n. 12
dicembre 2003

 

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"Dove l'inconscio vive"
Avere una casa, abitare una casa, cercare casa

di Antonietta Augruso *

 

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Anche la mucca ha il suo principio di interiorità. Esige una casa, l’ambiente modesto e segreto dove l’inconscio vive»1.

L’ambiente modesto e segreto dove l’inconscio vive: un modo interessante per parlare della casa, un luogo, quasi insostituibile; la dimensione in cui anche la mucca ritrova se stessa.

L’immagine curiosa, un po’ stravagante della mucca (che solo raramente, ispira versi eterni), indica una necessità forte, di tutti gli esseri del cosmo: l’abitare. Avere un cantuccio proprio, vuol dire trovare uno spazio in cui ci si sente al proprio posto, in cui ritrovare l’orientamento (inteso come trovare il centro). È lì che si esce dall’abituale alienazione a cui i ritmi quotidiani ci costringono. Abitare la propria casa è come indossare un vestito che calza bene e che ci fa sentire belli. Quando non ci si trova a proprio agio, infatti, si dice proprio «non è di casa in quel posto…»!

«E’ stato osservato che tra gli uomini e lo spazio circostante vi è una continuità di segno e di rapporto, un rapporto tra due elementi analoghi che determina un continuo linguaggio, non verbale, nel quale siamo immersi, come elementi del vivente»2. Ognuno, nella propria casa, cerca di non alterare questo rapporto, di trovare continuità con ciò che lo circonda.

Sentirsi a casa propria non vuol dire necessariamente possedere una casa. Piuttosto è avere la sensazione che le cose che ci circondano hanno un senso e lo comunicano. E’ un po’ il contrario di “perdersi”: dove ci si sente spiazzati tra l’aspettativa di familiarità con un luogo, di adesione affettiva o di comprensione, e il senso del vuoto che lo stesso luogo comunica3.

Nella casa, dunque, si concretizza l’abitare, che può significare tante cose: fermarsi, costruire, essere, radicarsi, identificarsi, trasformare lo spazio. «Alcuni antropologi sostengono che abitare è una facoltà umana, e cioè un’abilità acquisita, costruita su una predisposizione biologica, (l’essere presenti fisicamente in un luogo) ma elaborata culturalmente, quindi condivisa con una società. In quanto tale può essere lobotomizzata, come dice Evans, ma non soppressa del tutto»4. Dunque c’è una dialettica tra la persona e lo spazio fisico che occupa (fissa dimora o itinerante, fa lo stesso).

Le vicende del singolo, e del popolo a cui si appartiene, dipingono le pareti della casa, ed essa diventa eloquente, con i suoi colori e i suoi odori! La casa, che per tanto tempo era lo scrigno vivente dei ricordi d’infanzia, può diventare anche una triste memoria da cui fuggire. Questo può capitare quando si sente la fatica di ritornare nel luogo dove è vissuta una persona cara che ora non c’è più. Gli oggetti sistemati in un certo modo, le finestre aperte, o socchiuse, risultano fortemente evocativi. Forse vuole dire proprio questo Baschelard quando parla della casa come ambiente segreto dove l’inconscio vive; un luogo dove è possibile coltivare le diverse facce dell’esistenza, anche quelle che abitualmente teniamo nascoste. «La casa costituisce l’ambiente indispensabile per il coagularsi di immagini e di affetti, fissandoli nello spazio e nel tempo. E’ facile constatare che i termini abitazione, abitudini e abiti hanno la stessa radice etimologica e invitano ad accostare la casa alle caratteristiche che identificano le persone»5.

 

In principio...

Nella Bibbia, abitare è più che una predisposizione biologica, è una dinamica che Dio mette nel cuore dell’uomo a favore della vita, perché egli possa esprimere la propria relazione positiva con le cose e il mondo. La Scrittura, infatti, si apre con la scena della creazione, annunciata dalla frase: «In principio», Bereshit, la stessa lettera di “Beit” (casa), a significare, forse, che il mondo si offre all’uomo come una casa da scoprire e da abitare. Una realtà in cui l’uomo, fatto a immagine di Dio, potrà dare il nome alle cose (cioè identificarle) e sentirsi a proprio agio, come “concreatore”. Il mondo diventa, allora, abitabile, proprio in quanto è l’uomo che lo rende tale: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Dove coltivare e custodire non solo esprimono il contrario di incuria, ma stanno a significare un atteggiamento positivo verso l’ambiente (che suppone la conoscenza del senso e del destino del mondo), una familiarità quasi fanciullesca messa in crisi con il peccato. Lo stesso significato di casa, nella Scrittura, è molto ampio: ogni posto dove Dio si manifesta può essere chiamato “casa di Dio”, come lo è Betel o il tempio (Sl 84,2-6)6.

