n. 1
gennaio 2003

 

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Religiose anziane:
una risorsa da riscoprire - II

di Rosa Alba Martino
 

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La salute fisica non è un assoluto

Prima di continuare la nostra riflessione sull’invecchiamento, è opportuno ricordare che quando noi facciamo della salute fisica un mito, mandiamo messaggi negativi circa la malattia. Siamo coscienti che la salute è un grande dono di Dio, da conservare e difendere per mantenere tutte le energie a servizio dell’annuncio del Vangelo. Tuttavia dobbiamo tenere presente che ci sono persone affette da malattie croniche e con forti handicap che hanno imparato a convivere con il loro limite fisico. A ragione possiamo dire che tali persone sono guarite, in quanto sono riuscite a operare una integrazione positiva e a volte di alto valore spirituale-apostolico alla loro situazione.

Ricordo sempre con commozione una confidenza avuta da una mia consorella, costretta a lasciare l’impegno apostolico nel quale spendeva con gioia ed entusiasmo le sue energie fisiche, la creatività e tutte le doti umano-spirituali: “Nel primo periodo ho reagito, protestando con il Signore, ma un giorno Lui mi ha fatto capire chiaramente che non aveva affatto bisogno del mio correre, del mio ‘fare’. Lui voleva me. E io mi sono arresa e sono nella pace”. Quando si impara a convivere con le proprie limitazioni, allora siamo davvero in grado di aiutare le sorelle che si trovano nelle medesime condizioni, perché sentendoci “guarite” diventiamo più umili e capaci di aiuto, di compassione e di tenerezza con chi sta peggio di noi.

A questo punto vorremmo fare un breve accenno a qualche sentimento che può affiorare maggiormente nell’età avanzata: la solitudine e la paura.

 

La solitudine

 La solitudine testimonia una dimensione essenziale e costitutiva del nostro essere persone. Consente infatti di trovarci di fronte a noi stessi nel nostro intimo mistero. La solitudine però è una realtà ambivalente, portatrice di un lato luminoso e di un lato d’ombra. Ha in sé la tragicità dell’isolamento imposto e si rivela al medesimo tempo come luogo intimo in cui la persona si raccoglie con la sua coscienza per fare le scelte e decisioni che danno orientamento e forma alla sua vita umana e cristiana.

Un mezzo umano perché la solitudine trovi senso è quello di occupare il proprio tempo donandolo a favore degli altri. Così i giorni, i mesi e gli anni scorreranno percepiti come una benedizione. Se la persona manca di qualche occupazione, il tempo diventerà pesante e incominceranno a sorgere interrogativi seri e pericolosi: “Servo ancora a qualcosa? A qualcuno?”. Ogni piccolo servizio è una boccata di ossigeno che rigenera il dono della vita ricevuta per essere ridonata.

Legato alla solitudine può sorgere il fenomeno della depressione. Non si nasce depressi, ma la depressione è di solito reazione ad eventi o a emozioni. A volte la cura migliore è proprio quella di prendersi cura di chi sta peggio di noi.

 

Restare in contatto con le sorelle più giovani

 Il divario tra il modo di vivere delle generazioni più giovani, piene di vitalità, educate secondo la legge del mercato, poco propense a un rallentamento, si confronta col ritmo rallentato di chi vive l’età anziana caratterizzato da lentezza di gesti e di espressione, del pensiero, del ragionamento, della memoria. Mentre per i più giovani è l’avvenire che rende mobili e dinamici, la persona anziana vive tra il presente e il passato. Un abisso sembra separare questi due mondi, relegando i più giovani nella vita attiva della produttività, del successo, e gli anziani nel privato. Poter restare in contatto con le generazioni più giovani, è un dono che aiuta a superare i confini imposti dalla salute non più fiorente, per continuare ad essere attive nel mondo dei desideri e degli ideali che le giovani propongono.

È importante mantenersi allenate, aperte ad ascoltare e ad accogliere quanto le generazioni più giovani prospettano. Potrebbe accadere che, quasi per “esorcizzare” l’isolamento, si lasci via libera a quella naturale tendenza dell’età anziana che rievoca i bei tempi passati, quelli in cui si aveva un ruolo, si era impegnate nelle prime file dell’apostolato, pioniere coraggiose, animatrici feconde. I ricordi fanno rivivere la moltitudine di persone amate e non amate, conosciute o appena intraviste, ma incrociate sulla strada della vita. Il tuffo in quegli anni andati rende reale il passato e permette di analizzare il periodo trascorso, di rileggere come “storia di salvezza” il tempo vissuto con i suoi momenti migliori e i suoi fallimenti, i suoi fatti marginali e le sue svolte decisive.

