n. 11 novembre 2007

 

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«Sorse un malcontento...»
I conflitti comunitari nella Sacra Scrittura

di Bruno Secondin

 

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La Sacra Scrittura è ricca di storie di conflitti, di contrasti aspri, di divisioni. Gli esempi potrebbero essere infiniti: a cominciare dalla «paura» di Adamo dopo la disobbedienza nel Paradiso terrestre (Gen 3,10), con la conseguente «inimicizia» tra la stirpe di Eva e la stirpe del serpente (Gen 3,15 ), e passando per la invidia rabbiosa di Caino di fronte al fratello Abele (Gen 4,1-8). E poi via via scorrendo la storia sacra si può dire che quasi non v’è pagina che non mostri la fatica di andare d’accordo, il moltiplicarsi di riconciliazioni e di rotture, di alleanze e di tradimenti, di banchetti di pace e di violenze barbare.

Spunti frammentati dalla Bibbia

Episodi singoli ce ne sono senza numero, ma nella Bibbia troviamo anche esperienze collettive più ad ampia prospettiva. Il diluvio universale non è forse il frutto di un conflitto fra progetti di Dio e perversione umana, che non diviene più sanabile se non con una purificazione realizzata in maniera traumatica (cf Gen 6,5-7)? Eppure già dopo il diluvio, nella stessa cerchia familiare di Noè riappaiono i conflitti tra i suoi stessi figli, davanti al padre ubriaco (Gen 9,18-25). E anche Abramo dovrà ricomporre la pace nella sua parentela, separandosi da Lot, per non far incancrenire le tensioni claniche (Gen 13,7-9). E la rottura traumatica fra Esaù e Giacobbe rappresenta una tragedia che costa cara ad entrambi e vede la madre addirittura fautrice della divisione, più che riconciliatrice (Gen 27,1-44)). Ma anche il grande Mosè ha ben da fare per tenere a bada una turma di schiavi che non sanno liberarsi dalle proprie abitudini rissose e non riescono a ripensare in modo creativo l’appartenenza ad una storia unica con Dio.

Per saltare all’attività dei profeti, essi spesso si trovano in mezzo a conflitti per dirimere tensioni e odi, ma anche per far guardare più avanti, verso orizzonti meno tribali, e riconoscere davanti a Dio una continua rottura, da parte del popolo, delle esigenze dell’Alleanza. Samuele si trova a gestire gli inizi della forma monarchica di governo, con la scelta prima di Saul e poi di Davide, ma talora si impiccia un po’ troppo nella politica, rendendosi la vita difficile e creando qualche problema anche ai re. Natan rassicura Davide sui favori di Dio per il futuro della sua discendenza (2Sam 7,1-17), ma non sa riconoscere nel progetto della costruzione di un luogo centrale di culto, anche una manovra politico-religiosa per tenere unite le tribù mediante un simbolo centrale di forte suggestione religiosa.

Elia ha un bel gridare contro l’idolatria del Regno del Nord, dove la regina Gezabele manipola il debole Acab e lo porta a compiere atti violenti e ingiusti, che il Signore punisce nelle generazioni future. E nonostante tante battaglie furibonde neppure Elia riesce di fatto a mettere insieme il popolo sotto l’unica alleanza di Jhwh. Il primo Isaia getta allarmi da tutte le parti contro lo sfacelo della situazione socio-religiosa del regno del Nord, come del resto più tardi faranno un grappolo di profeti alla vigilia della deportazione della popolazione del regno del Sud, ma le tragedie e le divisioni sembrano andare avanti in maniera inarrestabile.

Eppure nel contesto dell’esilio e nell’immediato post-esilio, sono proprio i profeti che riescono a tenere desta la coscienza collettiva di avere un destino che supera ogni catastrofe (cf Is 40-55) e chiedono una rinascita radicale di fiducia e solidarietà reciproca. Il lavoro di animazione e di consolazione di Esdra e di Neemia, ma anche del terzo Isaia, di Aggeo, Zaccaria e altri profeti, tengono a malapena uniti gli animi, in un contesto socio-politico di frantumazione e rimescolamento delle attese e delle memorie.

