n. 9
settembre 2006

 

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FRAGILITÀ E SPERANZA

di Luciano Sandrin

 

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La Traccia di riflessione della Chiesa italiana in preparazione al Convegno di Verona inizia con queste impegnative parole: «In questo inizio di millennio, carico di sfide e di possibilità, il Signore risorto chiama i cristiani a essere suoi testimoni credibili, mediante una vita rigenerata dallo Spirito e capace di porre i segni di un’umanità e di un mondo rinnovati». Uno degli ambiti per l’esercizio di questa testimonianza è costituito dalle forme e dalle condizioni di esistenza in cui emerge e si esprime la fragilità umana. «La speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, al cammino della vita»1. E questo può avvenire solo non emarginando la fragilità dalla nostra vita ma riconoscendola come caratteristica della nostra “umanità” e umanizzando la relazione con tutti coloro che, in modi e situazioni particolarmente dolenti, ne vivono gli effetti più gravi.

La fragilità incrocia continuamente i vari ambiti della testimonianza che, come cristiani, siamo chiamati ad esprimere: segna la vita affettiva e familiare, è presente nei luoghi del lavoro e della festa, entra nei mondi della comunicazione, della formazione e del vivere sociale. E nelle varie esperienze di fragilità Dio fa risuonare ancora oggi i suoi inviti chiamando il singolo credente, e tutta la comunità, alla testimonianza per far sì che il Vangelo di Gesù Cristo «esprima la sua verità perenne nelle mutevoli circostanze della vita»2. I cristiani non vivono separati dal mondo ma neppure in esso confusi. Come pellegrini dentro la storia, ma in cammino verso una meta che la trascende, essi sono invitati ad essere nel mondo testimoni di speranza (cfr 1Pt 2,11).

 

1. Le fragilità della vita

Sono molte le forme in cui la fragilità si esprime: la malattia, il dolore, la disabilità, il disagio, la debolezza, la vulnerabilità, la povertà, l’estraneità e molte altre ancora. Ogni forma di fragilità è simbolo di tante altre, provocazione a riflettere, a coinvolgerci, ad uscire dalle nostre illusioni e a testimoniare, a guardare in faccia esperienze che vorremmo lontane da noi, altre-dalle-nostre, che ameremmo non incontrare e non vedere ma che spesso sono dentro alla nostra psiche, nella casa in cui viviamo o abitano dietro la porta accanto. Ci sentiamo improvvisamente fragili quando qualcuno che amiamo ne è toccato o per fatti di cronaca particolarmente violenti e dolorosi. Ci meravigliamo di non esserci accorti di sofferenze così disperanti, di relazioni d’amore che stavano cambiando di segno. Sono storie spesso drammatiche per la solitudine che accompagna il mistero di una violenza estrema che non è frutto di odio ma che ha radice in una cura e in un affetto profondi che non hanno saputo trovare vie praticabili per la speranza di un futuro dignitoso: simbolo di una fragilità personale e familiare aggravata da un troppo fragile sostegno sociale3.

Nei momenti di particolare fragilità le persone avrebbero bisogno di una “rete” di protezione e di solidarietà che non sempre può risolvere il loro dolore, ma che può renderlo almeno più umano e sopportabile, di compagni di viaggio che accettano di fare insieme un pezzo di strada4. E nella nostra prossimità, presenza a volte impotente e fragile, le persone che soffrono possono riscoprire la tenerezza di un Dio che ha accettato, per salvarci, di farsi impotente e fragile: dalla culla fuori dall’albergo fin sulla croce fuori dalla città.

Intervenire sul disagio e sulla sofferenza significa spesso rompere il circolo vizioso tra isolamento e solitudine, lavorare insieme (con-laborare) perché si instauri un circolo virtuoso nel quale l’amore crea relazioni di riconoscimento, di solidarietà e di sostegno, affettivamente forti, e si impegna per una sua cura adeguata, integrando, come ci ricorda Benedetto XVI, nel suo primo Messaggio per la Giornata mondiale del malato, a proposito del disagio mentale, terapia appropriata e sensibilità nuova. Il malato non va disgiunto dalla famiglia che va sostenuta perché solo se è forte riesce ad aiutare il proprio caro, mentre se è fragile rischia di bruciarsi ed esaurire le energie non solo fisiche, ma anche emotive e relazionali. I singoli samaritani devono imparare a “prendersi cura insieme” delle persone che chiedono l’olio della consolazione e cercano il vino della speranza, segni della grazia che apre la notte del dolore alla luce pasquale del Cristo crocifisso e risorto5.

