n. 10 ottobre 2007

 

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La vita: tra realtà e ideale
Riflessioni sulla vita consacrata femminile

di Umberto Fontana

 

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Spesso si crede che la consacrazione (o anche la vita matrimoniale), una volta impostata, debba rimanere immutabile e durare per tutti gli anni di vita; si crede che non abbia più momenti di ripensamento o momenti di trasformazione. Nulla è più falso.

Se lo stato di vita non cresce con il crescere della persona si generano fenomeni spirituali che non solo disturbano l’identità, ma intaccano le relazioni e «corrompono» le motivazioni. Questi fenomeni più o meno tutti sperimentiamo - anche più volte - nel corso della nostra esistenza, molto spesso vengono misconosciuti, quasi mai vengono valutati alla luce della storia della crescita personale e non vengono nel modo più assoluto collegati tra di loro nel continuum della vita personale.

Le comunità «frenano» spesso la crescita personale

Al femminile ciò si rileva più di frequente, rispetto al mondo della consacrazione maschile, per alcune ragioni: perché le comunità femminili sono più chiuse al mondo esterno - nonostante i telefoni e le televisioni -; il lavoro femminile è molto meno vario e la routine dei lavori di casa è assai più impegnativa; la convivenza tutta al femminile risulta assai più controllata, e perfino le obbedienze (date e accolte) sono molto meno discusse, meno elastiche e meno aderenti alle disposizioni delle interessate, per nulla comprensive della creatività che ogni donna possiede.

 Anche la struttura spirituale della donna comporta sempre una modalità di relazioni oggettuali peculiari, tutte rivolte a creare relazioni, ad interessarsi di problemi umani, ad avere un desiderio di partecipazione personale che ha un’importanza rilevante per la crescita al femminile, e che non si dovrebbe mai stoppare per non «sradicare» la donna dal suo specifico interesse verso la «maternità». Il pericolo che la donna s’identifichi con la parte oscura del suo essere, quella che da Jung in poi viene chiamata animus, è un pericolo reale, che include molto spesso sindromi di durezza, difensività, distacco, desiderio di potere, prevaricazione sopra altre più fragili, identificazione con un atteggiamento che possiamo considerare «maschile» che fa soffrire la donna proprio mentre la distacca e la rende spinosa.1

Non voglio dire che questa sia la strada sulla quale camminano tutte le donne consacrate (che per professione non hanno figli e marito), ma che è un pericolo per tutte le donne se non si tengono a contatto con la loro parte femminile, che spesso presenta in prima istanza i bisogni interiori di divenire se stessa, rimanere se stessa, e crescere fino a maturazione. Nei diversi momenti della vita questa modalità di sentirsi e percepirsi cambia e qualche volta diventa «drammatica».

Chi lavora come me da anni con il … rovescio della medaglia sia del maschile che del femminile (cioè con la parte inconscia che gestisce le motivazioni e i comportamenti difensivi) ne è fortemente convinto. Spesso quello che all’esterno appare non corrisponde a quello che dentro è immagazzinato, ma spesso è una cornice di apparenza collegata alla formazione ricevuta («io sono come gli altri mi hanno voluto, ma non sono io quella che voi vedete!...»).

Nelle varie età si percepisce la vita in modo diverso

Troppe persone consacrate credono che il punto d’arrivo della loro crescita spirituale sia quello di dover piacere ai loro superiori, e, di conseguenza, fanno sforzi inutili per non avere più contenuti personali (tanto meno affettivi, sessuali e di progettazione di sé...). Ciò però non è possibile e questi loro sforzi sono destinati a fallire. Purtroppo la struttura in cui le persone consacrate vivono e lavorano non tiene conto del settore «privato» nel quale ogni persona è fortemente radicata e dello «spazio personale» in cui soltanto si può crescere e portare a compimento la propria personalità, nonostante l’età cronologica.