Succede spesso che la persona anziana ripeta molte volte la stessa cosa, ma questa ripetizione le permette di riprendere possesso della propria vita, di ricollegare tra loro gli avvenimenti, di ruminare positivamente la propria esistenza per stabilirne così l’unità profonda. Questa dinamica, però, non è da tutti compresa. Spesso, i più giovani non hanno la pazienza di sedersi a parlare con le persone anziane, ad ascoltarle, a dare loro la soddisfazione di sentirsi per un momento protagoniste.

L’altra parte della medaglia è che le persone anziane possono avere la pretesa di essere le uniche depositarie di una tradizione, frutto di un’esperienza ormai segnata dal tempo. Questa mentalità può portare a trincerarsi ognuno nel proprio mondo così da compromettere definitivamente il dialogo.

 

Il dialogo, antidoto alla solitudine

 Le sorelle anziane e le più giovani avrebbero bisogno di maggiori possibilità per grandi doni reciproci: più coraggio nell’ascoltarsi, più verità nel confrontarsi. Ma come? Non potrebbe esserci, da una parte, maggior capacità nel saper donare ciò che è già stato costruito ed è ormai collaudato dal tempo, più volontà nel “passare la fiaccola”? E dall’altra parte, non potrebbe esserci maggior rispetto per tutto ciò che le ha precedute e disponibilità nel saper “condividere” ciò che tentano di costruire a piccoli passi, pur nell’esiguità delle forze e del numero, verso orizzonti migliori, come la storia e la nostra vocazione specifica richiedono, mettendo da parte il desiderio di “protagonismo” proprio delle generazioni più giovani? Se il dialogo tra le generazioni viene a cessare, la solitudine delle persone anziane potrebbe diventare “terra d’esilio” sia nella società come nelle comunità religiose.

Se la solitudine prende spazio dentro le persone anziane, arriva ad acutizzare certi timori e a renderli pervasivi. Si tratta di sentimenti che fanno sentire escluse, non tenute in conto, poco valutate. Queste convinzioni creano attorno uno sterile vuoto, facilitano la chiusura in se stesse e paralizzano la volontà e il desiderio di incontrare altre persone, a volte perfino la famiglia e le sorelle della comunità. Si rischia di trovarsi sole fuori e sole dentro. Il senso di solitudine può affondare le sue radici nelle esperienze di perdita di persone o in situazioni di smacco di fronte alla propria vita. Si può verificare allora ciò che gli psicologi chiamano “regressione”: le persone, per compensare questi vuoti, ricercano le sensazioni più gratificanti provate in altri periodi della vita, in modo particolare nell’infanzia. E possono sorgere comportamenti infantili, polifagia (senso smisurato della fame), anoressia, abbandono dei bisogni primari (denutrizione) che contribuiscono ad accrescere l’isolamento e fanno imboccare strade senza ritorno e solitudini incolmabili.

 

La solitudine: tesoro di umanità

 L’isolamento non scelto, non desiderato, non voluto pesa e disorienta. Ma anche le persone anziane sono molto esperte nell’aprire la porta della solidarietà, dell’amicizia e della tenerezza. Così i giovani sono i primi a riconoscere alla persona anziana la sua dignità e ricchezza personale. E la solitudine dell’anziana, la sua stessa vita, possono diventare un vero cammino di compimento. “La capacità di vivere la solitudine come un centro interiore da cui il soggetto prende forza e determinazione, come un trampolino che permetta uno slancio di tutto l’essere, è una ricchezza per l’individuo come per la società”1, scrive Jean-François Six.

La persona anziana che ha accettato la sua solitudine, può trasformarla in tesoro d’umanità: ella è sola certamente, ma poiché l’età avanzata è il coronamento delle tappe precedenti della sua vita, quando nella solitudine osa guardarsi dentro con chiarezza per un momento di verifica e di revisione della propria vita, può comporre tutto in un’armonia interiore che raccoglie ciò che ha compiuto e iniziato, ciò che ha sofferto e sopportato. E tutto ciò diventa saggezza da donare a piene mani, perché permette alla persona di elevarsi al di sopra delle cose senza sminuirle e di osservare la realtà, anche passata, con gli occhi e il cuore di Dio. Per questo la persona anziana possiede spesso molta abilità nell’iniziare le generazioni più giovani alla storia della famiglia, della fede, della comunità e della nazione, sapendo cogliere la vera sostanza della realtà. Sia che avanzi sotto il sole della speranza e della serenità, oppure sotto le nubi della fatica, della solitudine e del dolore, sarà pronta a essere testimone “della speranza che è in lei” (cf 1Pt 3,15).

