n.6
giugno 2007

 

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La donna biblica: modello di virtù che riscatta Eva
di Gianni Trabacchin

 

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Il racconto biblico, come chiave di comprensione d’ogni relazione che desideri essere ricreata ed illuminata dalla Parola, propone come punto di partenza Genesi 1; per questo da lì prende avvio la nostra riflessione. Lì veniamo anzitutto a sapere che la donna "biblica" vive di una relazione complessa. È a immagine e somiglianza di Dio, secondo una qualità che la distingue oltre ogni altra creatura; ma è allo stesso tempo un’immagine e somiglianza condivisa, da ricercare o, meglio ancora, da creare nell’incontro tra il maschio e la femmina: "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gn 1,27).

Secondo la propria specie

È l’uomo, l’umanità, la grande sfida che Dio lancia alla storia, per trasformarla in luogo di creazione d’incontro, di opportunità di salvezza; luogo di esperienza di comunione, in quanto ognuno è portatore di un’immagine propria, di un rimando unico e fondante con Colui che è il Creatore, l’artista di ogni incontro. E la sfida, "facciamo l’uomo", viene lanciata a un maschio e a una femmina perché diventino, nel loro incontrarsi, un’opera unica, un’umanità che profuma di divino.

Viene allora da pensare che il primo compito che spetta alla donna "biblica", come d’altra parte a ogni altra creatura, è custodire la propria specificità: "ognuno secondo la propria specie", come recita uno dei ritornelli che ritmano tutto il primo racconto della creazione. Il che significa impegno a non appiattirsi, a non uniformarsi, a non nascondersi, ma neppure ad annullarsi; fedeltà nel cercare la propria identità, la propria lingua nella quale annunciare anzitutto l’essere una donna credente, nei gesti quotidiani della propria umanità.

Nella gioia di stare di fronte

Nella ricerca della specificità, Genesi 2 offre un contributo affascinante: creata dalla costola, cioè della stessa dignità e preziosità dell’uomo, la donna è il dono che supera ogni altra attesa: "Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta". Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna" (Gn 2,22-25).

Nel confronto tra Dio e l’uomo, che precede questi versetti, ci troviamo di fronte a un cammino faticoso, a partire dalla responsabilità di coltivare e custodire il giardino perché questo possa crescere. Si passa poi al tentativo, non riuscito, di rendere gli animali una credibile risposta di senso alle domande dell’uomo. Il tutto infine sfocia nell’apparizione della donna. Essa diventa portatrice di una novità assoluta, unica rispetto a qualsiasi altro progetto di gioia, di felicità, di relazione.

Finalmente abbiamo "l’aiuto che sta di fronte", che ti spinge fuori casa, oltre il tuo essere figlio, che è posizione dove uno è garantito e protetto rispetto al mondo essendo lui la garanzia del futuro. Contrariamente alla relazione genitore-figlio, la relazione uomo-donna è finalmente la relazione che ti espone oltre le mura addomesticate, perché è relazione gratuita, che sorprende e ci supera comunque.

La donna allora appare qui come il vertice della creazione essendo "colei che ti sta di fronte"; via che educa, luogo dove si fa esperienza che lo stare di fronte all’altro diventa la possibilità gioiosa che la solitudine sia radicalmente vinta. Non va tra l’altro persa la sfumatura che la donna non sia solo un dono all’uomo, ma alla creazione tutta, al giardino da costruire con tutti i suoi diversi protagonisti. Tutto questo in una nudità, in uno starsi di fronte, senza paure e timori, dove non c’è bisogno della protezione di maschere, di compromessi o di parvenze, di finzioni o esagerazioni.

Viene allora naturale pensare che il compito della donna "biblica", donna in relazione e non incentrata su se stessa, è di rimanere comunque "altra", segno di un dono che supera la relazione stessa, testimone di una appartenenza che non appartiene comunque, mai, all’altro. Compito veramente alto, di rimanere di fronte: senza confondersi e magari senza ricattare, senza farsi passare per vittime e senza mai servirsi della possibilità di ammaliare, o sedurre o incantare per raggiungere i propri scopi. Impegno a rimanere sempre dono, mai oggetto da conquistare.

