Comunicazione digitale
ed evangelizzazione
 
nelle parole di don Paolo Padrini

a cura di Rita Salerno

     (12 novembre 2012)

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E’ il tema della comunicazione il filo rosso dei lavori dell’ultima assemblea generale del sinodo dei vescovi che si è svolto in Vaticano dal 7 al 28 ottobre scorso. Un tema non più eludibile che abbiamo affrontato con un esperto d’eccezione: don Paolo Padrini al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Don Paolo Padrini, 38 anni di Novi Ligure (AL), è tra i più noti giornalisti e comunicatori web: tra i suoi progetti è famosa in tutto il mondo l’applicazione iBreviary, per la piattaforma iPhone e iPad, che porta la preghiera cattolica del Breviario per la prima volta al mondo ed in cinque lingue. Collaboratore del Vaticano (PCCS) per il progetto Pope2You (il Papa per i giovani), don Padrini dal 2010 opera con la Custodia di Terra Santa per coordinare il progetto dei siti Internet. Dal 2007 collabora con il gruppo “Blogosfere”, il più importante network di blogger di informazione italiano, curando il blog “Passi Nel Deserto” e realizzando una intesta attività pubblicistica, attenta ai temi della comunicazione, dell’educazione, della società e naturalmente ai temi religiosi letti in un’ottica di dialogo aperto al mondo laico.

Nel 2010, don Padrini ha fondato il teamwork Mediacath (www.mediacath.org) per offrire comunicazione ecclesiale e sociale e consulenza e progettazione di applicazioni editoriali per iPad ed iPhone. Mediacath ha servito San Paolo Digital, edizioni Tracce, ed. Papillon, il Cinematografo (Rivista dell’Ente dello Spettacolo). Don Padrini svolge opera di formazione sui temi della comunicazione web e nuovi media con scuole cattoliche e pubbliche e aziende, tenendo e coordinando corsi con la CEI-Conferenza Episcopale Italiana, ed in particolare con l’Ufficio Comunicazioni Sociali.

Lei si è diplomato alla Pontificia Università Lateranense con una tesi sulle chat “luogo e tempo della comunicazione e dell’incontro”. A suo avviso è davvero possibile parlare di messaggio cristiano e di evangelizzazione anche nelle chat? Ci racconta attraverso la sua concreta esperienza come può avvenire?

“A mio avviso è bene partire da un presupposto: ogni strumento definisce dei filtri e può diventare un muro o una finestra nella nostra comunicazione con il prossimo. Conoscendo i trucchi e il funzionamento degli strumenti che si utilizzano, occorre tenere sempre presente che dall’altra parte c’è comunque e sempre una persona con la quale io debbo entrare in contatto. Dovrò però essere consapevole che con la persona non mi debbo limitare i miei rapporti all’uso di internet, ma interfacciarmi anche attraverso chat e/o social network ormai sono parte integrante con gli strumenti delle chat come face book. Chiaramente deve essere un contatto gestito con serietà, con responsabilità, ricercando ulteriori spazi di approfondimento, passando da una chat ad un rapporto epistolare tramite e-mail, per poi magari passare ad un confronto viso a viso, se le possibilità lo consentono. Per mia esperienza, è capitato di avvicinare persone che avevano bisogno di direzione spirituale, e di approcciarle all’inizio attraverso una conoscenza avvenuta in chat. Non mi sono però limitato a questo mezzo. Anzi. Per un sostegno spirituale sono passato da un contatto tramite chat, per i primi saluti. Il fatto che una persona trovi un prete che dall’altra parte ti sa ascoltare anche solo per pochi minuti, ti dedica un po’ del suo tempo in segno di risposta, aiuta. Poi, certo, bisogna fare in modo che attraverso quella porta che si è aperta, passi un dialogo profondo, che non può per sua stessa natura, trovare in una chat line un luogo adeguato di confronto”.

La sua è stata definita un’intensa attività pastorale a vocazione digitale. Quali caratteristiche deve avere un’attività pastorale su internet? E sugli strumenti come ipad quali accorgimenti deve usare per “bucare il mezzo” ed avere l’attenzione di chi naviga?

