n. 4
aprile 2006

 

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ESSERE PERSONE AMABILI
PER AVERE RELAZIONI AMABILI

di Amedeo Cencini

 

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In lingua spagnola (nel dulce idioma de Castilla) la parola amable, magari preceduta dal rafforzativo muy (= molto), è normalmente usata come espressione di gratitudine; potrebbe essere tradotta con il nostro grazie, ma è e dice qualcosa di più. La persona che si sente rivolgere tale apprezzamento, infatti, specie se abituata a un’espressione convenzionale più semplice, riceve come un messaggio di stima che s’estende a tutta la persona e le lascia in cuore la sensazione molto gradevole non solo di un atto di cortesia grata, ma della sua personale dignità di essere amato/a, o della sua capacità di meritare l’amore. Come si sentisse dire: “sei buono/a…, sei bello/a…, sei degno/a di essere benvoluto/a…, è giusto e doveroso, ma pure facile e naturale volerti bene…”.

E sentirsi dire questo vuol dire rispondere a un’esigenza profondamente radicata nel cuore umano, spesso relegata nei recessi oscuri dell’inconscio, e pure sempre presente, come un’attesa o domanda cui è indispensabile dare risposta. Sarebbe davvero molto bello che le relazioni umane fossero sempre portatrici di questo messaggio, anche nelle nostre comunità!

Ma che vuol dire amabilità? E come metter insieme l’amabilità di sé e dell’altro/a?

 

L’amabilità in sé (e di sé)

L’amabilità è la propria dignità affettiva, è percepirsi meritevoli di essere amati. Potremmo dire che è l’equivalente, sul piano della maturità affettiva, del concetto di stima-di-sé: se stimarsi vuol dire avere una percezione sostanzialmente e stabilmente positiva dell’io, avere il senso della propria amabilità significa cogliere la propria persona come degna di essere benvoluta e, di fatto, amarla, cogliendone bellezza e mistero. E come la stima di sé giunge al termine di un percorso in cui la persona ha identificato la propria positività essenziale (quella che la costituisce nella sua essenza), così la coscienza della propria amabilità è la risultante di un processo non proprio scontato, e che invece dovrebbe essere oggetto di attenzione formativa sia nel periodo della formazione iniziale sia successiva, fino alla morte, cioè al momento dell’abbraccio e del bacio del Signore, che suggellerà un’amabilità per sempre, o renderà definitivamente amabile la nostra persona.

Vediamone alcune tappe.

 

Pre-diletti

Secondo un’elementare legge psicologica, l’essere umano riceve il primitivo senso della propria amabilità (la cosiddetta fiducia-di-base) dai genitori. In tal senso possiamo dire che tutti, più o meno, siamo stati amati da genitori buoni e volenterosi, ma certamente limitati, non perfetti, lungo un percorso esistenziale in cui bene e male, slanci d’amore e chiusure meschine, generosità ed egoismi… si sono continuamente mescolati tra loro e di cui siamo in qualche modo il frutto. Nulla di strano. Non esiste alcun diritto alla vita perfetta, a genitori perfetti, a un’infanzia senza problemi, ad educatori e amici ideali, a contesti ed esperienze ottimali. Anche la nostra amabilità sembra legata a questo intreccio personale storico di positivo e negativo. Con il risultato che ci sentiremo più o meno amabili, a seconda che prevalga il primo o il secondo, con l’eventualità che qualcuno sia meno fortunato di altri.

Detto così, sembra che tutto sia già stato scritto nel nostro destino, con poco margine per la nostra libertà, oltre la possibilità di accettare quanto già è successo o di… rassegnarci di fronte a ciò che non si può più cambiare.

