n. 5
maggio 2006

 

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IL SERVIZIO DELL'AUTORITÀ RELIGIOSA
E LA CULTURA CONTEMPORANEA


di Silvia Recchi

 

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La cultura dominante nella nostra area di civiltà occidentale accoglie con notevoli difficoltà il concetto di autorità in generale e tollera ancor più difficilmente le espressioni personali di essa. Ragioni storiche e una certa evoluzione di pensiero sono all’origine di questa realtà odierna.

Questa cultura è penetrata anche negli istituti, influendo non raramente sullo stile di vita dei membri e delle comunità religiose.

Le comunità non sono esenti, in effetti, da un certo disorientamento a riguardo. Non è raro, ad esempio, trovarsi davanti a mentalità che in nome della coscienza, dell’autonomia, della maturità personale rifiutano o diminuiscono il ruolo dell’autorità religiosa (come diceva con semplici espressioni una religiosa: “in comunità siamo tutte delle persone adulte, ci mettiamo d’accordo fraternamente e condividiamo insieme le responsabilità; cosa deve dirci la superiora?”).

A questa visione se ne contrappone sovente un’altra, ugualmente equivoca, da parte di chi è chiamato a esercitare l’autorità e che giustifica le decisioni prese, affermandone la connotazione democratica (“E’ il consiglio che ha deciso!”).

Indubbiamente una visione culturale più “democratica” e tollerante, più dialogica e rispettosa dei diritti della persona ha aiutato la vita religiosa a purificare molti atteggiamenti del passato, a eliminare molti “abusi” e a vivere con un maggiore equilibrio la relazione autorità-obbedienza.

Questo tuttavia non deve snaturare i valori fondamentali da salvaguardare nella relazione. Purtroppo, per una nota patologia spirituale del nostro tempo moderno, finiamo spesso per trasformare, in nome della modernità e della ragionevolezza, il significato dei valori che non riusciamo a vivere.

L’esercizio dell’autorità nella vita ecclesiale e in particolare nella vita religiosa è un pilastro senza il quale ogni costruzione crolla. Tale convinzione non può essere attutita neanche nella considerazione di tutte le strutture di sinodalità, di partecipazione che debbono giustamente sostenere l’esercizio dell’autorità.

Il Vaticano II con l’ecclesiologia di comunione che l’ha caratterizzato, ha avuto senza dubbio una sensibile influenza anche sul modo di considerare l’esercizio dell’autorità negli istituti di vita consacrata. Una visione più conforme alla sensibilità culturale odierna, oltre che alle esigenze proprie della vita consacrata, ha messo maggiormente in luce il concetto di corresponsabilità di tutti i membri convocati sulla base della stessa vocazione e missione. Tale visione si è tradotta concretamente nella creazione di strutture di partecipazione che permettono di collaborare attivamente, facendo confluire nel processo di formazione del giudizio dei superiori, i carismi personali, i talenti, le competenze, il giudizio dei membri.

 

Natura dell’autorità religiosa

Negli anni posteriori al Concilio varie teorie si sono confrontate sulla natura dell’autorità religiosa. Senza voler entrare nel dibattito teologico, riteniamo importante ricordarne alcuni aspetti essenziali.

L’autorità religiosa non ha la stessa natura di quella gerarchica; infatti, non è dipendente dal sacramento dell’ordine sacro. Le sue origini sono essenzialmente carismatiche e la sua trasmissione è in relazione al dono che la famiglia religiosa ha ricevuto quando è stata suscitata dallo Spirito. Queste radici carismatiche sono particolarmente visibili nelle persone dei fondatori che possiedono un’autorità di fatto, grazie ad una particolare presenza di Dio nelle loro persone e nei loro progetti.

Nel corso della storia della Chiesa, ci sono stati uomini e donne che hanno espresso quest’autorità di tipo carismatico, conferita loro dal dono dello Spirito. L’esercizio di tale autorità non era legato a nessun riconoscimento formale da parte della gerarchia che è intervenuta solo successivamente ad autenticarla e a dichiararla ecclesiale.