Possiamo leggere la storia della prima alleanza proprio come una continua ricucitura di legami che sembrano non trovare una forma di stabilità. Conflitti su conflitti si sommano e incancreniscono il vivere solidale e il senso di identità. È come se tutto venisse sistematicamente messo in discussione, provocato a tensione disgregatrice, ricucito a malapena. Alla vigilia dell’avvento del Salvatore promesso, la popolazione erede delle promesse e dell’alleanza è quanto mai frantumata nel territorio e nella disgregazione sociale, con una molteplicità di forme di emarginazione sociale e religiosa che colpisce varie categorie di persone, e con delle forme associative spontanee spesso rissose e aggressive.

Alla luce di questo si può capire l’intensa attività di Gesù nel rompere le barriere legali, religiose, culturali, nel dissacrare i tabù religiosi elevati a precetti divini, nel continuo mettere in gioco come esempio e come protagonisti proprio le vittime della discriminazione, per creare una società meno aggressiva e più integratrice. I suoi miracoli, come il suo insegnamento verbale, i suoi gesti come le sue frequentazioni, sono spesso segnali forti per una rottura instauratrice di nuove relazioni, per una riconciliazione dinamica, una vera e intensa shalom.

Ma anche con i suoi stessi discepoli, Gesù deve spesso operare per una ricucitura dei conflitti che sorgono fra di loro, oppure con lui stesso. È il caso per esempio della discussione sui primi posti nel Regno (Mc 10,35-45), che i due fratelli boanerges vorrebbero riservarsi a scapito degli altri, i quali «si sdegnarono con Giacomo e Giovanni». Ma è anche il caso ancor più complesso della ricostruzione del gruppo e della riconciliazione fra il Maestro e i discepoli dopo la disgregazione della passione. Quei quaranta giorni (almeno secondo Luca) che Gesù dedica loro con dialoghi e apparizioni, sono segno di una guarigione dalle paure, dalle angosce e dai conflitti reciproci. E forse non erano del tutto guariti quando Gesù salì al cielo, ma a loro lasciò lo stesso in eredità la propria missione, senza pretendere garanzie eccessive.

Un esempio dalla Chiesa primitiva

Vorrei portare un esempio di gestione intelligente e ben riuscita dei conflitti, come ci è presentato in un episodio molto noto della Chiesa primitiva: la scelta dei primi sette diaconi (At 6,1-7). Il testo parla esplicitamente di una mormorazione (gonghysmòs), cioè un malcontento che avvelena i rapporti nella comunità. Il fatto concreto, almeno secondo il testo, consiste nella disparità di attenzione alle esigenze delle vedove degli ellenisti, rispetto a quelle degli ebrei. E ciò irritava gli ellenisti: ma probabilmente questa era solo la punta di iceberg, di una sensibilità che riguardava molti altri aspetti, qui da Luca sottaciuti.

Luca vuole mostrare l’emergere del protagonismo degli «ellenisti», cui lui stesso apparteneva, come un’evoluzione pacifica e senza grossi traumi. In realtà la transizione non doveva essere del tutto idilliaca, come vari segnali qua e là sparsi nel testo degli Atti e nelle lettere paoline ce lo mostrano. Di fatto gli ellenisti si sentivano a disagio anche per la chiusura culturale del gruppo dei Dodici, così legati alle tradizioni ebraiche e alla lingua ebraico/aramaica che si usava nelle sinagoghe, anche se di fatto gli ellenisti avevano pure delle loro assemblee nella loro lingua, ma erano ininfluenti sul complesso. Eppure delle personalità stavano per emergere, di grande qualità fra gli ellenisti, e il malcontento ha offerto l’occasione per venire alla luce da protagonisti.

