n. 7-8
luglio-agosto 2006

 

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LA REALTÀ DEI LAICI E RELIGIOSI
NELLA COLLABORAZIONE PASTORALE


di Ina Siviglia

 

Ritengo che questo sia un momento molto fecondo nella Chiesa. C’è un fermento nella vita religiosa in generale, ma nella vita religiosa femminile questo fermento è intriso di sangue, ma mi pare che stia sorgendo una nuova alba. Al di là del numero delle vocazioni e dei problemi che ognuno ha nel suo Istituto, mi sembra che essa sia venuta quasi fuori da un tunnel di rielaborazione molto sofferta che si è avviata col Concilio.

Sono molto felice che il padre Fabio Ciardi abbia messo a fuoco una questione concretissima che vi riguarda molto da vicino. Io invece cercherò di fare un doppio lavoro: due panoramiche relative, una alla vita religiosa vista da vicino, e l’altra a partire dalla vita religiosa sulla vita ecclesiale e sociale.

La prima domanda da cui vorrei partire è questa: l’ecclesiologia di comunione, elaborata dal Concilio Vaticano II, è veramente diventata una prassi di comunione? Da una vaga idea di collaborazione si è passati ad un senso di coappartenenza e di corresponsabilità nella Chiesa? Oppure, i diversi soggetti ecclesiali hanno maturato il proprio percorso, più o meno sofferto, senza riuscire ad interagire in maniera organica ed efficace sul piano della testimonianza e della evangelizzazione? Certamente c’è l’identificazione precisa dei soggetti ecclesiali. La domanda è se questi soggetti ecclesiali riescono a interagire e a proporsi in una dimensione di prassi pastorale, di prassi comunionale. La fatica enorme di ridisegnare all’indomani del Concilio, del terremoto, diciamo, del rinnovamento ecclesiologico di ridisegnare l’identità delle famiglie religiose ha assorbito moltissime energie in vista della riformulazione del carisma, della precisazione del profilo giuridico, della redazione di nuove costituzioni, della sintonizzazione con le Chiese locali, a partire dalle Mutuae Relationes. Mi sembra che stia maturando da poco la domanda sulla missione nel mondo contemporaneo, anche se le famiglie religiose, con le loro missioni ad gentes, con le loro Plantatio Ecclesiae hanno iniziato già da molti decenni. Dall’elaborazione di Lumen Gentium nello spirito di Gaudium et Spes sono passati quaranta anni. I vostri Istituti sono stati troppo presi dal lavoro interno e soprattutto dall’improvviso calo delle vocazioni che ha comunque costretto ad una ridefinizione, a un ripensamento di tutta l’organizzazione,

Quali i problemi più urgenti? L’ingente quantità delle opere, il calo delle vocazioni, l’immissione di numerose vocazioni provenienti da altri mondi culturali, da altre zone geografiche del mondo, ha impedito di fatto di leggere nello stesso tempo, passo passo i dinamismi della contemporaneità, creando in molti Istituti, non dico in tutti, non posso generalizzare, una sorta di estraneità rispetto alla mentalità e ai costumi della nostra epoca. Da qui la domanda ricorrente in molte famiglie religiose: dopo il “chi siamo” e “dove stiamo andando?”, “cosa fare, come camminare insieme alle altre componenti ecclesiali?”.

Naturalmente si corre il pericolo di liquidare il mondo contemporaneo, con un giudizio di condanna senza appello, per esempio, o mantenendo un ottimismo ad oltranza, rimanendo alla fine chiusi in un piccolo mondo. Vi sono tre possibilità, quando ci si trova in questo impatto: Il mondo contemporaneo o si liquida con “non si ragiona più”, “non è più mondo, non è più vita”, oppure si dice “il Signore ci aiuterà” e si rimane su un piano ideale, oppure si può pensare “curiamoci le nostre cose, quello che riusciamo a fare va bene nel nostro piccolo”. In realtà si tratta di cogliere con serietà e responsabilità il termine aggiornamento, profeticamente assunto da Giovanni XXIII alla vigilia del Concilio, come categoria necessaria perché la Chiesa non cammini a rimorchio della storia.

