n. 6
giugno 2004

 

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Il discepolato oggi:
«Seguitemi» e «Rimanete in me»

di Maria Ko*

 

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E' noto come sin dall’inizio del suo ministero Gesù sia circondato da discepoli, come egli stesso li chiama, e come questi discepoli sono modelli per noi, cristiani di tutte le generazioni. Ma Gesù con quali criteri li ha scelti? Come li voleva? E per loro, che cosa significava diventare discepoli di questo Maestro e Signore? Come si sviluppò in loro la conoscenza di lui? Quali difficoltà incontrarono? Quali sorprese ebbero? La loro esperienza di duemila anni fa che cosa ha da dirci? Sono domande impegnative. Non pretendiamo di affrontarle direttamente, ma pensiamo che possa essere utile una rilettura dei racconti evangelici per cogliere alcune richieste esplicite rivolte da Gesù ai suoi discepoli…

Due linee sembrano emergere con chiarezza: una, più ricorrente nei sinottici, è collegata con il senso di movimento: «Seguitemi»; l’altra, tipicamente giovannea, sottolinea l’aspetto di interiorità: «rimanete in me».

«Seguitemi»

 La persona di Gesù doveva esercitare un forte fascino sui suoi contemporanei. Diverse volte i Vangeli parlano delle grandi folle che «seguivano» Gesù. Molti vedevano in lui un profeta inviato da Dio, altri speravano da lui una guarigione o qualche altro miracolo. Si tratta però, nella maggioranza dei casi, di un seguire fisico, occasionale, anche se animato da sentimenti sinceri.

A differenza delle folle, i primi discepoli non seguivano Gesù di propria iniziativa, ma solo dopo una chiamata, spesso inaspettata. Questo appare chiaramente nelle scene di vocazione. Simone e Andrea stavano pescando, quando Gesù, passando, disse loro: «Venite dietro a me» (Mc 1,17); subito dopo, «chiamò» anche Giacomo e Giovanni, ed essi «lo seguirono» (1,20). Nello stesso modo, un po’ più tardi, chiamò Levi, seduto al banco dove si pagavano le tasse: «Gesù gli disse: “Seguimi”. Egli, alzatosi, lo seguì» (2,14).

Sono racconti carichi di dinamismo. Gesù «passando... vide» (Mc 1,16). Il verbo passare segna un movimento, non solo quello dell’entrata in scena di Gesù presso il lago della Galilea, ma soprattutto quello più significativo: il suo mettersi in cammino lungo le strade dell’uomo, il suo apparire nei luoghi dell’esistenza quotidiana, il suo inserirsi nella concretezza della storia umana, il suo impatto con le singole vite umane, il suo porsi a livello dell’uomo per incontrarlo sul suo terreno. E’ il mistero dell’incarnazione che culmina nel passaggio della Pasqua.

 Nel passare, nel camminare di Gesù in mezzo agli uomini e donne si realizza il piano divino di salvezza. All’inizio della missione Gesù si presenta solo al fiume Giordano, ma subito egli chiama i primi discepoli ad andare dietro a lui: vuol coinvolgere altri nel suo cammino; così, a mano a mano che procede, attira dietro a sé un numero sempre maggiore di uomini e donne che, con il cammino, condividono il suo ideale, la sua missione, il suo stile di vita, il suo destino.

Anche le espressioni usate da Gesù nella vocazione dei discepoli indicano un movimento: «venite dietro a me», «seguitemi». All’andare dietro del discepolo corrisponde l’andare davanti del maestro. Gesù, infatti, precede, i suoi discepoli, indicando loro la meta e diventando per loro «la via» per raggiungerla. Verso il termine del cammino terreno «Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme» (Lc 19,28), dove si realizzerà l’evento culmine della sua missione. Ma la croce e la morte non segnano il punto finale di questo cammino; egli, infatti, promette alla vigilia della sua morte: «Dopo la mia risurrezione , vi precederò in Galilea» (Mc 14,28). E nel discorso d’addio assicura ai suoi discepoli: «Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,2-3). L’andare dietro a Gesù continua oltre il cammino in questo mondo e diventa senza confini né di tempo né di spazio. Questo pensiero è espresso anche nell’Apocalisse, dove l’autore descrive i centoquarantaquattromila santi che «seguono l’agnello dovunque vada» (Ap 14,4).

Dalla parte dei discepoli, l’accogliere la chiamata e seguire Gesù significa mettersi in movimento verso una nuova direzione di vita, iniziare un nuovo cammino, in cui il punto di riferimento è la persona di Gesù.