In realtà il passato non si limita alle vicissitudini delle nostre esperienze infantili. C’è un dato primordiale che va colto nella sua straordinaria ricchezza di senso e che anticipa tutto ciò, anzi, ne diviene come una chiave di lettura senza la quale rischiamo davvero di distorcere il senso della vita e della nostra storia. È quel dato che viene dalla fede, nel quale è inscritta una volta per tutte la nostra amabilità radicale: siamo figli di Dio, venuti all’esistenza per un suo sovrano atto d’amore, da Lui preferiti alla non esistenza, dunque amabili, considerati degni di esserci: pre-diletti (= amati prima). Così Guardini: «Io... ho ricevuto me stesso. Al principio della mia esistenza… non sta una decisione di essere, presa da me stesso. Tanto meno semplicemente ci sono, senza che necessiti di alcuna decisione d’essere... Bensì al principio della mia esistenza sta un’iniziativa, un Qualcuno, che ha dato me a me stesso. In ogni caso sono stato dato, e dato come quest’individuo determinato»1.

 

Gratitudine

Gli fa eco Von Balthasar: «solo una cosa è esclusa: che io consideri la mia esistenza… come una cosa ovvia, dovuta, necessaria...; ora importa soltanto che il mio intimo venga compenetrato dalla consapevolezza che nulla di ciò che sono e che mi viene continuamente donato mi è dovuto, né la vista della luce, né il sorriso di un altro uomo, né il poter amare situazioni, cose, amici, ecc.; in tutto questo vi è un momento di dono, che esige e suscita uno spontaneo ringraziamento»2.

La gratitudine per tutto ciò è tutt’uno col senso della propria amabilità, che ci viene… da lontano, da prim’ancora di esistere. Ecco ov’è radicata e nasce la nostra amabilità, e in definitiva anche la stima di noi stessi, prima di essere affidata alle eventuali fortune della vita terrena.

Ma questo non sminuisce certo l’importanza delle stesse esperienze terrene e la loro incisività sul nostro equilibrio psichico e maturità generale, semplicemente il dato della fede è qualcosa che non potrà mai essere smentito da nessuna di esse, e che dunque continua lungo la vita, più forte di ogni sfortuna, indistruttibile. Come infatti continua Von Balthasar: «L’atto che mi dà a me non è accaduto all’inizio per poi interrompersi ed abbandonarmi a me stesso: esso continua ad accadere, accompagnandomi, così come da una fonte zampilla nuova acqua e tuttavia sempre la stessa. Io vengo essenzialmente accompagnato dall’origine, che mi porta in modo tale che posso rivolgermi a lei in ogni momento»3.

Libertà affettiva

In questo dato delle origini non c’è solo la psicogenesi della nostra amabilità, ma da esso deriva una conseguenza molto importante anche sul piano psicodinamico, ovvero la libertà affettiva. Che consiste in due certezze: la certezza di essere già stato amato/a, da sempre e per sempre, e la certezza di poter amare, per sempre. Ora è proprio il dato credente delle origini che mi dà entrambe queste certezze, e me le dà come nessun’altra realtà mondana me le può dare, solo Dio mi ama da sempre e per sempre! Al tempo stesso l’essere figlio o figlia di Dio comporta l’essere stato creato/a a immagine e somiglianza sua, ovvero capace d’amare alla maniera divina, col suo cuore e la sua libertà, e dunque di stabilire relazioni altrettanto libere e liberanti, come vedremo ora.

 

Integrazione della propria storia

Altra conseguenza preziosa del dato credente: l’integrazione della nostra storia. Porre l’amore di Dio all’inizio della vita vuol dire assumere un preciso criterio di lettura della vita stessa, che è l’amore stesso divino. E allora avviene un fatto estremamente importante sul piano della integrità psichica: diveniamo capaci di leggere la nostra storia, di riconoscervi l’amore giunto a noi attraverso le mediazioni sia pur limitate degli eventi terreni, dei nostri genitori, ecc., perché solo l’amore sa leggere l’amore.

È come se la certezza dell’amore divino divenisse il criterio ermeneutico della vita, ciò che consente di riconoscere, al di là e pure dentro le fragilità, le contraddizioni e le ferite terrene, la presenza di un amore più grande di tutto questo e che pure, al tempo stesso, giunge a noi anche attraverso questi limiti4. Mistero grande! L’amore perfetto sopporta la mediazione imperfetta. Anzi, questa scoperta riempie il cuore di gratitudine commossa per l’amore ricevuto, sempre più grande di quello meritato, consente di riconciliarsi profondamente con le situazioni incresciose della propria storia e con chi le può aver determinate, fa sentire in cuore l’esigenza di rispondere all’amore ricevuto con il proprio amore donato.