Il grande psicologo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) in un saggio poco conosciuto intitolato Gli stadi della vita2 afferma che ogni persona ha un programma interiore da eseguire. Lo imposta in gioventù (al mattino), lo porta aventi nell’età adulta (il pomeriggio) e lo perfeziona in vecchiaia (la sera). Se non esegue il proprio programma la persona non è contenta. Riporto da questo saggio un paio di citazioni che mi sembrano significative:

«Il conflitto tra le premesse soggettive e le condizioni esterne non sempre rappresenta l’unica causa dei problemi; questi provengono forse altrettanto spesso da difficoltà psichiche intime, esistenti anche quando all’esterno tutto va bene. Molto spesso è il turbamento dell’equilibrio psichico causato dalla sessualità, e forse altrettanto sovente, dal senso d’inferiorità a provocare un’insopportabile sensibilità. Tali conflitti interiori possono esistere anche quando l’adattamento esterno sembra compiersi senza difficoltà…(…).

Quando si tenta di estrarre dalla molteplicità quasi inesauribile dei problemi della gioventù ciò che vi è di comune e di essenziale, si trova una caratteristica che sembra essere comune a tutti i problemi di questo stadio (la giovinezza): è un attaccamento più o meno netto al grado di coscienza proprio dell’infanzia, è una resistenza alle potenze del destino in noi e intorno a noi, potenze che vogliono trascinarci nel mondo. Qualcosa di noi vorrebbe restare infantile, del tutto inconscio, o almeno vorrebbe non essere conscio che del suo Io, respingere tutto quanto è estraneo ad esso o per lo meno sottometterlo alla propria volontà; vorrebbero non fare alcunché o almeno poter realizzare il proprio desiderio o la propria potenza…La resistenza insorge contro l’espansione della vita, che è il carattere essenziale di questa fase…».3

Le difficoltà della vita non disturbano esageratamente, di solito, il programma in via d’esecuzione nei vari momenti cronologici, perché le motivazioni personali vere si modificano a mano a mano che le necessità le obbligano a cambiare.

«Il problema viene risolto adattando le condizioni del passato alle possibilità e alle esigenze dell’avvenire. Ci si limita a ciò che può essere raggiunto; psicologicamente è una rinuncia a tutte le altre possibilità psichiche. Vi sono di quelli che perdono in tal modo una parte preziosa del passato, e c’è chi perde invece una parte preziosa dell’avvenire […]. I grandi problemi della vita non sono mai risolti definitivamente. Se essi a volte lo sembrano, è sempre a nostro danno. Si direbbe che il loro significato e il loro scopo non siano nella soluzione, ma nell’attività che infaticabilmente noi spendiamo a risolverli […]. Più si avvicina il mezzogiorno della vita, più si riesce a consolidarsi nel proprio orientamento personale e nella propria situazione sociale e più sembra di aver scoperto il corso normale della vita, gli ideali e i principi della condotta. Perciò si presuppone il loro valore eterno e si considera virtù il restarvi sempre attaccati. Si dimentica però una cosa essenziale: cioè che non si raggiunge lo scopo sociale, se non a scapito dell’intera personalità. Molta, troppa vita che avrebbe anche potuto essere vissuta è restata forse nel ripostiglio dei ricordi polverosi; spesso sono carboni ardenti sotto la cenere grigia… Le statistiche dimostrano che le depressioni aumentano molto negli uomini attorno alla quarantina. Nelle donne i turbamenti psicologici nevrotici cominciano prima…».4

I grandi problemi della vita, secondo la formulazione junghiana che non possono mai essere risolti una volta per tutte in maniera definitiva, sono i problemi che hanno tutte le persone, i problemi della propria esistenza, legati alla salute, alla crescita, alla culturizzazione (gli studi mai finiti!), alla partecipazione personale ad un progetto accettato, alla valorizzazione di sé, ma soprattutto alle relazioni che fanno crescere e sentire «bene» la persona. Su questa linea si può rimanere felici anche dopo il «mezzogiorno» della vita, nel pomeriggio, e anche nella tarda sera della vecchiaia, se la persona ha fatto il passaggio necessario.