Quando l’uomo si chiude all’altro o si mette in un atteggiamento di ostilità, lì è difficile stare, è difficile abitare. Basta ricordare Gn 4,12, dopo che Caino aveva ucciso Abele, il Signore si rivolge a lui dicendo: «Quando tu coltiverai la terra, essa non ti darà più le sue ricchezze» (Gn 4,12). Se il peccato mette in pericolo la fraternità umana l’uomo non sarà più partecipe della forza di benedizione che la terra stessa detiene e si sentirà in esilio (errabondo). Si tratta, più che di un esilio fisico, di uno stato d’animo di tutta la persona, che avendo dato ascolto all’avversione e all’odio verso l’atro, impoverisce e non ha più la forza interiore di abitare la vita degli altri, la terra stessa.

Abitare, dunque, come atteggiamento del cuore umano (dove cuore indica la totalità, cioè sentimento, intelletto, volontà).

E’ in un’abitazione tutta particolare, l’arca (cfr. Gn 6,14ss), che l’uomo scamperà allo scatenarsi violento del diluvio. Una casa enorme, in cui sembrano incontrarsi la caparbietà di Dio nel ritornare a dare fiducia all’uomo (nonostante il suo atteggiamento malvagio: cfr. Gn 6,5) e la fiducia di Noè, il quale costruisce questa enorme dimora senza nemmeno avere chiara, almeno dall’inizio, la sua destinazione. «Per fede Noè, divinamente avvertito su ciò che non era ancora visibile, colto da un timore religioso costruì un’arca per salvare la sua famiglia» (Ebr 11,7).

 

Case degli uomini, casa di Dio

Possiamo dire che nella Scrittura abitare una casa significa tante cose, tra cui stabilire relazioni positive con gli altri ospitandoli e accogliendoli. Essa però è anche un luogo, una dimensione che non va violata, una realtà di cui nessuno dovrebbe essere privato, come fanno comprendere le parole del profeta Michea che annunciano “guai”, contro gli uomini di potere e per chi «con avidità riduce alla miseria il popolo e la sua casa» (Mic 2,2b). Egli denuncia con asprezza chi caccia le donne fuori dalla propria casa, lì dove dimorano le loro delizie, togliendo la dignità anche ai bambini (cfr. Mic 2,9). L’uomo ha necessità di spazi reali per poter esprimere se stesso nella totalità e abitare la vita piuttosto che farsi schiacciare dagli eventi. Perciò la casa è una delle possibilità per coltivare le dimensioni più personali e intime; essa risulta abitata quando le persone sono coscienti di questo e lo rendono possibile agli altri senza invadenza, come afferma il libro dei Proverbi (cfr. Pr 25,7).

E’ chiaro che questi sono bisogni tipicamente umani, lo si capisce dalle parole del profeta Natan a Davide, in cui si sottolinea l’assoluta trascendenza del Dio di Israele: «Sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Finchè ho camminato ora qua ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei Giudici, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: “Perché non mi edificate una casa di cedro?”» (2Sam 7,5-7).

Un’affermazione che troverà pienezza nelle parole di Gesù, quando dice alla donna di Samaria: «Credimi donna, è giunta l’ora in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21). La casa di Dio è Cristo Gesù dove abita la pienezza della sua carità, Egli è la dimora della sua grazia che si propone come liberazione, serenità, cammino («Io sono la via, venite a me affaticati...»). Ma è anche “la porta”, dove questo appellativo ha certamente un legame con l’abitare. La porta, per l’uomo biblico, è una sola: quella della città. E’ il grembo che si chiude, fuori c’è il male, l’oscurità, il deserto, i predoni.