Nella fatica della misura del dono

Un progetto così "virtuoso" ovviamente è a rischio. Genesi 3 lo riassume in due immagini: da una parte si parla di generare la vita, gesto veramente creativo di una dignità unica, il quale comporta allo stesso tempo il rischio della morte; un generare quindi che non solo è gioia, ma è anche disperazione radicale. Dall’altra si parla di un incontrarsi nell’amore che diventa occasione per ridurre in schiavitù, dove l’altro t’incontra solo per dominarti e possederti. E la donna appare come vittima, vittima della vita, vittima dell’amore. "Dice infatti il Signore Dio al serpente: "Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno". Alla donna disse: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà"" (Gn 3,15-16).

La donna perciò è portatrice della speranza che vince ogni forma di male; custode della promessa della fedeltà di Dio all’umanità nel confronto quotidiano con il serpente e tutto ciò che esso significa; allo stesso tempo, dentro alla stessa relazione, essa viene presentata quasi come vittima di questa speranza, di questa fiducia, vittima in un certo senso del dono stesso. Verrebbe da pensare che nel momento in cui lei, qualche versetto prima, dice: "sono stata ingannata", faccia riferimento proprio a questa esperienza, che sente già in azione dentro di sé.

Nello svilupparsi della riflessione di Genesi 3 è possibile cogliere una sfumatura interessante: la donna è protagonista fin dall’inizio del capitolo; è lei che entra in dialogo con il serpente; è lei che esprime la dinamica della tentazione e coinvolge nella decisione l’uomo.

E proprio lì, nella paura che la relazione sia segnata dall’invidia e dalla gelosia, sia pure di Dio, lei appare la più esposta; forse è il suo atteggiamento costitutivo, è la sua struttura, sono le sue viscere di misericordia ad agire e a farle supporre fin dall’inizio che una relazione non può rimanere a metà. Si ha un bel dire che comunque il buon Dio ti mette a disposizione 9999 alberi del giardino con i loro frutti e che, alla fin fine, ti proibisce solo il decimillesimo. Ma senza quello, tutto il resto è come se fosse nulla. Così in effetti è dell’amore: il 99% non è quasi proprio tutto. Il 99% è niente. Così la donna sta dentro alla vita senza misurarsi, senza calcoli, con il rischio di essere e sentirsi costantemente ingannata. Come appunto nel generare e nell’innamorarsi, nel filo sottile che intercorre tra seduzione e violenza.

Qui s’insinua il dilemma originale della virtù e del vizio. Lo possiamo raffigurare come la necessità di accettare che nel limite ci sia la pienezza dell’incontro. Perché questo è proprio il cuore della sfida che Dio lancia originariamente all’uomo: accettare che l’incontro è vero e autentico anche se tu non hai pieno dominio sul giardino, sul fratello, su chi ami, su tutta la tua vita; anzi l’incontro è vero quando non sei padrone e signore, ma creatura davanti alle altre creature e al Creatore. Proprio per questo la donna ne porta le conseguenze, più dell’uomo, come appunto racconta Genesi 3.

Lei, immagine di Dio nel suo entrare in relazione e madre di tutti i viventi, racconta come si possa essere radicalmente segno di vita accolta, donata o perduta, di amore gratuito, appassionato o disumanizzante.

Alla ricerca di un limite che sia pienezza

Ritroviamo questa tensione in tutta la storia della salvezza. Ne diamo uno sguardo veloce. Ovunque nel testo biblico incontriamo storie di donne, vite in tensione tra un limite, che può diventare ragione di speranza e di vita, e un’amara sensazione d’inganno.

Sara e Agar (cf Gn cap. 16.18.21) sono storia di dono e di pentimento, di sorriso gioioso e timoroso, ma anche di cruda gelosia che segna per sempre il destino dei figli. Lia e Rachele (cf Gn cap. 29.30.35), radici di una famiglia che diventa popolo, accomunate in un percorso dove non si capisce bene dove inizi la benedizione; specie quando si comprende che la storia d’amore, quella vera, genera due figli: il primo venduto dai fratelli e il secondo che viene alla luce nello stesso istante in cui la luce si spegne per la madre.