 

Amabilità nelle relazioni (o dell’altro)

La nostra amabilità viene dunque da Dio, ma non un Dio qualsiasi, bensì il Dio-Trinità, il Dio-Padre che genera il Figlio nello Spirito, ovvero il Dio-relazione. Che ci rende capaci di aprire la nostra vita all’altro/a, capaci di relazioni amabili, ove l’amabilità dell’uno/a si estende all’altro/a. A immagine della dinamica trinitaria.

Solo la Trinità, infatti, fa spazio veramente all’altro/a, perché la Trinità è questo spazio, è lo spazio abitabile dall’altro/a; solo un Dio che non sia monolitico né pura onnipotenza autosufficiente (e dunque chiusa in se stessa), ma che sia relazione, esodo da se stesso, avvento d’una eterna relazione di dialogo, di dono, di amore ricevuto e restituito, dà anche lo spazio e la possibilità all’altro/a di esistere in sé. Noi esistiamo perché Dio è Trinità, dimora accogliente, grembo materno, spazio relazionale. Solo perché Dio è tale spazio («l’alterità originaria in relazione»5), anche noi esistiamo. Ed esistiamo affinché, inseriti per grazia in questo circolo d’amore, possiamo stabilire “relazioni amabili”, di piena accoglienza dell’altro.

Che vuol dire in concreto?

 

Accoglienza incondizionata

Significa, anzitutto, assenza di condizioni o restrizioni nella relazione con l’altro/a, o libertà di amare perché unicamente attratti dalla sua dignità e verità d’essere, perché l’altro/a lo merita. L’amore, in tal senso, è «l’accoglienza incondizionata dell’altro/a»6, e il bene è l’offerta ospitale dei propri spazi all’altro/a, perché l’altro/a vi possa abitare, cogliervi la sua positività e realizzarla; così come il singolo ha sperimentato l’accoglienza da parte del Dio-Trinità nei suoi confronti.

Straordinaria l’intuizione di Florenskji circa la natura del male, definito con stringata e felice sintesi come «l’autoaffermazione inospitale»7, come «un’autosufficienza che rende inetti al dono e a ogni accoglienza, fino a portare la persona alla frantumazione del suo nucleo interiore»8. Male è dunque la pretesa di stabilire la relazione solo a determinate condizioni, la pretesa d’imporre all’altro/a un modo d’essere, quasi di omologarlo/a a sé e ai propri criteri o gusti. Sarebbe come far violenza all’io e al tu, che conduce alla frantumazione d’entrambi.

 

Amabilità oggettiva

Accogliere l’altro/a in modo incondizionato significa accoglierlo/a nella totalità del suo essere, nel suo mistero. E proprio raggiungendo la persona nel suo mistero si può coglierne l’amabilità radicale, come uno zoccolo puro e duro che non potrà essere scalfito da alcunché, destinato a durare per sempre, al di là del peccato e di ogni contraddizione. È quell’amabilità che deriva all’essere umano dal fatto di essere creato da Dio e a immagine sua: in forza di ciò l’uomo è amabile per quello che è, non necessariamente per quello che fa; e viceversa può essere rifiutabile per quel che fa, mai per quel che è. Come Gesù ci mostra nell’episodio dell’adultera, da lui accolta e riconosciuta nella sua intatta amabilità oggettiva, e liberata dagli schemi percettivo-interpretativi negativi di cui era stata oggetto fino a quel momento.

Allo stesso modo saper intercettare nell’altro/a la sua amabilità oggettiva vuol dire fargli dono della stima come d’un giudizio limpidamente positivo sulla sua persona, non come “sforzo” della mente che chiude gli occhi sulle magagne altrui; significa forse fargli scoprire per la prima volta la sua positività radicale, e dunque farlo/a rinascere a vita nuova, infondergli fiducia, provocarlo/a a diventare quel che in qualche modo è già o si porta dentro il cuore: quel seme di somiglianza di Dio in cui è nascosta la sua verità e che è condizione della sua felicità9. Vuol dire amarlo “in Dio”, più che “per amore di Dio”…

Laddove non c’è stima, non vi può essere amore, né relazione amabile.