  

La paura

Il futuro dell’età avanzata, contraendosi, può prendere il nome di paura. Progressivamente ogni imprevisto, ogni novità suscita paura e angoscia. Il dubbio, penetrando il quotidiano, può sgretolare convinzioni e progetti che ci avevano animate per anni, e sotto la spinta della paura insorgono mille interrogativi. “Cosa mi riserverà il domani? Malattia, impotenza a gestire la mia persona, degenza prolungata in un ospedale?”. Quando subentra una malattia, si fa strada la preoccupazione di non poter più vivere in modo autonomo. Si teme di rappresentare un problema e un peso per la comunità.

A questa serie di timori anche le sorelle anziane possono reagire con atteggiamenti contrastanti. C’è chi nega il bisogno di cure, minimizzando i disturbi per ostentare la sua autonomia; c’è chi diventa estremamente ansiosa di avere tutte le cure, preoccupata di ogni disagio connesso alla malattia. Qualche studioso ha affermato che la malattia per alcune persone anziane può essere una fonte di “vantaggi”2. Lamentare una sintomatologia dolorosa può essere un tentativo, socialmente accettabile, di attirare un po’ di attenzione e di interesse per la propria persona. A volte la persona che versa in questa difficoltà non trova un aiuto positivo per uscirne neppure dall’ambiente circostante: familiari, parenti, amici, assistenti sanitari, consorelle. La difficoltà cresce quando la persona trova difficoltà a intessere relazioni interpersonali significative.

Non sempre però le cose procedono in questo senso. Ci sono persone che, dopo qualche difficoltà iniziale, trovano un proprio equilibrio e un soddisfacente adattamento anche alla situazione di ospedalizzazione prolungata. Molto dipende dal miglioramento dello stato di salute e anche dal tipo di rapporti che sono riuscite a stabilire con il personale sanitario.

La persona anziana può disporre di un potenziale naturale di reazione alla paura, all’impotenza, all’umiliazione, alla perdita di stima di sé, questo potenziale è l’“aggressività”. È una reazione umana istintiva che si accentua col venire meno delle forze, della padronanza ed energia. Infatti è naturale che sotto l’effetto del timore, le reazioni diventino primarie e istintive. È terapeutico imparare, fin da quando si è in salute e si è più giovani, a esprimere in modo giusto la propria aggressività e a non reprimerla. Se la salute lo permette, è molto terapeutico per esprimere in modo corretto la propria aggressività, fare una passeggiata, cantare, scrivere un poema o un brano di diario, ascoltare un brano di musica, guardare la natura. Ognuna deve elaborare la modalità che risponde alle proprie necessità e possibilità in modo da scaricare in modo positivo l’energia suscitata dall’aggressività, senza reprimerla.

 

 L’anzianità: un assaggio per gustare la “vita”

 L’età avanzata attraverso il susseguirsi del ritiro dal lavoro e dal ruolo, dei limiti di salute, degli spostamenti di comunità, accompagna ogni persona verso la realtà della morte. Sono passi da valorizzare perché rappresentano una iniziazione all’entrata nella vita. La morte è presente fin dal giorno in cui si nasce, quindi fa parte dell’essere creature. Il fatto che si conosce la morte come una realtà naturale non libera dal timore che incute in ogni persona. Anche Gesù ha provato paura e angoscia di fronte alla morte. Ma Lui l’ha vinta e la morte non ha più l’ultima parola sulla vita umana. Ecco perché la si può affrontarecon serenità e pace.

 

 Il ruolo della Speranza

 Il malessere che si prova davanti a un malato terminale deriva dal fatto che la morte costringe a prendere coscienza della propria condizione di mortalità. A volte gli stessi anziani pensano che, essere vecchi, significhi essere giunti alla morte. Questa è l’illusione che la pubblicità induce a creare senza neppure rispettare un realistico senso del ciclo di ogni vivente. Tale mentalità mette al bando la realtà della vecchiaia e della malattia; non solo non favorisce il crescere di sentimenti umani nei confronti delle persone gravemente ammalate e in fase terminale, ma sopprime la lucidità di prepararsi al grande momento della morte, ossia a vivere questo ultimo istante della vita in tutta la sua dignità.