«L’uomo non raggiungerebbe di certo i settanta o gli ottanta anni, se questa durata della vita non corrispondesse al senso della sua specie. Così il pomeriggio della vita deve parimenti avere il suo significato e il suo scopo, ma non può essere una misera appendice del mattino… Colui che trascina così oltre la prima metà della vita, nel pomeriggio, e per conseguenza oltre il suo scopo naturale [sistemare se stesso, fare figli e allevarli…], la legge del mattino, ne subirà danni psichici, esattamente come il giovane, che vuol conservare nell’età adulta il suo egoismo infantile, paga l’errore con insuccessi sociali. […]. Per questo tutte le grandi religioni hanno le loro promesse dell’aldilà, pongono uno scopo ultraterreno da raggiungere, permettendo così ai mortali di tendere verso una meta nella seconda metà della vita, come nella prima. […]. Ho osservato (come medico) che una vita orientata verso uno scopo e, in genere, migliore, più ricca, più seria di una vita senza scopo, e ho pure osservato che è preferibile avanzare seguendo il cammino del tempo, anziché volerne risalire il corso. Per lo psichiatra il vecchio che non vuol rinunciare alla vita è altrettanto debole e malato quanto il giovane incapace di evolversi».5

Jung scriveva queste riflessioni sulla vita che scorre per un pubblico di specialisti interessati alla salute mentale della gente, imbevuti di pregiudizi antireligiosi e di materialismo riduzionista, non per persone che avevano fatto della religione una piattaforma sulla quale si sarebbero potute creare solide motivazioni soprannaturali.

Il problema era molto sentito nel mondo scientifico perché qualche anno dopo anche il grande teologo-filosofo italo tedesco Romano Guardini (1885-1968) affrontava lo stesso tema nell’ottica cristiana, e pubblicava un libricino poco conosciuto, scaturito da una serie di conversazioni tenute alla radio bavarese in quegli anni.6 L’intento del libro è indubbiamente pedagogico, rivolto a tutti coloro che raggiungono una certa età e si pongono il problema della vita. Sono riflessioni filosofiche che prescindono dalla psicologia accademica ma che raggiungono la stessa profondità delle osservazioni di Jung.

Riporto anche di questo un paio di citazioni molto belle:

«Queste fasi [le fasi della vita] sono vere e proprie forme di vita che non si possono dedurre l’una dall’altra […]. Ogni fase ha il proprio carattere, che si può accentuare talmente da rendere difficile, a chi la vive, il passaggio alla fase successiva. Queste difficoltà possono anche cristallizzarsi. In tal caso si resta in una fase, quando la si sarebbe già dovuta esaurire per viverne una nuova; pensiamo per esempio all’uomo infantile, che per la sua età dovrebbe essere adulto, ma mantiene ancora l’atteggiamento affettivo e il carattere del bambino […]. Le forme di vita, inoltre, costituiscono figure di valore… [dove] emergono determinati valori che, contrassegnati da note dominanti, costituiscono gruppi caratteristici. Esse segnano le possibilità e i compiti morali di una determinata fase della vita.

In tutte queste fasi è sempre lo stesso uomo che vive. E non è lo stesso individuo biologico, come capita con un animale, ma è la stessa persona che ha cognizione di sé ed è responsabile di quella determinata fase della vita […]. È chiaro come qui emerga la dialettica delle fasi e della totalità della vita. Ogni fase è qualche cosa di peculiare, che non si lascia dedurre né da quella precedente, né da quella successiva. D’altra parte, tuttavia, ogni fase è inserita nella totalità e ottiene il proprio senso soltanto se gli effetti si ripercuotono realmente nella totalità della vita.7

[…] Queste fasi costituiscono insieme la totalità della vita, ma non nel senso che la vita si compone di queste; la vita è sempre presente: all’inizio, alla fine e in ogni momento. Essa fonda ciascuna fase, fa sì che quest’ultima possa essere ciò che è. Inversamente, ogni fase esiste in funzione della totalità e di ciascun’altra fase; danneggiando una fase si danneggia la totalità e ogni singola parte [...]. Per altro, ogni fase costituisce una forma definitiva, ha un proprio senso e non può essere sostituita da nessuna altra.»8

Le osservazioni di entrambi gli autori valgono per tutte le categorie di persone, anche per le persone consacrate, perché lo schema che sottostà è il divenire umano, dal quale nessuno può prescindere (neppure la persona consacrata).

È necessario che in ogni momento la persona si mantenga nella condizione di poter «ascoltare» la vita che le appartiene, che le risuona dentro come un dono ricevuto. Solo così si possono sentire le mete finora raggiunte (anche se solo vagheggiate o visualizzate in maniera prospettica) come una conquista personale. Non ci si deve fare «andar bene ad ogni costo» una situazione che non si sente più adatta a sé e che non si sopporta.