Nelle esperienze di particolare fragilità cadono le nostre illusioni, le nostre finzioni, le nostre maschere e le nostre difese, siamo chiamati a guardare in faccia il limite proprio della nostra umana identità. Interrogandoci sul significato della fragilità umana, specialmente quando è la nostra fragilità, finiamo per interrogarci sul senso della nostra esistenza, siamo spinti a chiarire a noi stessi la grandezza e i limiti della nostra libertà, l’inter-dipendenza che ci costituisce fin da prima del nostro nascere, la reciproca fragilità che definisce qualsiasi relazione d’amore, come anche quella di cura. Eliminare la fragilità è forse una delle utopie che qualificano il nostro tempo. Ma la fragilità continua ad esistere e con la fragilità dobbiamo continuamente misurarci.

 

2. Salvati da un Dio fragile

La fragilità caratterizza la nostra umanità ma anche quella di un Dio che, nell’incarnazione del Figlio e nella sua morte in croce, la assume e la salva. Il messaggio biblico è un messaggio di salvezza. Il nostro Dio è un Dio salvatore. Ma c’è qualcosa di paradossale, di controcorrente, e quindi di umanamente stolto e scandaloso, nel Dio che in Gesù si è rivelato. «Il Dio che ci ha rivelato Gesù salva l’uomo con la forza della sua debolezza. Il nostro Dio dimostra la sua onnipotenza salvandoci nell’impotenza di Gesù; facendosi debole e fragile ci fa forti; facendosi peccato ci fa santi; rendendosi mortale ci dà la vita»6 (cfr. 1Cor 1,18-25). Fin dal momento dell’incarnazione, in tutta la sua vita e specialmente nell’estrema fragilità della morte in croce Dio si fa solidale con la nostra fragilità, la salva assumendola come propria e facendola luogo di riconciliazione con l’umanità, di rivelazione di sé e della sua presenza d’amore.

In molte esperienze di fragilità che segnano la nostra vita e quella di coloro che amiamo, il dolore prende spesso il sopravvento e il controllo su di noi. Soluzioni religiose diverse vengono proposte per rispondere al perché del nostro soffrire, cercandone il “senso” in cui Dio è implicato, sottolineandone, di volta in volta, la trascendenza o l’immanenza, l’onnipotenza o la debolezza, la forza o la fragilità, il nascondimento o la rivelazione, il silenzio o la parola, la distanza o la vicinanza d’amore.

Anche nel dare un senso alle nostre fragilità, nel riconoscerle come pienamente umane e nell’umanizzare le relazioni con coloro che le vivono con particolare dolore, dobbiamo “ripartire da Gesù Cristo”, tenere fisso il nostro sguardo sul volto del Signore e sul suo agire7. Per un cristiano il senso ultimo della fragilità e del dolore che segnano il suo vivere e il suo morire non può essere pienamente spiegato ma vissuto dentro all’esperienza di testimonianza di fede, di speranza e d’amore. «Gesù Cristo non è venuto a spiegarci la sofferenza, ma a riempirla della sua presenza, a condividerla, a trasfigurarla, mostrandoci in quale spirito si deve assumere, per conformarci a Lui»8.

Ciascuno si chiede il senso delle fragilità che ci fanno soffrire e nel cercare una risposta pone più volte questa domanda a Dio. Ma quel Dio, al quale pone la sua domanda, gli risponde dall’estrema fragilità della croce. «Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta». Nella croce Dio fa compagnia al dolore umano e il suo senso di assurdità è vinto dall’interno9.

Il significato definitivo della sofferenza di Gesù appare però, in maniera compiuta, solo nell’evento della risurrezione, risposta ultima del Padre al grido del suo Figlio, che dà senso e compimento al suo atteggiamento di filiale fiducia e obbedienza. La domenica di Risurrezione non annulla, però, il Venerdì di passione. La potenza del Risorto non annulla la fragilità del Crocifisso.