Debora, la profetessa, e Giaele, "la benedetta tra le donne della tenda" (Gdc 5,24), costrette a farsi carico delle paure e della fragilità degli uomini cosiddetti forti, ma incapaci di uscire da un incontro che non vada oltre lo scontro, fidando sulle proprie forze. Dalila è invece l’abile seduttrice e, se per più volte accetta il rischio dell’ingannata, alla fine vince Sansone proprio là dove lui, secondo Genesi 3, dovrebbe svolgere il ruolo del dominatore.

Bellissima è la figura di Anna la quale, nel dolore della sterilità, viene giudicata da Eli ubriaca e iniqua (cf 1Sam 1,14), ma dalla sua debolezza nasce l’annuncio che l’arco dei forti si spezza mentre i deboli si rivestono di vigore.

La galleria potrebbe continuare all’infinito, entrando nell’ambito di immagini sapienziali, come la perfetta padrona di casa (cf Pr cap. 31) o la fanciulla che gioca al cospetto dell’architetto (Pr cap. 8) o le molteplici rappresentazioni di Donna Sapienza opposta a Donna Follia, in perenne sfida nell’educazione di ogni giovane inesperto.

Mi piace concludere questa carrellata mettendo a confronto due scene. Protagonisti sono due stranieri: Rut e Naaman, entrambi di fronte alla sfida che la terra diventi salvezza. E mentre da una parte l’uomo di potere, lebbroso ma ricco di mezzi, chiede al profeta e promette: "almeno sia permesso al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore. Tuttavia il Signore perdoni il tuo servo … per questa azione" (2Re 6,17-18). Dall’altra Rut risponde a Noemi: "Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io…" (Rut 1,16-17).

Due stili, due gesti, due scelte di vita: una visione di fede "viziata" dal compromesso, che comunque dona guarigione, e una donazione "virtuosa", oltre ogni buon senso, solo disposta a giocarsi fino in fondo, in una relazione che fino ad allora aveva il sapore dell’inganno.

Nell’accettazione che l’impossibile sia misura del nostro possibile

Non è un caso, credo, che ci sia una storia ovvia, normale, naturale, che è storia di uomini, e ciò appare evidente nelle genealogie. Non ce n’è una che non sia strutturata sullo schema: il padre genera il figlio, che a sua volta genera un figlio e così via (cf Mt 1). Ma quando lo sguardo si posa sul coraggio del dono, sull’accoglienza di una misura nuova, ecco apparire la donna e la storia cambia: "Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo" (Mt 1,16) e niente sarà più come prima! Niente sarà più come prima nemmeno per i circa 120 della prima comunità cristiana dove "tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui" (At 1,14-15). È una presenza femminile che rimanda a quella lungo il Calvario, in una sequela che continua: "Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti" (Lc 23,49).

È a partire dalla loro testimonianza non creduta della risurrezione, che la comunità viene ricostituita, ristabilita e risanata dai gesti di peccato degli uomini, tutti a diverso grado traditori. La "virtuosa" disponibilità femminile vince il limite e il compromesso e introduce all’accoglienza del dono nuovo dello Spirito, per un linguaggio ugualmente nuovo che sorprende ogni uomo e ogni donna della terra a causa della sua familiarità.

Il pensiero va naturalmente a Maria di Nazaret, a colei che crede alla misura impossibile di Dio e si fida della parola donata alla sua vita. Lei, beata, perché "ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore", offre al suo Creatore uno spazio di immagine e somiglianza finalmente autentico: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,37-38.45).

Anche qui il panorama è vastissimo, dalla donna sirofenicia che sfida Gesù sulle briciole: "… anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli" (Mc 7,28), a Evodia e Sintiche che tanto hanno collaborato e "hanno combattuto per il vangelo" con Paolo; ora molto semplicemente accettano l’altra grande sfida della fede: "andare d’accordo nel Signore" (Fil 4,2-3).

Così il percorso di liberazione si realizza in una storia di incontri segnata da vizi e virtù. A volte da vizi di forma e virtù di sostanza: tra un Pietro che si ritiene all’altezza di Gesù al punto di non voler farsi lavare i piedi, e Gesù che ritiene gesto grande quello di "una donna peccatrice di quella città, che con un vasetto di olio profumato si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato". Un modo nuovo di stare di fronte, immagine di un’umanità finalmente perdonata, salvata, nella pace (cf Lc 7,37ss).

Gianni Trabacchin
Seminario Teologico
Borgo Santa Lucia, 43 – 36100 Vicenza
 

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