Confidare sulla «chiamata»

Di estrema importanza è dunque il punto di partenza: nella vita consacrata la partenza viene denominata con parola biblica «chiamata». Nel matrimonio, con parola umana (spesso abusata) viene detto «innamoramento» o «matrimonio di amore». Nella persona di vita consacrata il programma d’inizio dovrebbe essere sempre legato a una «chiamata» (qualche volta anche alla dinamica di «conversione») che ha escluso altre possibilità di entrare nella vita con ruoli diversi, e ha messo le basi del progetto di «ascetica personale». Queste condizioni iniziali non devono mai venir dimenticate, o a lungo trascurate, ma devono rimanere in ogni momento la piattaforma sulla quale si possono confrontare gioie, difficoltà contingenti e disagi relazionali.

Mantenersi nelle condizioni motivazionali della linea di partenza è un trucco che funziona sempre, che permette di attingere alla motivazione fondamentale sulla quale è stata impostata la vita, la motivazione «vera». Solo motivazioni «vere» permettono la perseveranza, la partecipazione attiva, lo sforzo di tenere sotto controllo gli impulsi disordinati ecc.; permettono, in altre parole, di spendere la vita per gli altri e di donare le proprie energie a un progetto comune. Nella donna consacrata le motivazioni di perseveranza sono analoghe a quelle della donna sposata e madre, che gestisce lavoro e famiglia.

La donna reale,  sintesi di una storia evolutiva e di relazione

La persona che giunge alla consacrazione (o anche al matrimonio) negli anni giovani è punto di sintesi di tutta una crescita che, di solito, avviene attorno a due figure molto importanti che si ricorderanno poi tutta la vita: i genitori. Nascita, crescita degli anni infantili, prima scolarizzazione e prime relazioni vanno sempre inquadrate nel quadro di questa crescita, che inizia e porta avanti lo sviluppo della persona, la così detta personalità.9

La persona che batte alla porta di un istituto religioso… arriva con una propria storia, e al momento in cui chiede di entrare ha già alle spalle una serie di esperienze di vita collegate a questa storia. Porta con sé esperienze svariate, che hanno contribuito a strutturare in un certo modo la sua persona. Queste esperienze sono tenute insieme da uno schema corporeo (maschile o femminile) e da uno schema spirituale, che insieme definiscono e presentano la personalità […]. Ogni persona ha dunque i propri tempi di crescita perché i ritmi biologici e le funzioni espressive sono collegati, fin dall’inizio dell’esistenza, alla modalità di appagamento dei bisogni che ogni individuo ha sperimentato nelle relazioni con le figure materna e paterna. La gratificazione che l’individuo ne ha riportato regola, per così dire, il ritmo della crescita…10

In altre parole: le persone non sono tutte uguali perché non hanno avuto tutte le stesse modalità gratificanti nei primi anni di vita. La gestione dei problemi che s’incontrano nel corso della propria esistenza ha a che fare con queste modalità «arcaiche», per questo qualcuna reagisce senza ansietà alle circostanze della vita, qualche altra si scompone nelle stesse circostanze e non riesce a farvi fronte.

La donna consacrata può certo contare sempre sulle proprie motivazioni di consacrazione (se agli inizi c’è stata una «chiamata»), ma deve anche fare i conti con la propria «storia personale», della quale purtroppo le superiore e le consorelle non sanno quasi nulla. Anzi nelle comunità religiose (specialmente in quelle femminili) quasi sempre le consorelle «presumono» che tutte, dal momento che hanno emesso i voti perpetui, devono aver risolto i propri conflitti interiori in maniera standard e che non siano più sottoposte a cambiamenti interiori: quindi devono fare quello che si «deve» fare, cioè quello che l’obbedienza impone.

La storia personale invece colorisce di una peculiarità individuale ogni attività che s’intraprende: qualche volta questo colorito è una vera e propria «risorsa», ma più spesso è una limitazione considerevole che contrasta con il lavoro e il ruolo «assegnato». Dovremo quindi chiederci: quando il colorito personale può diventare una risorsa che porta a completamento la personalità, offrendo risorse pulite e spendibili in ogni circostanza? E ancora: quando invece è una limitazione che blocca la crescita e disturba il fluire delle energie?

