n. 5
maggio 2005

 

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La sapienza del cuore (seconda parte)
di Ubaldo Terrinoni *

 

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«Insegnaci a contare i nostri giorni»

Il Salmo 89 viene classificato dagli esegeti come una richiesta collettiva di perdono a Dio nel tempio. Il popolo, convocato per una liturgia penitenziale, si abbandona a un’accorata lamentazione pubblica per una lunga catena di prove alle quali è sottoposto. E’ l’occasione propizia per uno sfogo e per fare “dolce violenza” al cuore di Dio: «Volgiti, Signore: fino a quando? Muoviti a pietà,… rendici la gioia per i giorni di afflizione, per gli anni in cui abbiamo visto la sventura» (v.13). Si noti in questa supplica il ricorso dei verbi all’imperativo, soprattutto nella terza parte (vv.12-17): «insegnaci, volgiti, muoviti, saziaci, rendici, rafforza».

In tutto il Salmo, inoltre, risuona il “noi” e il “nostro” o “nostri” per esprimere una mirabile solidarietà che lega inscindibilmente coloro che sono presenti alla liturgia penitenziale e anche gli assenti, come fossero un uomo solo. La solidarietà che vive il popolo di Dio è quasi… organica, nel senso che il singolo sta al popolo come un membro sta al corpo vivo. Tutto è condiviso da tutti: vittoria e sconfitte, glorie e umiliazioni, angosce di miseria e aneliti di liberazione.

Dopo il comprensibile sfogo, il popolo «passa a considerazioni generali di carattere sapienziale sul destino umano»1. Sono sottoposti a un serrato confronto i due protagonisti della storia: Dio e l’uomo. Dio è! Dio vive in eterno e fuori del tempo. Per lui non c’è né prima né dopo, né ieri né domani, né passato né futuro, ma solo l’eterno presente: «Per sempre tu sei!» (v. 2). Solo l’oggi e l’adesso sono «il suo tempo». Egli supera e trascende il fiume del tempo, che scorre al di qua, senza che ne sia minimamente lambito. Anzi, è a un suo cenno che il tempo ha cominciato a scandire i propri ritmi. Prima del tempo non c’era che lui solo, e intorno a lui il nulla. Ed è per la sua parola che si è popolato lo spazio e hanno preso a scorrere i giorni, gli anni e i secoli. «L’universo è la sua immensa cattedrale», affermava Paolo VI. Dio dunque è «da sempre e per sempre» (v. 2).

L’uomo invece è contrassegnato di finitudine, di provvisorietà e caducità. La sua esistenza è sotto il segno della brevità. Tutto in lui e intorno a lui passa inesorabilmente; tutto sfugge senza che possa trattenere qualcosa; tutto è un fluire e uno scorrere a ritmi vertiginosi. L’esperienza quotidiana conferma che ogni realtà che entra nel tempo è soggetta alla triplice legge del logorio, dell’oblio e della morte. «Tutto scivola fra le dita dell’uomo», scrive il Larranaga, «tutto gli scappa con una fuga incessante, come gli uccelli che volano verso terre lontane, come i venti che passano per la nostra regione, come le navi che solcano i mari, come le nubi portate via dal vento, come il fumo che si dilegua, come l’ombra che fugge»2. Le immagini che ricorrono nel Salmo sulla labilità dell’uomo sono impressionanti e molto efficaci:

            «Ai tuoi occhi, mille anni
            sono come il giorno di ieri che è passato,
            come un turno di veglia nella notte,
            come l’erba che germoglia al mattino:
            al mattino fiorisce e germoglia,
            alla sera è falciata e dissecca» (vv. 4-6).

E’ ben noto che la sapienza biblica non perde occasione per mettere l’uomo di fronte al senso del limite, della relatività di ogni cosa e della condizione effimera della sua esistenza. La vita dell’uomo sulla terra è ebel – afferma il biblico Qohelet, – cioè «è fumo, ombra, soffio, nebbia leggera, vapore, vanità…» (Qo 1,2.14; 2,17; 3,20…), è qualcosa di evanescente, di impalpabile; è come alito inafferrabile3:

            «Come ombra è l’uomo che passa;
            la mia esistenza davanti a te è un nulla (Gb 14,18);
            come foglia dispersa dal vento,
            una paglia secca (Gb 13,25);
            come fiore che spunta e avvizzisce,
            fugge come ombra (Gb 14,2);
            sì sono un soffio i figli di Adamo,
            insieme sulla bilancia sono meno d’un soffio» (Sal 61,10).