Ma la “Porta delle pecore” era anche la porta di accesso al tempio di Gerusalemme. Gesù nella parabola del buon pastore (cfr. Gv 10), guardando le persone che entrano nel tempio fa capire loro che da quel momento non avranno più bisogno del tempio, perché la sua carne è il nuovo tempio (Gv 2,21)7. Il luogo cioè dove potranno ritrovare se stessi e il senso della loro fede. Egli è dunque “la dimora” del senso, la casa da abitare e da cui ripartire per dare un significato nuovo alla relazione col mondo.

 

Case aperte, case chiuse

La casa è l’immagine globale della psiche. C’è chi la vuole fuggire, perché nelle sue mura ritrova il disagio di situazioni irrisolte e dolorose; c’è chi invece si rifugia in essa per paura della storia che scorre sulla strada. La casa così preziosa può anche diventare nemica dell’uomo, perché lo chiude alla relazione con l’altro, è il posto da cui si esclude il diverso, o il luogo che ci difende dalla povertà e dalle miserie degli ultimi, spesso senza casa.

Ci si accorge di questo quando si suona al citofono di certe abitazioni; prima ci sembra di sentire in lontananza una voce, forse piena di sospetto, poi si illumina una luce. A volte ci si domanda se inventeranno anche dei campanelli in grado di prendere le impronte digitali! Spesso queste case hanno anche delle mura di cinta alte che le separano dal resto del mondo, poi se ti affacci, vedi alberi e aiuole per pochi eletti e non puoi andare via senza punti di domanda!

Tante case, invece, anche se semplici o piccole, parlano un linguaggio diverso, sono quelle dove trovi persone che hanno il desiderio di lasciarsi coinvolgere dalla vita degli altri e condividere, forse, anche le proprie fragilità, senza chiudere la porta in faccia, come dice un’espressione popolare.

La Bibbia ci parla di tanta gente che tiene il cuore e la porta della propria casa aperta. C’è un episodio, in 1Re 17,8-24, che fa molto riflettere in questa direzione. Siamo a casa di una vedova, e perciò in una casa senza protezione, anzi, in una situazione di particolare vulnerabilità. Arriva il profeta Elia, la donna lo ospita, dapprima malvolentieri (1Re 17,12), ma dopo un po’ egli si muove in quella casa come se fosse sua (v. 15). Elia, infatti, mangia del cibo della donna e, soprattutto, mangia insieme a lei e a suo figlio. Un quadretto particolare: un profeta e una donna con i suoi beni condivisi (la casa era a due piani, forse in passato la donna era ricca), ma, soprattutto, con il suo sommo bene, il suo unico bimbo. Vite diverse che si incontrano e non si incrociano semplicemente: si abitano. Il testo ci presenta Elia, che non si muove da “forestiero” nell’ambiente, ma con familiarità, infatti, ha una sua stanza (v.19).

Scoppia un dramma: muore il bambino e la vedova si ribella con Elia, vuole prendere le distanze da lui (v. 18).

All’interno della casa, l’uomo di Dio, il profeta irruente, cambia atteggiamento rispetto al primo incontro con la donna, quando sembrava sicuro e forse pieno di pretese (v. 11). Egli prende il bambino, oramai privo di vita, e lo porta con sé nella sua stanza, nel posto più intimo e personale; forse perché nessuno vedesse fino a che punto quella storia lo aveva coinvolto. Si stende sul bambino e prega il suo Dio. Ora l’angoscia di quella morte è anche sua, la disperazione e la notte oscura della donna sono anche del profeta, che supplica e ottiene da Dio la vita: il bambino risuscita (v. 13)8. La casa della vedova diventa luogo della cura di Dio, una cura che non rimane retorica sulla bocca del profeta Elia. Il profeta non fa grandi discorsi di fronte al dolore, ma si esprime attraverso il respiro, le braccia, il grido. I suoi gesti assumono l’angoscia della padrona di casa. Una casa aperta, ora umanizzata dall’autenticità delle relazioni, dove le paure e i bisogni dell’una non lasciano insensibile l’altro.

La donna, infatti, si esprime con chiarezza sin dall’inizio: «Che c’è tra me e te, o uomo di Dio?» (v. 18). Per la vedova abitare la sua casa significa anche aprire la sua vita a percorsi rischiosi; per Elia quella casa diventa l’occasione per sperimentare forse l’aspetto più fragile e nascosto di sé: la paura e il rapporto con la morte.