La tensione tra croce e risurrezione continua a segnare la vita dei cristiani, chiamati a vivere tra due atteggiamenti diversi ma contemporaneamente presenti: la ricerca di un senso per il dolore non ancora eliminato, per la fragilità che segna la nostra vita, accolta e vissuta come un segno della partecipazione alla passione del Cristo; la consapevolezza che la potenza scaturita dalla risurrezione del Figlio di Dio è già efficace nel tempo della Chiesa, nelle sue “mediazioni” salvifiche e nelle sue relazioni d’amore. Sono queste “mediazioni” del suo amore ad esserne la testimonianza narrante, la miglior “teo-logia”.

La figura più adulta del nostro testimoniare Dio è la «fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6), la fede che prende “corpo” e si fa storia nella condivisione e nell’amore10.

 

3. Rispettare il Suo nome

Il bambino malato è un segno particolare di fragilità. «Quando un bambino entra in ospedale, – scrive Andrea Canevaro – è come se fosse portato nel bosco, lontano da casa. Ci sono bambini che si riempiono le tasche di sassolini bianchi, e li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada di casa anche di notte, alla luce della luna. Ma ci sono bambini che non riescono a far provvista di sassolini, e lasciano delle briciole di pane secco come traccia per tornare indietro. È una traccia molto fragile e bastano le formiche a cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più ritornare a casa»11. Nella nostra relazione con il bambino siamo chiamati al rispetto, attenti a non calpestare i suoi fragili cammini, ma anche la particolare fragilità dei suoi genitori12.

Accanto al bambino malato e ai suoi genitori, le interpretazioni religiose e le immagini di Dio che presentiamo con le nostre parole, ma soprattutto con la nostra presenza e con il nostro atteggiamento, giocano un ruolo importante e vitale per far fronte alla situazione. Sono un fattore chiave per la loro salute anche a livello spirituale. Dovremmo essere meno preoccupati, accanto a chi soffre, di una teodicea che fa “discorsi” su Dio, e cerca di difenderlo, ma piuttosto di una teodicea pastorale: far sentire che Dio è vicino attraverso la nostra vicinanza, la nostra tenerezza, la nostra cura e il nostro amore, e che è presente anche nei nostri imbarazzati silenzi, un Dio che parla di sé (teo-logia) attraverso le nostre relazioni che ne testimoniano l’amore.

Se è vero che solo l’amore è credibile, anche noi, attraverso le nostre pur fragili relazioni d’amore possiamo rendere credibile Dio (e quindi salvarlo agli occhi di chi soffre) «nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi»13.

Solo una società che rispetta la vita umana come umana, specialmente nelle sue espressioni più fragili, è una società a misura d’uomo. Solo una Chiesa che accoglie il nascituro e protegge il bambino, che cura il malato e si prende cura di quello più grave, che soccorre il povero, che ospita l’abbandonato, l’emarginato e l’immigrato, che visita il carcerato, che protegge l’anziano, può dirsi veramente “maestra d’umanità”. L’accoglienza della fragilità non riguarda solo le situazioni estreme. «Occorre far crescere uno stile di vita verso il proprio essere creatura e nei rapporti con ogni creatura: la propria esistenza è fragile e in ogni relazione umana si viene in contatto con altra fragilità, così come ogni ambiente umano o naturale è frutto di un fragile equilibrio»14.

Torna forte, – nell’esperienza di fragilità della malattia, della sofferenza e della colpa, – l’obbligo di levarsi i sandali e di fare continua attenzione a non nominare il nome di Dio invano.

 

4. La reciprocità dell’amore

La fragilità può trovare significato (essere “salvata”) nella fraterna solidarietà, nell’affetto, nell’amore che riconcilia con la condizione umana. Ognuno di noi è frutto della cura donata alla nostra non-autonomia, alla nostra fragilità che non è solo iniziale, biologica, ma perdura per tutto il nostro percorso biografico: la fragilità ci definisce, è causa di bisogno, ma anche motivo di dono. Quello che l’umana fragilità cerca è la relazione di riconoscimento (il reciproco riconoscimento del bambino da parte della madre e della madre da parte del bambino) e per questa strada passa il dono (reciproco anche se in forme differenti).