C’è di più: la caducità dell’esistenza umana è resa fortemente critica dall’amara realtà del peccato. E’ proprio a causa di questo che la vita dell’uomo subisce un’abbreviazione ulteriore: «Siamo atterriti dal tuo furore», dichiara il popolo penitente alla presenza di Dio. «Davanti a te poni le nostre colpe, i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto» (vv. 7-8). Il peccato è la dimostrazione più eloquente della nostra radicale debolezza, che si ramifica nel più profondo del nostro essere4.

Il peccato è l’antidio; è una ribellione che reca con sé una spaventosa divisione interiore, una lacerazione intima tra la tensione al bene e la scelta concreta del male; è la triste esperienza di ogni peccatore, in quanto si ritrova scompaginato in un dissennato autolesionismo. Proprio così! Perché il peccato non è mai soltanto un fare del male, ma è immancabilmente anche un farsi del male, un provocarsi una tragica divisione interiore.

L’uomo, dunque, posto di fronte alla precarietà dell’esistenza e alle frequenti deviazioni dalla “strada maestra”, è sollecitato ad aprire gli occhi e il “cuore” sulla realtà dei suoi giorni per imparare una preziosa lezione: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (v.12). Sì, «l’uomo deve imparare a valutare il breve tempo che gli è dato, e a viverlo con cuore sapiente. Il tempo è breve e perciò è sciocco affannarsi a riempirlo di cose illusorie. Sfrutta il tempo, godilo anche, ma con cuore sapiente»5.

In profonda sintonia con questa sapiente valutazione della vita si ritrova l’autore del Salmo 39. Alle prese con terribili e squassanti prove della vita, il salmista si propone fermamente un controllo diligente della propria lingua per non dare libero corso a parole insensate. Però, purtroppo, arriva il momento in cui la prova si fa così pesante e così sconvolgente da non riuscire a sopportarla in silenzio; travolto dallo sconforto, presenta al Signore la realtà amara della sua situazione: la vanità di ogni cosa che lo circonda e l’inconsistenza della sua esistenza, e implora la saggezza per saper tenere nel debito conto la brevità della vita:

            «Rivelami, Signore, la mia fine;
            quale sia la misura dei miei giorni
            e saprò quanto è breve la mia vita.
            Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni,
            la mia esistenza davanti a te è un nulla.
            Solo un soffio è ogni uomo che vive,
            come ombra è l’uomo che passa;
            solo un soffio che si agita…
            Ora che attendo, Signore?
            In te la mia speranza» (Sal 39,5-8).

«…e giungeremo alla sapienza del cuore»

In che cosa precisamente consiste la sapienza del cuore? Qual è la via o l’esercizio concreto di vita per conseguirla? Per quale direzione muovere i passi di ricerca per individuarne la fonte segreta?

I salmisti, maestri di vita e di preghiera, ci offrono indicazioni precise e vere, prive di illusioni e di inganni. La sapienza sta nell’imparare a «misurare la mia vita», nel saper «contare i miei giorni» che, per altro, «sono quasi tutti fatica e dolore e passano presto…». La sapienza del cuore sta nel valutare «quanto è breve la mia vita».

Il tempo della vita è, in realtà, sempre e per tutti molto breve: è subito sera, è subito mattina, è subito la fine della settimana…; passa in modo inesorabile, fa scorrere attimi, ore, giorni e anni senza che lo si possa fermare; e, come gelido vento, mi raggiunge e lascia segni inconfondibili sulla mia persona. E tuttavia ogni giorno è un “momento” importante e irripetibile della mia vita; ogni giorno è unico, decisivo e definitivo; in ogni giorno ho a disposizione doni di natura e di grazia da mettere in cantiere per continuare la costruzione della mia personalità secondo un progetto ben definito per me dal Signore. La verità consolante è – secondo una preghiera liturgica – che «ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un dono sempre nuovo del suo amore per noi»6.