Non lo si può determinare a priori, ma bisogna coglierlo leggendo appunto la storia personale di ognuna. Il criterio diagnostico positivo è l’equilibrio e la gioia che ognuna presenta. Gli atteggiamenti positivi, i quali dicono che la persona sta bene e fa fronte alle difficoltà legate all’età, alla crescita e alle circostanze, sono: capacità lavorativa, capacità di dormire, mangiare, digerire, capacità di riposarsi, buone relazioni, interessi verso l’esterno, aggiornamento professionale, partecipazione alla comunità...

Viceversa sono criterio diagnostico negativo le continue crisi e la tristezza interiore: gli atteggiamenti che vi corrispondono sono i più svariati e ogni comunità li ha sotto gli occhi quotidianamente.11

Costruire sopra motivazioni vere

Forse al profano suona teorica l’affermazione che bisogna costruire sopra motivazioni «vere». Il senso di tale affermazione è quello di non illudersi che si possa rimanere contenti/e e continuare lo sviluppo spirituale se il punto di partenza non è autentico o vero, o se la crescita non va nella direzione del suo completamento. A quale prezzo la persona si adatterebbe ad una serie di relazioni infelici che la costringerebbero ad essere quella che non è, ambigua con se stessa, alla ricerca di un qualche cosa che non si concilia con il proprio stile di vita? Uno sforzo continuo (anche fatto con estrema buona volontà) sopra una motivazione inesistente o spuria logora presto la persona e introduce dinamiche compensative o malattie psicosomatiche.

Gli esempi sono numerosi e dall’esperienza clinica se ne potrebbero scegliere decine e decine.12 Non si può vivere in uno stato di vita consacrata (che comporta il voto di castità, di obbedienza, di povertà) quando si sarebbe voluto vivere una vita «normale», in comunione con un uomo o allevare figli (esempi classici sono la Monaca di Monza di manzoniana memoria, e la Suor Angelica dell’opera pucciniana). Costruire sopra motivazioni inesistenti o spurie significa disturbare tutta la crescita e vivere in modo infelice tutta la vita. La «chiamata» ad una vita consacrata non dovrebbe mai portare, di per sé, all’infelicità: dovrebbe essere sentita come un dono che Dio fa alle persone che ama, e su questo amore - ricevuto e ricambiato – s’innestano le motivazioni che altrove ho chiamato «soprannaturali».13

Costruire sopra motivazioni vere può comportare anche sacrificio e rinuncia, ma fatte per scelta d’amore verso Dio, secondo lo slogan di S. Agostino, diventano anch’esse amore.

La donna ideale suggerita dai modelli formativi

I modelli formativi che in ogni Istituto vengono proposti a chi entra sono veramente modelli «ideali» (o se si vuole «virtuali»), cioè staccati dalla persona concreta. Sono stati elaborati sul carisma dei Fondatori, vengono spiegati in modo radicale e vengono proposti come mete da realizzare con sforzo e costanza. Qualche volta il carisma dei Fondatori corrisponde pienamente agli ideali e alla tolleranza evangelica, ma altre volte è «radicalizzato» dallo sforzo ascetico dei Fondatori stessi, legato troppo alla situazione storica di allora e non adeguato (o non più adeguato) alla società attuale.

La donna o l’uomo ideali vagheggiati dalle Costituzioni non esistono: ogni membro di un Istituto incarna l’ideale in qualche modo, come meglio riesce, e lo realizza nel corso della sua vita secondo le connotazioni della propria personalità, conformate e misurate sulla propria storia, anche se spesso assai modificate dalla generosità di corrispondenza alla grazia di chiamata.

La traduzione dei modelli religiosi per i tempi attuali è comandata dal Vaticano II (Perfectae charitatis 8, 18, 20…) a tutti gli Istituti, ma non sempre è realizzata in modo soddisfacente, perché filtrata dal «magistero» di ogni Superiore legalmente eletto, e forse anche per timore che la persona consacrata - specie se donna - non si adegui più al modello «ideale» dei Fondatori riproposto dalle Costituzioni.

Questo tema tocca il capitolo della formazione ed è oggetto di contrasto e di diffidenze sia da parte dei Superiori che da parte di consorelle (confratelli) anziani che hanno fatto della Regola uno scudo o una trincea da combattimento.