 

Io-tu

 Le chiamate alla sequela avvengono sempre in forma diretta e personale. Le persone vengono presentate con il loro nome e qualche volta con l’informazione della loro provenienza e del loro mestiere. Il rapporto io-tu, io-voi, emerge con chiarezza. Prima di rivolgere loro la parola, Gesù le raggiunge con lo sguardo. L’indicazione che Gesù «vede» qualcuno prima di chiamarlo è una costante strutturale dei racconti di vocazione. Nello sguardo di Gesù avviene già un incontro, una penetrazione nelle intenzioni nascoste e nella situazione interiore di colui, o di colei, che è visto/a. Presso il lago di Galilea, prima di far «diventare pescatori di uomini» i primi chiamati, Gesù li ha già «pescati» con il suo sguardo. E’ noto che gli evangelisti amano descrivere i sentimenti di Gesù attraverso il suo sguardo, che lascia intuire una varietà di sfumature di espressione e di comunicazione. Nei racconti di vocazione, lo sguardo di Gesù è penetrante, benevolo, incoraggiante, pieno di tenerezza. Nell’episodio del giovane ricco, Marco riferisce con enfasi: «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). In seguito a questo episodio, Gesù, «volgendo lo sguardo attorno», parla con i discepoli della difficoltà per i ricchi a entrare nel regno dei cieli. Dopo l’esclamazione dei discepoli: «E chi mai si può salvare?», Gesù «guardandoli» afferma: «Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio» (Mc 10,27). Gesù rende possibile ciò che è impossibile all’uomo. La sua chiamata è un atto di empowerment, il suo sguardo è trasformante, creatore.

Gesù che chiama si presenta in forma personale: «Venite dietro di me», «Seguite me». Egli deve diventare il nuovo centro di vita dei suoi discepoli. Questa centralità della persona di Gesù viene ancora sottolineata dalle sue parole, quando afferma la necessità di abbandonare tutto, «a causa mia e a causa del vangelo», per poterlo seguire (cfr. Mc 8,35; 10,29).

Con la chiamata i discepoli entrano in un rapporto di comunione con Gesù, che non si stabilisce una volta per sempre, ma che deve crescere progressivamente in consapevolezza, in intensità e profondità. Camminando dietro a Gesù, i discepoli conoscono sempre meglio il Maestro e allo stesso tempo prendono sempre più coscienza del senso della loro vocazione. Gli evangelisti fanno vedere come Gesù stesso guidi questo processo graduale di crescita dei suoi discepoli, rispettando il loro ritmo e spesso anche il loro carattere personale.

Dentro la cornice esterna di un andare dietro a Gesù si svolge, quindi, tutto un processo di formazione. I discepoli non seguono Gesù solo con i piedi, ma con la mente e col cuore, arrivano progressivamente a scoprire l’identità di Gesù e la propria identità in quanto discepoli, a far diventare la via di Gesù la loro via di vita.

Io-noi

E’ significativo notare che la vocazione dei primi discepoli è una con-vocazione. Due coppie di fratelli vengono chiamati, ciascuno personalmente, a seguirlo insieme. Diventando discepolo/a di Gesù si entra a far parte di un gruppo, una comunità voluta da lui. La presenza di Gesù dà consistenza al gruppo, i singoli chiamati sono costituiti in comunità dal rapporto che ciascuno ha con lui, questo rapporto diventa poi costitutivo dei legami interpersonali tra i membri della comunità. Dal rapporto io-tu con Gesù si sviluppa il rapporto io-noi all’interno della comunità. Una volta interrotta la sequela e il comune riferimento a Gesù, immediatamente si sgretola il gruppo. Ciò si vede con chiarezza nell’ora della passione di Gesù. Quando non c’è sequela comune, c’è la dispersione, la paura, la chiusura, la diffidenza reciproca.

Guardando bene a questo primo gruppo di discepoli scelto da Gesù, c’è da meravigliarsi della sua grande eterogeneità. Sembra che Gesù abbia scelto intenzionalmente delle persone molto diverse per far vedere che l’unità e la comunione non si fondano sulle affinità naturali, e che persone molto diverse possono vivere in comunione camminando insieme, dietro a lui.