«Un cuore sapiente», scrive il Larranaga, «sa che è follia piangere oggi per cose che domani non ci saranno, sa che i dispiaceri sono portati via dal vento (per che cosa soffrire?), che la vita è fiore di un giorno, che la gloria è suono di flauto, il cui finale è il silenzio, che la moda è ciò che muta, che la caducità è la verità, che la transitorietà è la verità, che le apparenze sono la menzogna, che soffriamo ed agonizziamo per la menzogna delle cose, che l’apparenza ci seduce e ci tiranneggia, ci obbliga e ci piega»7.

Pertanto, è sapiente il cuore dell’uomo che sa accettare con animo forte e sereno la realtà ineludibile del limite della propria creaturalità: che alcune frontiere dell’esistenza non si possono valicare, che certe leggi della vita vanno accolte e rispettate e che certi vuoti non possono essere colmati. E ciò non per un cieco determinismo, ma solo per il dato reale e non modificabile della realtà creaturale. Ebbene, avvertire questi limiti e accettarli con serenità è un segno di grande saggezza. Cogliere il bene disseminato nel creato, ammirare l’ordine che da esso traspare, scoprire “le vestigia” di Dio in ogni evento, senza pretendere di oltrepassare i limiti creaturali: questo è saggezza.

E’ sapiente il cuore dell’uomo che sa “fare il passo proporzionato alla gamba”, come recita anche un noto proverbio, che pondera bene le scelte del quotidiano e le grandi opzioni della vita; che è molto realista e poco o affatto idealista; che non cede alle illusioni e, perciò, non cade in cocenti delusioni; che sa liberarsi dalle false sicurezze, sa misurarsi onestamente con le varie difficoltà e sa mettere nel debito conto eventuali errori e fallimenti, incomprensioni e critiche, dispiaceri e contrarietà, disistima e isolamento.

Quest’uomo saggio non risparmia fatiche e rinunce per superare situazioni sfavorevoli; fa appello a tutte le sue risorse, investe con generosità le sue energie e tutto il tempo che ha a disposizione e, poi, sa rimettersi docilmente e serenamente all’amore provvidente del Signore, il quale dona ogni cosa a suo tempo.

All’opposto del cuore sapiente c’è il cuore stolto (àphron- vuoto, folle, mancante di buon senso, stupido)8, insensato in quanto non sa distinguere l’apparenza dalla realtà, confonde la giustizia con l’empietà, il buono con il cattivo, l’innocente con il colpevole, e cade in un madornale paradosso: si reputa saggio e dà dello “stolto” agli altri; intreccia una serie interminabile di sciocchezze e di assurdità e moltiplica un fiume di parole vuote. Per lui vale il monito dell’autore dei Proverbi: «Come vacillano le gambe a uno zoppo, così il proverbio nella bocca dello stolto» (Prv 26,7).

Chi è saggio, invece, «ha gli occhi di fronte» insegna Qohelet (Qo 2,14), cioè ha un’adeguata apertura al reale, valuta ciò che è bene e ciò che è meglio (Qo 9,6), soppesa ciò che è bene e ciò che è male (Qo 7,15-18), attinge abbondantemente al libro dell’esperienza, sa fare discernimento per ogni scelta e non cade in trappole insidiose; non si sottrae alla fatica della riflessione e della ricerca e, conseguentemente, neppure alla gioia della conquista; modera il parlare nell’incontro in società; i pochi messaggi che proferisce sono frutto di lunga e sofferta meditazione; è ben convinto che la parola sovente corre più della luce e, una volta pronunciata, non è più possibile riprenderla come ricorda anche il Metastasio: «Voce dal sen fuggita, / poi richiamar non vale; / non si trattien lo strale, / quando dall’arco uscì». In breve, il saggio è buono ma non ingenuo, discreto ma non assente, paziente ma non inerte.

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