Ogni religiosa, e più ancora la suora di una certa età, è chiamata a rendere il pensiero del passaggio alla vita come “di casa”. Allora la morte non sorprende come fosse una nemica, ma la si incontra come il momento che segna il passaggio alla vita in Dio. In una società che bandisce il pensiero e qualunque cosa faccia allusione alla morte, la religiosa è chiamata a essere “profezia” attraverso uno stile di vita e di pensiero informato dalla Speranza cristiana che, mentre stima e valorizza il sommo bene che è la vita umana, tiene lo sguardo fisso alla Vita senza fine.

Ogni malato ha un suo modo di reagire di fronte alla morte: dal rifiuto alla collera, al patteggiamento, alla depressione (una specie di lutto anticipato della propria vita), fino all’adattamento e all’accettazione. Ciò che generalmente permane attraverso queste fasi, e nei vari momenti della malattia, è la Speranza. E tuttavia, al di là della loro originalità, gli esseri umani sono profondamente simili. Per questo è possibile descrivere questo “cammino” del malato che si avvicina alla morte, pur con le varianti che derivano dal suo carattere, dalla sua storia e dalle sue aspirazioni, dalla sua vita di fede.

 

Il bisogno di difendersi

 Per la prima volta, nella vecchiaia, si ha la netta sensazione che la morte non è più così lontana: essa fa parte dell’immediato futuro. C’è chi ha paura della malattia e della morte, e chi invece si lamenta di essere vissuto anche troppo a lungo e di essere pronto a morire.

Succede anche che molti anziani parlino della morte come se la desiderassero e l’attendessero. Queste espressioni - scrive Jean Vimort - devono essere prese sul serio ma non alla lettera. Il desiderio di morire può esprimere un’accettazione della realtà. Allora la persona anziana sente la morte come un evento naturale e normale: si fa strada in queste persone un cammino di riconciliazione. A volte invece, il desiderio di morire convive con un forte desiderio di vivere. Spesso le parole che lo esprimono sono un invito al dialogo piuttosto che una vera convinzione. Ma può accadere che chi sta accanto alle persone anziane non coglie l’invito perché si trova su altre “lunghezze d’onda emotive”, e sfugge loro l’opportunità di aiutarle. Se si entra delicatamente nella loro situazione, camminando insieme, condividendo la vita anche in questo ultimo segmento, si farà l’esperienza del mistero che avvolge la nostra vita e della preziosità di questo momento.

Nelle nostre comunità vengono offerti molti aiuti per prepararsi al momento della morte. Si è attente perché l’aiuto spirituale sia abbondante, si viva un clima in cui chi è ammalata o anziana si senta accompagnata con affetto dalle sorelle con cui ha condiviso le fatiche apostoliche, sostenuta nella fede, incoraggiata nella fiducia e nel totale abbandono al Padre buono che la ama.

  

Atteggiamenti da coltivare

 Per concludere indichiamo alcuni atteggiamenti che, attivati e coltivati, aiutano a proseguire con serenità nella vita e a invecchiare bene. Lo psicologo americano Robert Peck3 li aveva proposti fin dal lontano 1956 ed enucleati come segue: importanza di ricercare una duttilità emotiva, promuovere una duttilità mentale per giungere alla saggezza, all’attenzione, alla compassione verso gli altri.

 Secondo l’autore, il primo atteggiamento da acquisire è la capacità di mantenere la duttilità emotiva, cioè la flessibilità dal punto di vista delle emozioni, in modo da poter accettare i distacchi che si rendono necessari nel corso dell’età media e della terza età, senza venire ogni volta condizionati dagli avvenimenti. Perciò bisogna imparare a saper prendere la distanza da legami vincolanti dal lato affettivo, per cercare di stabilire nuovi legami più sciolti, meno esigenti.

Con ciò non ci viene chiesto di cancellare dal cuore gli affetti, ma di alleggerirli nella loro carica emotiva eccessiva, vincolante. Nello stesso tempo si sottolinea la necessità di vivere più pacificamente e con maggior serenità gli impegni della propria vita. Questi atteggiamenti sono un corredo che si acquista lungo il corso della vita e se, giunte all’anzianità, non si è abbastanza allenate a questa duttilità, si corre il rischio di diventare molto fragili, a livello emotivo, ogni volta che viene meno un oggetto del proprio amore: un parente, una persona cara, una consorella, il lavoro, ecc.; oppure si rimane disorientate ogni volta che accade qualcosa di diverso che richiede un nuovo adattamento alla situazione.