Solo il riconoscere e accettare nella nostra vita e nelle nostre relazioni l’apertura a Dio, e la relazione creaturale e filiale che a Lui ci lega, è capace di riscattare la nostra fragilità, di inserirla in una dinamica d’amore che la trascende, in un futuro che definitivamente la salva. Tutto questo è evidente nelle situazioni-limite di sofferenza, dove materialmente ben poco si può fare, ma che comunque hanno un senso, perché sono l’occasione del reciproco riconoscimento come persone in rapporto a Dio, del reciproco donarsi il suo Amore. Siamo prima dei nostri scambi d’amore ma di questi abbiamo bisogno per crescere.

Come chiesa, sull’esempio di Maria, siamo chiamati ad essere il grembo che accoglie le persone fragili e le salva dall’emarginazione e dal non-senso, riconoscendo innanzitutto in loro l’immagine di Dio e la stessa presenza del Cristo: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36). Potremmo aggiungere: fragile e mi avete trattato con cura. «Questa pagina – sottolinea Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte – non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo» (n. 49). È, quindi, anche una pagina di ecclesiologia.

Non sempre è possibile guarire il dolore. A volte si è impotenti e si resta in silenzio. Proprio il silenzio è spesso il servizio più grande. E proprio un amore che condivide il dolore, come Maria ai piedi della croce, può rivelarsi anche “luogo teo-logico”: in cui Dio si rivela e nel quale possiamo purificare la nostra stessa teo-logia. La sofferenza, per la fragilità in cui getta la persona, può diventare anche lo spazio nel quale lo Spirito santo «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26), a quella di colui che soffre ma anche a quella di chi lo prende in cura, e ispira forme di scambio d’amore reciproco «in cui ciascuno dà e riceve nella dimensione profonda e più silenziosa del suo essere»15.

Mettersi umilmente alla scuola del malato e del sofferente può aprire percorsi sapienziali per costruire una diversa visione della vita, della salute, della fragilità e della cura. Le persone più fragili possono insegnare «che cosa è l’amore che salva e possono diventare annunciatrici di un mondo nuovo, non più dominato dalla forza, dalla violenza e dall’aggressività, ma dall’amore, dalla solidarietà, dall’accoglienza, un mondo nuovo trasfigurato dalla luce di Cristo, il Figlio di Dio per noi uomini incarnato, crocifisso e risorto»16. C’è bisogno, però, di uno sguardo contemplativo che, nella fede, sappia scoprire in loro l’immagine vivente del Creatore, il volto del Figlio dolente, crocifisso e risorto, e la misteriosa, ma sempre presente e multiforme, azione dello Spirito17.

C’è bisogno anche di un’attenzione particolare: in un rapporto “comunionale”, nel quale ci si lascia toccare dalle ferite dell’altro e dai suoi dolori, la fragilità dell’altro entra in sintonia con le nostre fragilità e si diventa vulnerabili. Chi sta accanto alle persone particolarmente fragili e se ne prende cura “con-passione”, ha bisogno di un’attenta formazione non solo professionale ma anche relazionale e spirituale18.

 

5. La preziosità della speranza

La speranza è un bene fragile e prezioso, e solo nell’amore trova il suo nutrimento, il grembo per crescere. Nella relazione con chi soffre la speranza si impegna nell’amore e da esso viene nutrita. E in questo servizio il cristiano dà ragione della speranza che è in lui (1Pt 3,15). La speranza ultima può essere trovata nelle speranze finite ogni volta che le speranze finite contengono i segni relazionali di Dio e del suo amore. Il concetto di viaggio ci parla di una speranza (e quindi di un futuro) basata sulla fiducia dell’alleanza, anche quando la fine non è in vista, ma ci sono presenze amiche e significative che ci accompagnano e ci rassicurano.

Nella fiducia relazionale con la madre, e nella sicurezza del suo amore, il bambino si apre alla speranza. La Chiesa si offre, in questo senso, come comunità di speranza ogni volta che in essa vengono vissuti, nelle relazioni significative del presente, degli anticipi del regno d’amore di Dio. E questa anticipazione, che dà forma al presente come al futuro, è celebrata in modo particolare nei sacramenti. Sono essi la memoria del futuro, il pegno sicuro di un suo realizzarsi, «luogo dove le diverse forme di fragilità umana sono vinte nella loro radice più profonda»19.