Che significa allora la parola aggiornamento nella vita religiosa?

Primo: si tratta di uscire dall’angusto punto di osservazione che possono essere le singole famiglie religiose, e camminare con gli altri in una sinodalità consapevole per ritrovarsi come comunità ecclesiale in stato di discernimento costante, perenne. In più convegni, a partire dal Convegno di Palermo, nelle diocesi italiane, si è parlato della possibilità di istituire degli Osservatori delle Chiese locali, Osservatori culturali, Osservatori sociali, economici, politici da parte della Chiesa in modo che essa abbia strumenti adeguati per leggere, vedere, discernere, orientarsi. Non con interventi sporadici in momenti delicati e decisivi quali il referendum o le elezioni politiche, ma in un costante ascolto delle istanze degli uomini contemporanei, e una decisa volontà di rispondere a queste istanze.

Secondo: viaggiare al passo con fenomeni ed avvenimenti del nostro tempo significa anche poterne cogliere il cuore, il significato profondo. Questo si svela solo ad una lettura critica e competente. Quando, per esempio, abbiamo approfondito problemi come la globalizzazione, come la telematica, come la bioetica, tutti temi che ormai non sono più lontani da noi e rispetto ai quali non possiamo restare spettatori. Ma quali strumenti abbiamo in mano per leggere veramente il senso di questi problemi?

Terzo: elaborare con senso di lungimiranza, ma in piena corresponsabilità, progetti pastorali organici con obiettivi chiari, flessibili naturalmente, e tappe programmate a media o lunga scadenza, precisando i soggetti pastorali che devono preoccuparsi di alcuni settori e offrendo loro un’adeguata preparazione, ma facendo in modo anche che ciascun soggetto mantenga la visione d’insieme e vi partecipi non solo sul piano del fare, ma anche dell’essere e dell’esserci insieme ad altri. Il piano dell’essere riguarda il curare l’interiorità, la vita spirituale, il carisma, la vocazione, quello dell’esserci – l’uno per l’altro, l’uno a fianco all’altro – le relazioni interpersonali, la solidarietà affettiva ed effettiva, e la fraternità.

Correlazione e interazione tra laici e religiosi

Solo in questa cornice complessa e variegata può legittimamente porsi la domanda del rapporto tra religiosi e laici, oggi. Se non c’è questa contestualizzazione del mondo e di tutto il popolo di Dio, compresi i laici nel mondo, parlare solo del rapporto religiosi-laici può essere un discorso riduttivo.

Altrimenti c’è sempre il rischio risorgente di un rapporto non impostato correttamente, come in passato talvolta è avvenuto e cioè che i laici fossero considerati come bacino da cui tentare di trarre qualche vocazione “italiana” o come possibili sostituti nel mantenimento di opere che altrimenti rischiavano di essere chiuse, comunque “sostituti di serie B”. Non mi dilungo su questo argomento perché padre Ciardi l’ha approfondito molto bene: laici considerati come puri esecutori di decisioni prese da altri ed altrove, laici che condividono la spiritualità del carisma, longa manus nella visibilità ecclesiale e nel sostegno economico delle opere, capaci di condividere comunque la spiritualità propria del carisma. I laici sono considerati per lo più destinatari della cura e dell’opera di evangelizzazione: la famiglia, ammalati, anziani, bambini… dunque non laici come soggetto, come adulti-responsabili, come persone attive. Bisogna, piuttosto, considerare i laici nella loro specificità non come persone da addomesticare in quanto hanno una loro vocazione da perseguire, da rispettare, da promuovere. Immersi nella realtà della post-modernità, essi si pongono domande di senso molto profonde, che comunque vogliono rappresentare la problematicità del mondo nella Chiesa, con l’impegno, d’altra parte, di rappresentare la testimonianza di speranza e di fede al mondo. I laici, di fatto, costituiscono un ponte tra i drammi, i problemi, le attese e le speranze degli uomini d’oggi, e la fede della Chiesa, la speranza dei credenti. Se noi non accettiamo il laico con tutto questo spessore di problematicità e di complessità, faremo dei laici altro, ma non quello che è nel piano di Dio per la costruzione e l’edificazione della Chiesa e del mondo.