“Se mi si permette il gioco di parole l’importante è, per essere pastori su internet, di ricordarsi…di essere pastori. Internet è un luogo abitato da tanti a cominciare da me. Se io che sono sacerdote, mi pongo in un atteggiamento pastorale tale da far veicolare l’incontro non con me, ma attraverso la mia persona con Gesù che sta ad ascoltare, che accoglie, che risponde, che non giudica, ma che converte e cambia i cuori, allora è naturale che questo strumento può assumere la dimensione di un luogo di incontro pastorale. Se cioè mi metto in atteggiamento pastorale, allora si crea l’incontro pastoralità. La pastoralità dello strumento è data dal livello di pastoralità con cui mi pongo nel momento dell’incontro. Questo però senza dimenticare che ci sono strumenti che possono arrivare a certi risultati e non ad altri. Ma, per fortuna, non abbiamo un solo strumento con cui lavorare, ma ne abbiamo molti. Ragion per cui, all’interno di una certa dieta mediatica varia è possibile essere dei buoni pastori utilizzando anche questi mezzi. Siamo pastori dentro, quindi dobbiamo vivere intensamente e nella verità su noi stessi, come pastori della Chiesa anche nell’ambito di internet.

Quanto alla seconda domanda, dobbiamo imparare a conoscere tutti gli strumenti. Ogni strumento ha il suo linguaggio. Un ipad ha il suo, mi comunica delle cose, modifica la mia percezione nei confronti della realtà e delle cose che la abitano. La prima cosa da fare, dunque, è conoscere lo strumento. Se lo conosciamo, riusciamo a bucarlo. Io uso un’altra espressione: modellarlo, cambiarlo, modificarlo. Gli strumenti sono potenti, certo. Ma si possono modellare ai nostri interessi e alle nostre esigenze pastorali. Uno strumento come l’ipad, ad esempio, può essere molto utile e capace di trasmettermi l’idea che è importante pregare e leggere le Sacre Scritture. E’ chiaro che non lo utilizzerò durante le celebrazioni eucaristiche, perché l’ipad ha una comunicazione e un linguaggio che non è adatto per un uso liturgico perché un messale ha un altro tipo di linguaggio perché è uno strumento di altro tipo”.

Come organizzare un concerto in parrocchia? Come muoversi tra blog e social network? Per rispondere a queste e ad altre domande su questi argomenti, numerose diocesi si sono attivate per proporre corsi di formazione per coloro che nelle parrocchie s’interessano degli aspetti relativi alla comunicazione. A suo avviso, le diocesi hanno compreso appieno il ruolo di questi mezzi? E al sinodo appena concluso è stato un aspetto che ha davvero avuto risalto?

“Sappiamo che le nostre diocesi, attraverso il sistema informativo in dotazione alla Cei, hanno sviluppato grosse potenzialità e hanno fatto grossi passi in avanti dal punto di vista della valorizzazione degli strumenti. Se non altro perché hanno compreso che è giusto dotarsi di questi strumenti da utilizzare con intelligenza. Ben vengano allora i corsi di formazione e le attività legate alla conoscenza dei mezzi da avviare costantemente, a mio avviso molto importanti e altrettanto utili.

Per quanto riguarda il Sinodo, certamente già il fatto che sia stato impostato sulla nuova evangelizzazione, ha dato un tono comunicativo a prescindere dal discorso sul dato tecnico che sarebbe stato fuori contesto all’interno di un Sinodo. Devo dire che ci sono stati diversi interventi interessanti dal mio punto di vista, come quello di monsignor Celli, il presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali, che si è soffermato sul tema dei linguaggi e dei nuovi strumenti di comunicazione e sulla necessità per la Chiesa di far diventare questi mezzi dei luoghi abitati nei quali poter incontrare le domande dell’uomo di oggi”.

Come conciliare strumenti così sofisticati con una comunità religiosa, composta da uomini e donne consacrati comprese gli appartenenti agli ordini contemplativi, che tende sempre più ad invecchiare e conseguentemente poco avvezza a certe frequentazioni con ipad, smartphones e pc? Come possono i religiosi e le religiose essere al passo con i tempi in questo ambito?