La natura dell’autorità religiosa scaturisce dalla stessa natura profetica della famiglia religiosa; è riconosciuta dalla Chiesa che dà anche delle norme per disciplinarne l’esercizio.

Non è la comunità religiosa che conferisce l’autorità al superiore, anche se può in vari modi intervenire per la sua designazione. Il superiore, del resto, non è mai un delegato, né un semplice rappresentante legale della propria comunità.

Il Codice di Diritto Canonico invita i superiori a esercitare “in spirito di servizio quella potestà che hanno ricevuto da Dio mediante il ministero della Chiesa1. I superiori esercitano l’autorità corrispondente al dono dello Spirito, essi rappresentano una mediazione fondamentale nel veicolare la volontà di Dio all’interno del progetto carismatico suscitato.

 

Pluralità di modelli, unità di servizio

Negli istituti, il modo di esercitare l’autorità non è univoco. Esso corrisponde al modo di attualizzare il carisma specifico che è alle loro origini e deve essere conforme alle proprie “sane” tradizioni.

In un istituto di clausura l’autorità non è esercitata allo stesso modo che in un istituto dedito attivamente all’apostolato. A seconda delle differenti tradizioni spirituali, il superiore è a volte visto soprattutto come un padre, come un maestro, come un accompagnatore, un animatore della vita comunitaria o ancora colui che conferisce la missione.

Dietro ognuna di queste accentuazioni c’è un progetto carismatico, cioè il dono dello Spirito che ha convocato il gruppo di fedeli, che costituisce l’identità della famiglia religiosa, crea le sue tradizioni e modella la sua storia.

Queste differenti modalità non si escludono a vicenda né si oppongono, esse danno un accento carismatico differente, mettendo in evidenza le componenti della vita degli istituti: la vita fraterna, l’apostolato, la ricerca personale di Dio, ecc.2.

L’atteggiamento di obbedienza che corrisponde all’esercizio dell’autorità, a sua volta, è espressione dell’accettazione del dono dello Spirito che è all’origine del progetto evangelico e accoglienza delle mediazioni tramite cui esso si esprime e si realizza.

La consapevolezza della propria identità carismatica negli istituti è fondamentale per l’esercizio dell’autorità e per comprendere meglio il servizio che essa è chiamata a svolgere.

Tale esercizio deve essere visto anzitutto come un atto, anch’esso, di obbedienza. In effetti, in una comunità religiosa non c’è chi comanda e chi obbedisce, ma tutti obbediscono alla volontà di Dio che si manifesta all’interno del patrimonio carismatico della famiglia religiosa.

 

Il servizio dell’autorità religiosa

L’autorità religiosa deve essere esercitata in un terreno di dialogo, di ascolto, di scambio, di consultazione, di coinvolgimento più ampio possibile nella presa delle decisioni. Questa visione, all’interno del diritto ecclesiale, si esprime, tra l’altro, nell’obbligo per i superiori di avere un proprio consiglio3.

Tale autorità è essenzialmente servizio; il religioso che ha aderito a un progetto evangelico di vita si pone in uno stato di dipendenza dalla volontà di Dio che l’autorità religiosa aiuterà a discernere.

Il superiore non comanda secondo i propri gusti e criteri, ma quale fedele interprete del progetto carismatico della propria famiglia religiosa. Per essere autenticamente tale, è chiamato a rimanere in un atteggiamento continuo di ascolto della Parola.

Il servizio che l’autorità svolge si manifesta solo in un processo in cui viene da ognuno ricercata la volontà di Dio per accoglierla e realizzarla. L’autorità religiosa si pone come una mediazione indispensabile che va ben al di là di una visione che la limita a funzioni di buona organizzazione di programmi e di gestione delle opere. L’eminenza del servizio consiste nell’aiutare delle persone concrete a ricercare la volontà di Dio, indicando cammini concreti.

Così facendo, l’autorità svolge anche un servizio di animazione comunitaria secondo lo spirito e l’identità della propria famiglia, un servizio di unificazione, creando comunione e impartendo la missione in fedeltà al progetto evangelico proprio all’istituto.