Della speranza che non delude, il Signore ha lasciato un pegno particolare nell’Eucaristia, nella quale è già in atto la speranza che alimenta l’attesa, la vera risposta alla nostra ricerca del senso della vita e del nostro futuro: una tensione escatologica che dà impulso al nostro cammino storico, ponendo un seme di vivace speranza che «stimola il nostro senso di responsabilità» verso il presente20. Nella logica pasquale dell’Eucaristia, memoriale di morte e risurrezione, il cristiano è chiamato a costruire nel già del suo tempo presente il non ancora del mondo futuro, a vivere la croce della sua vita fragile nella speranza della risurrezione di cui l’Eucaristia è esperienza e garanzia. Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia il divino Viandante cammina con noi, ci spiega le Scritture, sostiene la nostra fragile speranza e ci scalda il cuore aprendolo al coraggio dell’annuncio e della testimonianza (cfr. Lc 24,13-35)21.

Nel segno fragile del pane spezzato e condiviso Dio “ri-vela” (svela e continuamente nasconde) ancora oggi l’onnipotenza del suo amore e ce ne rende misteriosamente partecipi.

Nella fragilità del nostro prenderci cura è misteriosamente presente la forza del Suo Spirito d’amore, sostegno della nostra fede e ragione della nostra speranza.
 


NOTE

1.  Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, Traccia di riflessione in preparazione al Convegno Ecclesiale di Verona 16-20 ottobre 2006, Paoline, Milano, nn. 1 e 15/c. [Torna al testo]

2.  Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis. Esortazione apostolica postsinodale, 25 marzo 1992, n. 10. [Torna al testo]

3.  Sandrin L., Fragile vita. Lo sguardo della teologia pastorale, Camilliane, Torino 2005, pp. 130-132. Cfr. questo testo anche per un’introduzione alla teologia pastorale e ai temi collegati alla fragilità. [Torna al testo]

4.  Cfr. Sandrin L., Compagni di viaggio. Il malato e chi lo cura, Paoline, Milano 2000. [Torna al testo]

5.  Prefazio comune VIII, Gesù buon samaritano. [Torna al testo]

6.  Venturi G., La fragilità salvata, in AA.VV.,  Una fragilità salvata. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in “Comunicare la fede”, 2 (2006), p. 9. [Torna al testo]

7.  Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte. Lettera Apostolica al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000, 6 gennaio 2001. [Torna al testo]

8. Latourelle R., L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo, Cittadella, Assisi 1992 (or. r. 1981), p. 400. [Torna al testo]

9.  Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris, Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, 11 febbraio 1984, n. 19. [Torna al testo]

10. CEI, Testimoni di Gesù risorto… n. 8. [Torna al testo]

11. Canevaro A., I bambini che si perdono nel bosco, La Nuova Italia, Firenze 1976. [Torna al testo]

12. Cfr. la storia di Ernie in Perkins-Buzo J.R., Theodicy in the face of children’s suffering and death, in “The Journal of Pastoral Care”, 2 (1994), pp. 155-161. [Torna al testo]

13. Benedetto XVI, Deus caritas est. Lettera enciclica sull’amore cristiano, 25 dicembre 2005, n. 38. [Torna al testo]

14. CEI, Testimoni di Gesù risorto… n. 15/c. [Torna al testo]

15. Vanier., Ogni uomo è una storia sacra, EDB, Bologna 1999 (or.fr.1994), p. 32 [Torna al testo]

16. Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti al Simposio internazionale su “Dignità e diritti della persona con handicap mentale”, Città del Vaticano 5 gennaio 2004. Cfr. anche CEI – Ufficio nazionale per la Pastorale della salute. Alla scuola del malato, 14°. Giornata Mondiale del Malato, 11 febbraio2006, Camilliane, Torino 2005. [Torna al testo]

17. Cfr. Giovani Paolo II, Evangelium vitae. Lettera enciclica, 25 marzo 1995, n. 83. [Torna al testo]

18. Cfr. Sandrin L., Aiutare senza bruciarsi. Come superare il burnout nelle professioni di aiuto, Paoline, Milano 2004. [Torna al testo]

19. Venturi G., La fragilità salvata, in AA. VV. Una fragilità salvata. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in “Comunicare la fede”, 2 (febbraio 2006), p. 10. [Torna al testo]

20. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucaristia. Lettera enciclica, 17 aprile 2003, nn. 18 e 20.  [Torna al testo]

21. Cfr. Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’Anno dell’Eucaristia (ottobre 2004 – ottobre 2005) 7 ottobre 2004. [Torna al testo]

 

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