Percorso complicato sempre tra verità di sé e idealità

Ogni persona che raggiunge una certa età in seno ad un Istituto religioso ha fatto indubbiamente su di sé uno sforzo di perseveranza che la comunità come tale riconosce poco. Spesso non riconosce affatto tale sforzo ascetico, perché non lo immagina proprio, o forse perché lo «snobba» considerandolo cosa normale, dovuta… Qualche volta l’atteggiamento della comunità offende la persona e la rattrista perché nelle circostanze esterne vede spegnersi il proprio contributo tra l’indifferenza di chi non l’ha conosciuta, quando era prestante e più giovane. Se non si sente fluire dentro di sé la vita nella sua fase adulta o di tramonto, la persona soffre e si deprime perché non ha «terminato il suo programma»: sente che nel momento della vita in cui si trova non ha adattato se stessa alle motivazioni profonde relazionate alla «chiamata» (come ai tempi della giovinezza: cf Os 2,16-19), sente che avrebbe ancora qualche cosa da fare, da dare o da capire, sente che è scollegato il presente dal passato… Tutto ciò appartiene al mistero della perseveranza e della crescita spirituale.

Concludo con una bella ammonizione del Guardini:

[Una crescita completa] anche secondo una prospettiva sociologica e culturale, dipende dalla comprensione dell’importanza che assume, nel contesto della totalità della vita, l’uomo che invecchia; dal superamento del pericoloso infantilismo per il quale soltanto la vita giovane ha valore per l’uomo; molto dipende ancora dal fatto che l’immagine che ci facciamo dell’esistenza contenga la fase della vecchiaia come elemento di valore e che di conseguenza l’arco della vita diventi completo, senza invece limitarsi ad un frammento e considerare il resto come cascame. Egli allora resta in vita biologicamente e diventa un peso sia per sé, sia per chi gli è attorno. Ne consegue però che la comunità deve da parte sua dare a chi diventa vecchio la possibilità di invecchiare nel modo giusto, perché questo solo in parte dipende da lui…14

Note

1.       Questa problematica è stata abbastanza studiata nell’approccio psicoterapeutico junghiano. Rimando per una conoscenza alla monografia della moglie dello stesso Jung: E. Jung, Animus e anima, Boringhieri, Torino 1992. Cf ancora: M. Valcareggi, L’aggressività femminile, Mondatori, Milano 2003.

2.       C. G. Jung, «Gli stadi della vita» (op. orig. 1930), in Opere complete, Boringhieri, Torino 1976, VIII, 410-432.

3.       Idem, 421-422.

4.       Idem, 423-424.

5.       Idem, 428-430.

6.       R. Guardini, Le età della vita (orig. 1957), Vita e pensiero, Milano 2004.

7.       Idem, 33-34.36.

8.       Idem, 82.

9.       Ho sviluppato questi concetti in modo più completo di recente in un volume che tratta un poco di tutti i problemi che una persona consacrata (e non) può incontrare nella vita. Rimando per tanto al mio: U. Fontana, Senza perdersi, professionalità nelle relazioni pastorali, Messaggero, Padova 2005.

10.   Idem, 1457-158.

11.   Qualche anno fa ho sviluppato questo tema in un fortunato libro (ora purtroppo esaurito): U. Fontana, «Dinamiche di crisi nella vita consacrata: criteri per impostare una psicoterapia corretta», in Pina Del Core (a cura di), Difficoltà e crisi nella vita consacrata, Elledici, Torino 1996.

12.   Ciò avviene quando nella vita consacrata si entra per entusiasmo, per frustrazione, per obbligo, perché spinti da formatori che «garantiscono» loro della chiamata, per far contenti genitori e per ripicca ecc. La casistica che ho osservato al consultorio delle crisi con i religiosi/e è copiosissima. Qualche cosa ho detto nel libro citato sopra: Difficoltà e crisi nella vita consacrata (83-90 e 147-165).

13.   Rimando alla monografia che ho scritto in occasione del centenario della morte di Don Bosco (e anche del mio cinquantesimo compleanno): U. Fontana, Uomo e consacrato, Elleici, Torino 1988.

14.       R. Guardini, Le età della vita, 106

Umberto Fontana
Istituto Salesiano S. Zeno
Via D. Minzoni, 50 – 37138 Verona

 

 

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