La religiosa anziana che ha acquisito gradualmente questa duttilità emotiva, è in grado di sviluppare nuovi legami, nuove modalità di interessarsi agli altri e al loro bene, senza assumersi impegni troppo rigidi, ma adeguati, costruttivi e vari. Questa è la fase in cui la donna in genere e la religiosa, potrebbe sviluppare una “seconda generatività” o una “seconda maternità”. Infatti da anziani si diventa un “genitore che invecchia” per figli ormai adulti, e un nonno/a per le sorelle più giovani, un’amica fidata e, se si è allenate all’ascolto, una compagna di conversazione per le sorelle di ogni età.

 Un altro sentimento molto nobile che in questa fase della vita si può mettere in atto è la compassione specialmente per le persone e per le sorelle della stessa età con le quali si condividono gli stessi problemi, difficoltà e speranze. L’esperienza di gioie, fatiche, dolori e consolazioni rende capaci di consolare chi è afflitto, proprio come confida Paolo di se stesso: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2Cor 1,3-4).

È anche il tempo in cui si può diventare la consigliera o la guida spirituale che accompagna con la parola, la preghiera e l’offerta altre sorelle nel loro cammino di crescita vocazionale.

Il secondo atteggiamento che la religiosa anziana dovrebbe proporsi di acquisire è la duttilità mentale, cioè un nuovo modo di valorizzare le proprie conoscenze e l’esperienza accumulata nel corso della vita mantenendo, nello stesso tempo, nei confronti di esse un certo distacco. La flessibilità mentale dovrebbe portare ad accettare il diverso, a lasciar cadere le idee e le sensibilità personali, a non assolutizzare le proprie opinioni, i sogni e le speranze, le paure e le ansie, liberandosi da un modo di pensare prefabbricato che, alla fine, impedisce di accettare e ascoltare gli altri.

La religiosa anziana, per vivere con serenità la propria età, dovrebbe cercare di non attaccarsi alle proprie idee e alla propria visione delle cose. E’ opportuno ricordare che ogni persona e, soprattutto chi è più giovane, ama fare la propria esperienza prima di cercare o affidarsi a quella altrui; che le idee mutano nel tempo e che, nella vita, il vero e il falso, il bello e il brutto, il bene e il male non si trovano distinti in modo così chiaro da escludere interpretazioni e sfumature diverse. L’esperienza può aiutare a cogliere il nucleo centrale delle situazioni e dei problemi, a guardare i fatti dai vari versanti e a fare una buona integrazione dei vari elementi. Questo esercizio contribuirà ad essere meno impressionabili di fronte agli avvenimenti e porterà ad acquistare la sapienza propria di chi ha imparato dalla vita e ora sa metterla a servizio degli altri.

 Mentre si invecchia, grazie ai sentimenti di compassione e all’atteggiamento del prendersi cura degli altri, il proprio mondo interiore si allarga rendendosi compagne anche di persone anziane più sfortunate, non più autosufficienti, assumendo quel genere di servizi ancora consentiti dalle proprie energie.

Coltivando la mente in modo che non si atrofizzi, il fisico perché possa dare il proprio contributo fino a che è possibile, il cuore aperto alla comprensione, alla compassione, alla bellezza, mantenendosi in un sano contatto con tutto ciò che circonda e scoprire sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di interessante a cui appassionarsi.

Questo atteggiamento di apertura al nuovo che si rivela ogni giorno, mantiene l’animo fresco, libero, capace di accogliere e di godere di tutto il bene e del bello. Nell’età avanzata forse non si potranno fare più lunghe passeggiate, ma si può fermarsi a contemplare la bellezza e la perfezione di un semplice fiore di campo. Non avendo più tanta fretta si può leggere con calma le pagine del Vangelo e scoprire elementi e particolari mai notati. Si potrebbe programmare un tempo più lungo per la formazione umano-spirituale-apostolica mai conclusa e che nei tempi passati forse si è rilevato essere sempre scarsa.

 

   1. J.F. Six, Avenir de la solitudine, in Études, maggio 1991, p. 651.

2. Cf Kwentus J.A., Il dolore nell’anziano, in Geriatrics 1, 1986, pp. 32-33.

3. Cf Kenel M.E., Birthing the Elderly Self, in Human development, 16, 3, 11-15, 1995.

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