I primi discepoli sono di provenienza diversa. Si sa che Filippo è di Betsaida (Gv 1,44), Pietro e Andrea hanno la casa a Cafarnao (Mc 1,29), Simone è di origine cananea (Mc 3,18), Bartolomeo, che la tradizione identifica con Natanaele, è di Cana di Galilea (Gv 2,1). Sono uomini di diverse professioni. Parecchi sono pescatori, mentre Matteo è un esattore di tasse. Alcuni di loro seguivano già Giovanni Battista, quindi erano avviati, in qualche modo, ad una vita spirituale più esigente; altri invece, sono stati chiamati da Gesù all’improvviso, senza nessuna preparazione né remota, né prossima. Prima di diventare discepoli di Gesù, molti di loro non si conoscevano, altri invece erano legati con vincoli di sangue o di amicizia.

Se dal quadro esterno ci si addentra a vedere il loro carattere e la loro personalità, la diversità che emerge è ancora più grande. Nel gruppo, Simon Pietro attira molto di più l’attenzione: è un uomo impulsivo, irruente, più portato ad agire che a riflettere, più pronto a promettere che a mantenere la promessa. E’ un tipo che va facilmente agli estremi, cade facilmente, ma si rialza con prontezza non appena riconosciuto lo sbaglio. E’ impaziente, vuole avere chiaro tutto e immediatamente, fa fatica ad aspettare e a sostare nel mistero. Le sue domande a Gesù sono tipiche: «Signore, quante volte devo perdonare al mio fratello, che pecca contro di me? Fino a sette volte?»; «Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cose dunque ne otterremo?»; «Signore, dove vai? Perché non posso seguirti ora?»

Un tipo molto diverso è Giovanni, dotato di grande capacità di riflessione e d’intuizione, insieme a una forte sensibilità per il mistero. E’ il teologo e il mistico del gruppo.

Andrea si fa conoscere come un uomo socievole, generoso, affabile, zelante, attento e sollecito nel prestare aiuto, premuroso nel portare gli altri a Gesù. E’ stato lui a condurre il fratello Pietro da Gesù; ed è stato ancora lui a portare da Gesù il ragazzo con cinque pani e due pesci, contribuendo così al miracolo. Somigliante ad Andrea, da questo punto di vista, è Filippo, il mediatore fra Natanaele e Gesù nel loro primo incontro. Egli è un uomo semplice e schietto, però fa fatica a penetrare nel senso più profondo delle cose. «Filippo, da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto?», così gli chiede Gesù, un po’ stupito della sua superficialità. Come Filippo, anche Tommaso è lento a cogliere il mistero. E’ un tipo razionale, non si compromette e non rischia facilmente, non si fida senza prove tangibili, non crede senza aver fatto esperienza personale. «Se non vedo [...] non crederò»: è la sua fredda reazione, di fronte all’annuncio gioioso della risurrezione.

Natanaele ha avuto il privilegio di ricevere un bell’elogio da Gesù fin dal primo incontro: «Ecco un vero Israelita in cui non c’è falsità». Questo l’ha fatto passare da uno scetticismo ironico a una confessione piena di stupore e alla sequela fedele.

Abbiamo nel gruppo un silenzioso, Giacomo, sempre presente negli avvenimenti importanti e sempre discreto. Egli rende testimonianza a Gesù più con la vita che con le parole. E’ stato il primo del gruppo a morire martire. Vi sono poi un Giacomo di Alfeo, un Giuda di Giacomo, un Simone Zelota, di cui non conosciamo nulla al di là del nome. Infine, c’è Giuda Iscariota, uomo di carattere debole, avido di denaro, uomo della «notte», impenetrabile all’amore, il traditore.

Questi uomini, così diversi tra loro, formano la «nuova famiglia» di Gesù. A tutti egli ha rivolto il suo «seguimi», su di loro ha pronunciato la preghiera al Padre: «Siano perfetti nell’unità». E a loro, Gesù ha affidato tutto se stesso, le sue parole, i suoi fatti, la sua missione e, in un certo senso, il suo futuro.

«Rimanete in me»

Il seguire, come atto concreto, traccia un movimento al primo momento esteriore, ma si trasforma presto in un cammino spirituale. Giovanni lo illustra con chiarezza. Egli, pur servendosi dell’immagine di seguire, andare dietro a Gesù, comune ai Sinottici, pone l’accento piuttosto sul processo interiore della comunione di vita con il Maestro, e attraverso lui, con il Padre. La categoria che esprime meglio questa sua prospettiva è quella di «rimanere», che ricorre in Giovanni per ben 67 volte.

