall'interessato (
La direzione).

 

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