I laici, a partire dalla loro dignità e dal loro ruolo ecclesiologico, non possono essere considerati come elemento passivo, come semplici esecutori materiali, come oggetti di cura pastorale, quasi che non avessero intelligenza, lucido discernimento, capacità decisionale: degli eterni minorenni in una Chiesa clericale, maschilista, gerarcologica.

Il compianto teologo Yves Congar, autore della prima Teologia del laicato negli anni 50, prima del Concilio, amava dire che è più facile vegliare sulla culla di un bimbo addormentato, che contrastare con un adolescente inquieto, che sta crescendo e reclama per sé uno spazio di autonomia di pensiero e di azione. Il modello di laico del passato offre l’immagine di laici devoti, obbedienti, servizievoli e non critici, non capaci di obiezione, non autonomi nelle scelte. Scriveva recentemente il mio collega Piero Coda, Presidente dell’Associazione teologica italiana: «È necessario che la coscienza cristiana assuma il compito di collegare la teologia con l’antropologia, passando attraverso l’ecclesiologia trinitaria, riprendendo la questione della sinodalità, come categoria ecclesiologica e come prassi ecclesiale».

In altre parole si tratta di assumere, come caratterizzante la vita ecclesiale il principio di collegialità per l’integrazione e l’articolazione di tutte le componenti ecclesiali, costituite dal battesimo in pari dignità, chiamate alla medesima meta della santità, convocate dall’unico Padre a testimoniare insieme il suo amore per l’umanità, responsabili dell’esercizio di tutti i carismi donati dallo Spirito per corrispondere ai bisogni e alle istanze della comunità degli uomini contemporanei.

L’Ecclesia de Trinitate esige relazioni trinitarizzate, pericoretiche, cioè circolari, chenotiche che si abbassano, che si annullano per servire, nel dinamismo di una reciprocità effettiva e non solo predicata.

Un punto delicato che, credo, valga la pena mettere a fuoco, è il dinamismo tra Chiesa universale e Chiesa locale, che nel Concilio Vaticano II uscì fuori con una sua ricchezza, ma anche con una sua problematicità. Questo binomio: Chiesa universale, Chiesa locale, ha conosciuto in questi quaranta anni degli sbilanciamenti, ora a favore di un polo e ora a favore di un altro. La missione e la evangelizzazione riguardano anzitutto la Chiesa locale nella sua globalità. Da essa, infatti, sul fondamento della successione apostolica, scaturisce la tensione di annunciare la fede. A tutti, scelti nella e per la comunione è chiesto, sotto la guida del Vescovo, di assolvere al mandato di annunciare il Vangelo.

La cura e la formazione del laicato vanno promosse in due direzioni: in quella della crescita della qualità testimoniale della fede cristiana, e nell’altra relativa al servizio ecclesiale nel segno della gratuità e della oblatività. La Chiesa non ha bisogno di professionisti della pastorale, ma di una testimonianza di dono gratuito. Mi sembra interessante la prima direzione, cioè formare i laici per far crescere dei cristiani adulti, capaci di testimoniare con la vita, le opere e le parole, la loro fede nel Cristo morto e risorto.

San Cipriano scriveva: «Il Vescovo è nella Chiesa, e la Chiesa è nel Vescovo». Dunque il soggetto ecclesiale della Chiesa locale è il vero soggetto di pastorale nella storia e nel territorio. Il Vaticano II non a caso ha puntualizzato la sacramentalità dell’Episcopato come terzo grado dell’Ordine Sacro, riaffermando comunque la dignità di tutti i battezzati e in particolare dei laici. Si tratta di saper armonizzare attorno al Vescovo le componenti ecclesiali dei carismi.