Nella casa, Elia e la donna si mostrano nella loro verità senza troppe difese e da lì parte un reale cambiamento della vita. Nell’intimità delle stanze, quando non si ha paura di verbalizzare i propri fallimenti, Dio risponde strappando il bambino alla morte per dire ai due: bisogna tornare alla vita.

Non ci sono altari, nè si celebrano riti, eppure la donna e il profeta scoprono un altro volto della loro storia, della loro stessa fede. Un episodio che si apre a tante interpretazioni e ci aiuta anche a vedere che la propria abitazione, dove sembra consumarsi senza sosta la quotidianità, con gli scontati ritmi abituali, può illuminarsi e diventare epifania del Signore.

 

Dentro casa con Gesù

Appaiono suggestivi i brani evangelici nei quali si notano gesti e abitudini di Gesù, tipicamente umani. La gioia di sentirsi accolto, la sua stanchezza che trova pace nelle case di amiche premurose, ce lo mostrano come un Dio pienamente umano. E se è vero che il suo atteggiamento verso le cose fosse di estrema libertà («Egli è senza tana e senza nido»: Lc 9,57ss), è anche vero che la Scrittura ce lo presenta a suo agio a casa di amici (Gv 10,40ss). Anche questo è un aspetto della sua divino-umanità che negli ambienti domestici assume toni diversificati.

Paradigmatico in questo senso è l’incontro con Zaccheo. Pur avendolo incontrato sulla strada, Gesù insiste per vedere Zaccheo a casa sua. Gesù dà molta importanza a questo incontro, fino al punto di autoinvitarsi (Lc 19,5).

Potremmo domandarci: ma era necessario? Sembra di sì, visto che solo a casa sua Zaccheo pronuncia quelle parole che sono il segno concreto di un cambiamento interiore: «Ecco, Signore, io do’ la metà dei miei beni ai poveri» (Lc 19,8). I malumori dei benpensanti non preoccupano Gesù, il quale conosce il cuore dell’uomo, e sa che ognuno a casa sua abbassa le proprie difese. Quel che importa è far capire a Zaccheo che non è solo nella sua crisi, che Dio guarda nelle profondità di ogni persona chiunque essa sia. Per far capire questo a Zaccheo, Gesù non gli scrive un documento sulle virtù, ma va a casa sua, quella stessa che, forse, lo aveva visto tante volte macchiarsi della sua stessa avidità; quelle pareti, addobbate col sudore dei poveri, ora diventano spazio che accoglie la salvezza (Lc 19,9).

Nella casa viene fuori un po’ tutto della nostra personalità, essa offre una possibilità particolare a chiunque voglia incontrare il volto di ogni persona, la sua totalità, la vita nei suoi aspetti diversi. Questo Gesù lo aveva capito bene, lo si intuisce perché il suo primo miracolo avviene proprio in casa di due sposi, a Cana (Gv 2). Ma le mura domestiche non ascoltano solo la danza di chi ha visto l’acqua trasformarsi in vino, spesso all’interno della propria abitazione si seppellisce l’mmagine degli altri, si coltiva una visione della vita chiusa al mistero, rigida, moralista.

Un esempio per tutti, l’uomo pio e, probabilmente virtuoso, scandalizzato dell’atteggiamento di Gesù nei confronti della donna che bagna i suoi piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli. (Lc 7,38). Le parole che Gesù pronuncia in casa del fariseo sono un invito alla riflessione e al cambiamento, sollecitandolo a spazzare via i pregiudizi che gli impediscono di vedere le persone da una prospettiva diversa. Quando Gesù mette in evidenza la capacità di amare di questa donna, non vuole solo riabilitarla agli occhi degli altri, ma in qualche modo invitare il padrone di casa a disseppellire quella parte di sé che aveva messo a tacere: la tenerezza (Lc 7,44). Lo invita, cioè, a vivere partendo dalla profondità del proprio cuore, non da una semplice realtà emozionale, ma da quel punto infinito che è al centro dell’essere: il luogo della profondità massima in cui si vive la presenza di Dio. Una realtà data a tutti, per poter entrare in contatto con il Dio vivente e comprendere i misteri del suo regno9.