Già nel primo racconto di vocazione, il verbo rimanere viene usato tre volte. I due discepoli di Giovanni Battista, affascinati da Gesù, lo seguono e gli domandano: «Maestro, dove rimani?», e dopo l’invito di Gesù a seguirlo per vedere, questi discepoli «andarono a vedere dove abitava e quel giorno rimasero presso di lui» (Gv 1,38-39). C’è qui un interessante rovesciamento di prospettiva: dal luogo dove rimane Gesù al luogo dove rimangono i discepoli. Essi vogliono informarsi della dimora di Gesù, mentre Gesù diventa la loro dimora. Seguire Gesù vuol dire quindi rimanere presso di lui. Lo dirà Gesù stesso: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo» (Gv 12,26); «Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,3).

Questo rimanere presso Gesù e in Gesù diventa per i discepoli fonte inesauribile di risorse interne per la loro vita e la loro missione. Rimanendo costantemente in Gesù, come i tralci nella vite, e lasciandosi penetrare sempre più intimamente e profondamente da lui, la vita del discepolo diventa spiritualmente feconda. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto» (Gv 15,4-5). Questa fecondità spirituale, conseguenza naturale dell’inabitazione reciproca è, a sua volta, una caratteristica che contraddistingue il vero discepolo di Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8). Il vero discepolo di Gesù non è mai sterile.

Rimanere nella Parola. - Come può «rimanere presso Gesù» chi non l’ha conosciuto durante la sua vita terrena? Rimanere in lui significa rimanere nella sua parola, quella pronunciata durante la sua esistenza storica, tramandata dai testimoni e fissata poi nella Scrittura. Nella Parola egli si fa presente oltre il limite del tempo e dello spazio. Giovanni non solo insiste sul credere alla Parola, ma anche sul rimanervi, facendo l’esperienza profonda di comunione, di sintonia di cuore. Il credere, cioè l’accoglienza e l’adesione iniziale, è fondamentale, ma Gesù esige dai suoi discepoli un grado più maturo di fede, alimentata e vivificata continuamente dalla Parola. Egli dice espressamente: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,7).

Questo pensiero viene espresso più volte anche in forma negativa. Quando la folla mormora dopo il suo «discorso duro» sul pane di vita, Gesù domanda ai discepoli: «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv 6,67). Chi non rimane nella sua Parola, è meglio che se ne vada, cioè non lo segua per nulla. In Gv 5,37-41 Gesù rimprovera ai giudei di non aver mai ascoltato la voce del Padre né interiorizzato la sua Parola, e la ragione profonda è questa: «Voi non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato. [...] Io vi conosco e so che non avete in voi l’amore di Dio».

 Rimanere nell’amore. - Attratto dal Padre nella sequela di Gesù, il discepolo, o la discepola, entra nella comunione di vita e di amore tra Padre e Figlio, si lascia amare con gratitudine e semplicità. E’ Gesù stesso che lo garantisce: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9).

L’amore plasma e struttura la persona rendendola sempre più protesa verso l’altro. Rimanendo nell’amore di Dio il discepolo, o la discepola, acquista una nuova visione della realtà, una nuova fonte di desideri. Egli/ella desidera quello che vuole Dio. E’ in questo senso che Gesù dice: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. [...] Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando» (Gv 15,10-12). Non si tratta dell’osservanza dei comandamenti imposti dall’esterno, ma è un affiatamento con il mondo di Dio, acquisendo, come dice Vita consecrata, «una sorta di istinto soprannaturale» (n. 94).

E quali sono i comandamenti di Gesù? Egli li ha sintetizzati in uno, mostrandoci l’essenziale che sostiene tutto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gi uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,12); «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 34-35). Questo nuovo comandamento che diventa il segno distintivo dei discepoli di Gesù non è un semplice precetto aggiunto ad altri, bensì il principio di vita che deriva dalla sequela di Gesù e da quel flusso d’amore che unisce il Padre e il Figlio nello Spirito santo. Rimanendo in Cristo il discepolo, o la discepola, è in comunione d’amore con la Trinità e con tutti i fratelli e le sorelle.

Conclusione

«Seguire Gesù» e «rimanere in Gesù»: due categorie usate da Gesù stesso per descrivere il discepolato. Uno sottolinea più il senso del movimento, l’altro l’interiorità. Non sono due linee alternative o successive, devono andare insieme. Il cammino del discepolo è un andare restando in Gesù, un partire dimorando in lui. La congiunzione delle due linee rafforza anche quella sintesi armoniosa che le persone consacrate cercano di vivere: tra contemplazione e azione, tra interiorità e attività, tra essere e fare, tra credere e operare, tra concentrazione e diffusione della parola di Dio, tra l’accogliere il dono di Dio e il farsi dono di Dio per gli altri.

 

* Figlia di Maria Ausiliatrice, docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione (Auxilium) Roma.

 

   

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