È necessario riaffermare l’estroversione della Chiesa, come dinamismo ad esso connaturato per la missione uscendo, in tal modo, da una prospettiva ecclesiocentrica. Qualche anno fa è stato pubblicato un documento Sulla collaborazione dell’uomo e della donna. Anziché considerare le grandi questioni sul tappeto in un mondo in subbuglio, sembra che la preoccupazione consista nello spazio da occupare tra uomini e donne, tra laici e preti, tra religiosi e laici…

È urgente ridisegnare l’orizzonte dei destinatari: non sono i pochi che noi consideriamo raggiungibili; il destinatario è il mondo nel senso giovanneo, quello anche carico di peccato, che esige una Chiesa eccentrica e non succube di una chiusura ecclesiocentrica, una Chiesa che si proietta fuori di sé, come Chiesa, come popolo: non il prete o la suora, ma il popolo di Dio nel suo insieme.

Riaffermando di volersi fare serva della verità e non padrona, discepola di Cristo, senza la pretesa di possederlo totalmente o peggio ancora di gestirlo, la Chiesa deve fare buon continuo cammino di conversione: si tratta di tracciare l’orizzonte del Regno, attualizzandone continuamente la riserva escatologica. Questo è uno dei più alti compiti assegnati dallo Spirito ai religiosi nella Chiesa e nel mondo: si tratta di ricordare continuamente a tutto il popolo di Dio, ma anche al mondo, che la partita non si conclude nella storia, perché il Regno ha dei confini molto più ampi che conducono all’eschaton. Bisogna ridimensionare alcune assolutizzazioni, alcune dinamiche storiche di potere, per dare forza all’impegno di liberazione assunto dalla Chiesa nei confronti degli ultimi. Non si può rimandare quest’impegno al domani, in quanto l’eternità si iscrive in questi gesti di profonda liberazione dei poveri e dei deboli.

Nel rappresentare il Regno di Dio che viene, ma che non si esaurisce nella vita e nell’azione della Chiesa, la funzione dei religiosi appare urgente e ineliminabile, specie nel rapporto con i laici, per donare la consapevolezza di una realtà invisibile, ma non per questo poco rilevante.

Le categorie ecclesiologiche di Popolo e di Corpo ci dicono che siamo un’unica realtà organica, e che nella Chiesa c’è una misteriosa alternanza nelle funzioni di docenti e di discenti. Il magistero è docente nella dottrina, i preti nella Parola, nei sacramenti nella vita della comunità, ma i religiosi hanno anche loro un magistero per la Chiesa, il Regno, lo stile delle beatitudini, la gratuità del dono, l’assolutezza della relazione con Dio, la preghiera, la cura degli ultimi, la rivelazione dell’eschaton nella storia nella luminosa testimonianza delle loro vite offerte.

I laici hanno anche loro un magistero e gli altri apprendono tale magistero: l’attualizzazione della logica dell’Incarnazione. Bisogna vivere da redenti nel luogo e nel tempo in cui Dio ci ha posti per scoprire il senso e l’orientamento della storia, una storia che non è affidata al caos, in quanto c’è una mano provvidenziale che la dirige. Ai laici è chiesto di individuare verso dove camminare col resto dell’umanità, di leggere i fenomeni contemporanei, in un continuo discernimento dei segni dei tempi per farsi portavoce delle istanze degli uomini del nostro tempo. C’è dunque un magistero dei laici, la loro voce va ascoltata. Allora i laici non sono nella Chiesa da vedere come persone passive cui è dato di ascoltare l’omelia del prete la domenica.