E questo cammino parte dalla nostra abituale dimora, e da lì che si riparte per ritrovare il centro, bisogna cominciare a spazzare la casa alla ricerca della dramma perduta (Lc 15-8,10), ritrovare il centro del proprio essere, per donarsi.

  

Un bisogno di tutti

Avere un angolo in cui ritrovarsi, far nascere una storia, sono bisogni di tutti, anche di coloro che non hanno una fissa dimora. «Si avverte vivamente che la casa è il luogo dove si vivono i momenti più vari e significativi della vita, nella gioia e nel dolore, in un rincorrersi di ricordi, è il porto dal quale si parte per l’avventura della vita»10.

G.Bernanos scriveva: «Nelle case di famiglia c’è sempre un po’ di disordine: le sedie talvolta mancano di una gamba, i tavoli sono macchiati di inchiostro, le scatole di marmellata si svuotano da sole nelle dispense»11. Usava questo esempio per parlare della Chiesa, ma sono espressioni che ci fanno pensare alla ricchezza di una casa, alla sua fragilità e anche alla sua bellezza. La casa diventa il sogno e il progetto di tante persone, quando la si cerca, si avverte stanchezza, ma c’è dentro anche la speranza di trovare un posto in cui si mettono in moto i desideri più personali; si pensa a come la si potrebbe arredare, all’angolo in cui ci si può riposare su un divano e a tutto quello che può renderla abitabile per sé e per gli altri.

Ecco perché quando si lascia una casa nella quale si è abitato, il distacco diventa faticoso e quasi ci assale la paura che non ci troveremo bene da qualsiasi altra parte; ma la paura più grande è di tutta quella gente che il mercato condanna alla precarietà forzata. Si ascolta con tristezza il racconto di coppie costrette a vivere con i propri figli in spazi molto limitati. In tanti nuclei familiari i disagi sono enormi e a volte questo è motivo di tensione e di divisione: prezzi troppo alti impediscono l’acquisto di una casa, la quota riservata all’affitto non dà la possibilità di fare le vacanze fuori, o svuota in modo esagerato il budget familiare. Per non parlare di chi, per calamità naturale, ha visto crollare davanti a sé anni di sacrifici e di lavoro.

A volte, per costruirsi una propria abitazione si impiegano molti anni e alla fine ognuno ritrova quasi l’immagine di sé in quella piccola o grande costruzione.

Nessuna casa è in toto uguale ad un’altra, basta osservarle, quando si entra si comprendono tante cose delle persone che vi abitano. Alcune sono sovraccariche di oggetti, si rimane quasi confusi dalla mancanza di essenzialità, o di un pò di spazio; altre ci parlano solo dei padroni di casa, e allora le pareti sembrano un album di famiglia. Più di ogni altro luogo, la casa parla dei valori simbolici che ognuno di noi interiorizza, perciò a volte basta guardare il luogo in cui viviamo per capire come siamo.

La casa è importante, essenziale. E’ importante, perciò, ricordare che la nostra casa, quella vera, non è di quaggiù… Tutti e tutte siamo in cammino verso la casa del Padre.

In questo senso un criterio di discernimento ci viene dalla figura di Abramo. La sua esperienza consiste nel fatto che la sua casa è nel cammino, il suo abitare è un esodo continuo, verso sentieri nuovi e inesplorati12. Abramo si mette in cammino, nella sua fiducia sta la sua forza, nella sua fede sta la sua giustizia.

Ogni uomo è in viaggio come Abramo, nemmeno le case costruite con tanta fatica fermeranno il viaggio.

La sfida sta nell’accettare di diventare dei pazienti pellegrini e non lasciare che le cose e le case di questo mondo, per quanto importanti possano essere, si impadroniscano della nostra vita, come ben recita K. Gibran nei suoi bellissimi versi:

 

«Non lasciatevi domare,
né mettere in trappola.
La vostra casa non sia un’àncora,
ma un albero maestro;
Poiché ciò che in voi è illimitato
vive nella dimora del cielo,
la cui porta è la nebbia mattutina,
e le cui finestre sono i canti e i silenzi della notte»
13.

   

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