Il giusto riconoscimento dell’autorità non si oppone al principio di corresponsabilità secondo cui tutti i membri sono ugualmente chiamati all’animazione spirituale della propria famiglia, perché tutti ne hanno ricevuto lo “spirito”. Ognuno deve perciò animare, risvegliare le energie dell’altro, favorire un dinamismo comunitario per dar corpo al progetto comune.

Il servizio dell’autorità sarà tanto più efficace quanto più essa è capace di fare in modo che le decisioni importanti si impongono come frutto di una volontà comune, affinché tutti partecipino al discernimento del piano di Dio per la comunità.

 

Il difficile equilibrio autorità-individuo

Nel vivere la relazione autorità-individuo, nelle comunità religiose ci sono alcune tendenze egualmente pericolose come l’individualismo e l’autoritarismo.

L’individualismo, malattia della nostra civiltà occidentale, vede l’autorità a disposizione dei membri; l’autoritarismo reputa i dettami dell’autorità al di sopra di ogni diritto dei singoli.

Ci sono comunità religiose in cui il gruppo al potere non permette l’espressione dei talenti dell’individuo; in altre, invece, i membri non permettono l’esercizio dell’autorità in nome della propria autonomia, della propria coscienza o della propria identità di adulti.

Queste manifestazioni spiritualmente “patologiche” ostacolano la comunità e le impediscono di irradiare il suo dono e di edificare con esso la Chiesa.

Sono le singole persone che rendono il carisma una realtà vivente e operante. L’autorità è tale quando permette l’irradiazione del carisma grazie alla vita dei membri. Nell’assegnare la missione, fa fruttificare i talenti personali all’interno del dono collettivo che deve marcare profondamente l’operato dei singoli.

L’autorità rende un servizio prezioso quando non banalizza l’obbedienza abbassandola a forme di sottomissione militare, di docilità infantile o peggio di irresponsabilità personale. E’ importante non uccidere l’iniziativa, né svuotare il senso di partecipazione. L’autorità arricchisce le singole personalità quando non accentra né assorbe, né interviene in tutto4.

La vera obbedienza non impedisce la responsabilità e la scelta; non ostacola ma favorisce la crescita umana e la libertà della persona. Solo la libera scelta rende le convinzioni autentiche, fa vera la crescita, credibile la testimonianza. Ogni forma di coercizione può forse obbligare a cambiare i comportamenti, ma non modella il cuore delle persone5.

 

Conclusione

Oggi meno che mai il mondo tollera i religiosi che sono incapaci di prendere una decisione o assumere una posizione. Esso reagisce giustamente a ogni forma di obbedienza ridotta ad infantilismo umano e spirituale.

L’autorità religiosa deve stimolare le persone a crescere in maturità evangelica. Essa ha il compito di rendere visibile e concreta la volontà di Dio che domanda sempre di assumere una responsabilità, di fare delle scelte, di operare una conversione, di percorrere un cammino.

L’autorità religiosa è veramente tale quando aiuta la comunità a porsi le domande fondamentali che occorre affrontare per essere fedeli a se stessi e quando sceglie non di servire l’ordine e l’organizzazione ma di promuovere il compimento del vangelo nella vita dei membri e nelle scelte della comunità.

Il suo servizio, in questo senso, si trova maggiormente nella capacità di dare un dinamismo alla speranza di tutti piuttosto che nell’esercitare un mero controllo della realtà6.


NOTE

1. Codice di Diritto Canonico, can. 618. [Torna al testo]

2. Cfr. A. Pigna, Consigli evangelici. Virtù e Voti, Edizioni OCD, Roma 1990, p. 459. [Torna al testo]

3. Codice di Diritto Canonico, can. 627. [Torna al testo]

4. Cfr, J. M. Guerrero Guerrero, in Dizionario Teologico della vita consacrata,  Ancora, Milano 1994, pp.108-118. [Torna al testo]

5. Cfr. J. Chittister, Il fuoco sotto la cenere. Spiritualità della vita religiosa qui e adesso, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, pp 147-149. [Torna al testo]

6. Cfr. J. M. Guerrero Guerrero, Autorità…, p. 1. [Torna al testo]

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