Verso la reciprocità

A proposito del rapporto uomo-donna, su cui tornerò tra poco, il mio collega Piero Coda scrive: «ci troviamo, oggi, sulla soglia della reciprocità». Mi è piaciuta moltissimo quest’espressione: io l’allargo alla reciprocità vescovi, preti, laici, religiosi, ampliandone il raggio. Ci troviamo sulla soglia della reciprocità: forse ancora non l’abbiamo varcata. Mi chiedo cosa sarebbero nella Chiesa la comunione, la missione, il dialogo, la fantasia della carità, una volta attraversata la soglia: si tratterà di un’esperienza creativa e libera di comunione nella reciprocità. Forse dobbiamo ancora scoprirla in buona parte questa novità di vita comune, questo essere insieme. Non è un caso che la vita venga da un uomo e una donna, nella loro alterità irriducibile e nella loro capacità di totale compenetrazione, a specchio della vita trinitaria. La vita viene dall’incontro delle alterità, che è un incontro di fecondità, un incontro di amore, non di semplice reciproca tolleranza, ma di amore che rinnova la realtà.

È richiesto adesso nel rapporto tra laici e religiosi il passaggio dall’estraneità alla collaborazione, ma anche dalla collaborazione alla corresponsabilità. Collaborare significa mettersi a lavorare insieme ma, nel senso originale del termine, quasi un partorire insieme, un soffrire insieme per un travaglio che deve produrre qualcosa di nuovo. La corresponsabilità è anche altro: è sentirsi allo stesso livello, chiamati e ispirati dalla voce dello Spirito, pronti ad accogliere le sue provocazioni e i suoi suggerimenti.

Ma c’è un passaggio ancora più delicato dall’unidirezionalità alla reciprocità: non solo sul piano del fare, ma anche sul piano dell’essere. C’è un dare e un ricevere nella reciprocità che non ancora abbiamo forse sperimentato fino in fondo.

Al numero 12 del documento Il volto Missionario della Parrocchia si legge come ultima componente il non dover dimenticare la vita consacrata. Ma quale considerazione si ha delle numerosissime parrocchie rette da religiose e religiosi! Una parrocchia non può dimenticare la vita consacrata: non si tratta tanto di impegni da assolvere, quanto piuttosto che essi siano quello che sono, in modo tale che il carisma di ciascun Istituto rappresenti per la Chiesa il richiamo alla radice della carità e alla destinazione escatologica. Questa forma di vita non si chiude in se stessa, ma si apre alla comunicazione con i fratelli: «Ogni parrocchia accolga in particolare il dono di cammini di preghiera e di servizio».

Forse gli stessi consacrati hanno perso la dimensione del fare dono di sé, del loro essere alla Chiesa e al mondo: presi come sono dal portare a termine tante incombenze, dimenticano questa dimensione essenziale.

Non è un caso che in un tempo così caotico e rumoroso come il nostro venga presentato un film come Il grande silenzio che descrive la vita quotidiana e silenziosa dei monaci. Come dire che oggi si avverte il bisogno di riscoprire il piano dell’essere, dell’interiorità, della presenza orante!

C’è un grave bisogno oggi di laici formati, ma l’ideale sarebbe formarsi insieme. Nel master che io dirigo in Sicilia ho inteso mettere insieme laici, religiosi, preti, senza distinzione, perché il cammino di formazione ecclesiale è unico. Poi nella forma della vita, secondo la propria vocazione, ciascuno prenda la sua forma, ma nella sostanza di tutte le vocazioni si cresce in quel “Sentire cum Ecclesia”, in quella corresponsabilità e in una preparazione culturale che costituisce il terreno comune su cui poi lavorare nei vari ambiti.

Nello scambio tra religiosi e laici mi sembra importante uscire da forme di spiritualismo disincarnato. Per troppo tempo ci è stato donato dai religiosi questa idea, che la spiritualità monastica è la migliore, è la vera e dunque anche i laici devono in qualche modo pregare come pregano i monaci. Questo ha significato nel tempo l’esperienza di lacerazione interiore senza fine: se non si riesce a pregare con la preghiera delle Ore ciò non vuol essere fuori dalla preghiera della Chiesa. In Oriente la tradizione ha presentato quella piccola preghiera del cuore che ha permesso a tutti, anche ai viandanti di pregare giorno e notte. Per molto tempo noi siamo stati succubi di un’idea di perfezione e di santità di serie A e di serie B. Ma la mistica cristiana non è la via dei privilegiati, delle suore, dei frati e a limite di qualche Vescovo o di qualche Papa; la mistica è la via comune di tutti i cristiani. Noi crediamo perché abbiamo un rapporto intimo con il Signore: noi tutti ci giochiamo la vita perché abbiamo conosciuto il Dio dell’amore. Questo vale per i religiosi e vale per noi laici, senza alcuna differenza.