“Direi soprattutto tenendo presenti alcuni elementi. Primo, per i religiosi esiste una dimensione che è quella della regola di vita. All’interno di questa dinamica, può trovare spazio per un uso sano, l’utilizzo di questi strumenti. Quindi, occorre gestire questi mezzi all’interno della regola della propria comunità. Secondo, direi un’attenzione molto particolare: stare attenti a proporre un utilizzo di questi strumenti anche in modo sereno senza spingere troppo. Perché c’è il rischio che questi strumenti vengano considerati dei luoghi di alterità rispetto alla comunità religiosa. Quasi di fuga, per creare delle relazioni esterne, portandoci a pensare che la nostra è una relazione limitante che non ci soddisfa. Questo sarebbe deprimente per la nostra condizione. Io sono un diocesano ma ho vissuto in seminario. Quindi, ho fatto una esperienza di comunitò. Credo che una delle cose più deleterie sarebbe quella di utilizzare questi strumenti come luoghi di ultra comunità, nel senso di ulteriore rispetto a quella di nostra appartenenza. Possono invece diventare luoghi di evangelizzazione, di incontro. Ma secondo me sempre, moderati all’interno di una vita comunitaria. Non è dissimile dal discorso che si fa nell’ambito delle famiglie.  L’importante è parlare di questi strumenti in casa tra genitori e figli. L’importante è farli entrare questi strumenti appieno nelle dinamiche familiari. Credo che il modo giusto per i religiosi e le religiose è di far entrare questi strumenti con la giusta attenzione e il giusto rispetto per l’età, per le difficoltà e le sensibilità di ognuno. Ma piano piano e con un uso intelligente. Studiandoli. E ponendosi l’interrogativo: cosa posso fare con questi strumenti concretamente nella vita religiosa? Cosa sarebbe invece dannoso?”

Dai lavori del Sinodo è emerso chiaramente che la sfida decisiva si gioca sul piano della comunicazione. Ne ha parlato anche il primate della chiesa ortodossa finlandese, l’arcivescovo Leo di Karelia, secondo cui “l’evangelizzazione non parte dalla predicazione, ma dall’ascolto” indicando nel silenzio “la via migliore per essere davvero interlocutori in un dialogo con il mondo”. Condivide questa affermazione? E come si può conciliare o meglio adattare alle autostrade informatiche?

“Credo che si adatti nel momento in cui si concepisce il silenzio come un momento di ascolto. L’ascolto è una dimensione fondamentale e credo che l’utilizzo di questi strumenti sia un veicolo capace di grande ascolto per intercettare gli aneliti e le speranze, le gioie e le sofferenze del nostro mondo. Da questo punto di vista, quello che è da ricercare è un utilizzo riflessivo di questi strumenti, un utilizzo attento nel solco dell’ascolto e del silenzio, nel senso dello spazio che lascio spazio all’altro e alle sue idee, per entrare in relazione anche in vista di una conversione, opera di tutta la comunità cristiana. Ci troviamo tutti nella condizione di persone convertite dall’ascolto della Parola di Gesù. Questo ascolto del mondo è una dimensione importante, direi fondamentale, anche alla luce dell’insegnamento conciliare di cui celebriamo il cinquantesimo anniversario dall’avvio dei lavori”.

Lei ha fondato AdEthic, una rete pubblicitaria su base etica a disposizione del mondo cattolico e laico. Alla luce della considerazione che anche la pubblicità è parte integrante della comunicazione, come è nato questo progetto e su quali presupposti si fonda?

“Il progetto è nato dalla considerazione che i nostri siti cattolici hanno l’esigenza di vivere e di sostenersi grazie alla pubblicità, che è una fonte di sostentamento per tutti i siti sia laici che cattolici. È nato dalla considerazione che la pubblicità non è una cosa sporca di per sé, ma che dobbiamo imparare a gestire anche per noi stessi. Diciamo però con una prospettiva pastorale di intervento su questo strumento. Quindi, si è voluto far diventare il momento della pubblicità come un momento che abbia un valore di tipo etico. Pertanto, ci proponiamo di offrire una pubblicità coerente con i nostri valori, che proponga valori importanti e non altri. A cui aggiungere il fatto che il ricavato della pubblicità prodotta venga destinato al sostegno di iniziative di carità e di solidarietà. In qualche modo, si testimonia che è possibile attraverso un lavoro aziendale fare del bene per gli altri, produrre ricchezza da ripartire, e in definitiva fare opere del bene da distribuire a tutta la società”.

 

 

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