 

Responsabilità reciproca

Conseguenza inevitabile: io sono responsabile di te. Mi sta a cuore la tua vita, la tua persona, la tua crescita, la tua realizzazione di quel seme di positività…, e non per un atto di carità, o per uno sforzo (ancora) o per una concessione benevola, ma perché «l’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei suoi confronti: la visione del tu è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti… La coscienza è l’urgenza di una destinazione che porta all’altro/a, non l’eterno ritorno su di sé»10.

Vivere in comunità e costruire relazioni amabili vuol dire dunque farsi carico della vita dell’altro/a, nel bene e nel male, senza sentirsi scontatamente dalla parte del bene. Inquietante e illuminante, a tal riguardo, è la “visione” di Berdjaev. Il quale immagina che alla fine dei tempi Dio rivolgerà, stranamente, ad Abele la stessa domanda rivolta a Caino all’inizio dei tempi: «Cos’hai fatto di tuo fratello Caino?»11, quasi per chiedere al bene, e a chi si sente buono, quanto si senta responsabile del male altrui, quanto se lo sia caricato sulle spalle, o cos’abbia fatto (o omesso di fare) per prevenire quella caduta o per capirla, o se si sia accontentato di pregare per lui e perdonarlo…, per coprire quella che è stata chiamata «la sottile violenza dei giusti».

Chiunque voglia davvero essere responsabile deve aver il coraggio di lasciarsi scaraventare addosso da Dio una domanda così… a punta.

 

Il bisogno dell’altro

C’è chi lo chiama “il complesso di Atlante”, e sarebbe la sindrome di chi pensa di dover portare tutto il peso del mondo sulle spalle, o il peso della comunità e dei peccati altrui. No, sarebbe pericoloso, oltreché impossibile, rischierebbe non solo una brutta artrosi (spirituale), ma soprattutto quel senso narcisistico di sé, che è molto diverso dall’autentica amabilità e non consente di stabilire relazioni amabili, per un motivo preciso: Narciso non comunica stima all’altro/a, se la tiene… tutta per sé, solo lui è buono e financo eroico, né ha bisogno di nessuno.

E invece, affermiamo chiaramente che se da un lato è necessario sentirsi responsabili dell’altro/a, allo stesso modo è fondamentale sentire il bisogno dell’altro/a. Poiché l’altro/a, chi mi vive accanto, è la via sicura - proprio perché non ci siamo scelti tra noi - lungo la quale Dio ha deciso di venire a me e io posso giungere a lui. Il fratello o sorella, coi suoi limiti e problemi, rappresenta la mediazione normale, ancorché misteriosa, della presenza e della volontà di Dio; io dunque ho bisogno della sua persona, della sua parola, della sua presenza… per incontrare il volto di Dio nella mia vita al di là delle mie fantasie soggettive. Allora si crea quella simmetria entro la quale scorre la reciprocità dello scambio, ma anche la reciprocità dell’affetto e della stima, e si cresce tutti insieme. Così le relazioni divengono amabili12.

C’è una bella icona evangelica che dice in sintesi tutto ciò. È la scena che ritrae alcuni mentre portano sul lettino un paralitico, addirittura scoperchiando un tetto per condurlo a Gesù (cfr. Lc 7,17-26). Del paralitico non sappiamo nulla, neanche quanto credesse in Gesù, il quale interviene – sottolinea Luca – «vista la loro fede», la fede degli altri, di chi lo portava a spalla. Così è una comunità religiosa (al di là dell’immagine un po’… clinica): una comunità di fratelli, o sorelle, che si fan carico del fratello o della sorella debole, nello spirito o nel corpo, e lo/la portano a Gesù perché lo/la guarisca. Ma senza sentirsi degli eroi e senza dimenticare una cosa: che ognuno di loro, tante altre volte, è stato portato sulle spalle dagli altri. Anche quando non se n’è accorto/a e non ha ringraziato nessuno.

Vivere da fratelli e sorelle relazioni amabili significa vivere insieme le due cose: portare e lasciarsi portare.

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