Il terzo millennio attende ancora la rivelazione del genio femminile. Giovanni Paolo II si è pronunciato diverse volte su questo tema. Un genio da manifestare non come ubbidienza, ma con creatività, non solo come silenzio, ma anche come parola, non solo come capacità esecutiva, ma anche come partecipazione effettiva ai processi decisionali della Chiesa. Si tratta di assumere tutto il positivo delle rivendicazioni delle donne nel mondo, assumendo la crescita in consapevolezza per la costruzione della Chiesa e del mondo.

Grazie a Dio, oggi nelle assemblee ecclesiali anche le suore esprimono le loro idee. Il testo della Genesi dichiara che la donna è stata creata per stare di fronte all’uomo, capace cioè di obiettare e di dibattere.

Quali i campi della collaborazione tra religiosi e laici?

Prima di tutto il primato dell’impegno spirituale, nella formazione, nella preghiera, nel discernimento, nell’accompagnamento spirituale. Secondo, la vita fraterna, per cui oggi c’è una grande sensibilità: la vita solidale della famiglia, la vita insieme nelle comunità religiose.

La famiglia ha qualcosa da dare alle comunità e le comunità hanno qualcosa da dare alle famiglie in questo senso. Si tratta di essere consapevoli in ambedue i casi che si è palestra di relazioni per ricordarci l’un l’altro in reciprocità quanto sia importante investire sulla relazione. Gesù stesso, venendo sulla terra, è nato in una famiglia. Poteva venire da single, ma ha scelto di venire in una famiglia, chiedendo a tutti con forza di fare un salto nella fede. Quando qualcuno gli dice: «“Ci sono tua madre e i tuoi fratelli”, egli risponde: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’». Coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica, coloro che fanno la volontà del Padre mio. Quindi c’è da fare questo salto: dalla famiglia dei legami di sangue alla famiglia dei credenti in lui. È a questo salto che contribuisce la testimonianza credibile di comunità religiose fraterne. Solo in un clima di vera condivisione la vita fraterna produce nelle persone una crescita secondo un’umanità piena, vera e autentica. I giovani si lasciano attrarre da vite realizzate: per contagio allora si avvicinano. La fraternità ha una grandissima attrattiva in un’epoca in cui trionfa l’individualismo esasperato. La fraternità diventa credibile: «Da questo vi riconosceranno, se vi amerete gli uni gli altri. Amatevi come io vi ho amati».

Nella trasmissione della fede laici e religiosi possono lavorare insieme integrandosi molto bene. C’è bisogno di far passare da una generazione all’altra il messaggio della vita: possiamo vedere dove, come, perché, ma questo messaggio della vita e dell’amore deve passare. È azione di Chiesa, quella del generare ed educare alla fede: solo insieme, le componenti ecclesiali, possono riuscire in questo difficile compito. Inoltre l’educazione al dialogo interculturale e interreligioso, appare urgente e necessaria in una società multietnica come la nostra. Infine la passione per l’uomo, la predilezione dei poveri, la promozione della giustizia costituiscono un impegno di liberazione che appartiene a tutta la Chiesa.

Paolo VI nella sua enciclica Evangelii Nuntiandi offre un titolo mariano molto bello: «Maria, stella di Evangelizzazione». Vorrei chiudere con questa invocazione a Maria augurandomi che tutte le famiglie religiose domani possano illuminare questo mondo che ha tanta fame e sete di luce.

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