Torniamo al nostro testo. Intanto Luca aveva già accennato ad altri momenti meno sereni in comunità, come lo scandalo di Anania e Saffira che avevano trattenuto parte del ricavato dalla vendita di un podere (At 5,2), ma c’era anche il disagio provocato dagli arresti di Pietro e Giovanni, che impedivano una gestione serena e ordinata. E poi la crescita tumultuosa e disordinata dei credenti aveva bisogno di una supervisione che non si poteva improvvisare. Questo «malcontento» però appare agli occhi dei Dodici come una opportunità per chiarire meglio anzitutto le proprie responsabilità e il proprio ruolo. E per prima cosa hanno riconosciuto che c’era un fondamento di verità oggettiva, anzi che una parte della colpa apparteneva a loro: «Non è giusto che trascuriamo…».

Una autocritica che lascia di stucco, e che ben difficilmente si sente echeggiare nelle nostre assemblee ecclesiali. Non danno la caccia a chi ha sempre da criticare, ma sinceramente trovano difetti nel proprio agire e confessano anche le proprie colpe e confusioni. E da qui parte un processo di migliore comprensione della propria identità, ma come conseguenza di una nuova responsabilità altrui.

Danno la precedenza al nuovo protagonismo: «cercate, fratelli, tra voi sette uomini… Noi invece ci dedicheremo…». Non si aggrappano ad una porzione di autorità e concedono ad altri una briciola, ma senza perdere troppo. La nuova responsabilità è detta con tutta chiarezza e stima: «ai quali affideremo questo incarico», e poi viene affermato il proprio ruolo, come un compito non «diminuito», ma meglio focalizzato e gestibile: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola».

Non si tratta di scaricare su altri i propri doveri, ma di riconoscere che c’è spazio e responsabilità per tutti; bisogna avere il coraggio di condividere e di chiamare a corresponsabilità. E l’assemblea allora non si è sentita accusata di fare le «solite critiche», di lasciarsi influenzare dai soli «scontenti», ma anzi incoraggiata a mettersi alla ricerca dei veri leaders per quel nuovo compito, da compiersi con saggezza, senso di fede e di onestà.

All’onestà dei dodici risponde l’assemblea con altrettanta onestà, ma anche con coraggio: i sette nomi sono tutti «greci», ad indicare che di fatto la minoranza viene ad assumere un ruolo nuovo, non puramente complementare. E di fatto questi saranno uomini che non si limitano al servizio delle mense, ma Stefano sarà un predicatore di forte personalità e il primo martire della giovane comunità. Mentre Filippo sarà il primo missionario itinerante, che porterà la buona novella in Samaria e poi anche verso le terre lontane, con il battesimo del funzionario etiope sulla strada di Gaza.

Per imparare qualche cosa di utile

Vorrei indicare da questo episodio alcuni criteri utili per i nostri conflitti, in un mondo che cambia e rimescola culture e urgenze.

Anzitutto saper intuire che dietro certe «mormorazioni» ci possono essere delle motivazioni molto serie e gravi, come appunto lo sono le differenze culturali. Sembrava un pretesto un po’ fanatico e puntiglioso, era invece un malessere più ampio e profondo, che esigeva un esame serio e coraggioso, in cui i primi ad essere chiamati a verità erano proprio i capi, i quali invece presumevano di fare tutto da soli e a loro modo. Mettere a fuoco le motivazioni implicite di certi malcontenti aiuta a prendere soluzioni adeguate e corrette. Purtroppo spesso invece si vedono reazioni difensive e ottuse, rifiuti di mettersi in discussione, bilanci senza il minimo senso di autocritica onesta.

In secondo luogo la gestione del conflitto è fatta con creatività: superando la paura di perdere autorevolezza e controllo, hanno riconosciuto che era anche per loro l’occasione di comprendere meglio la propria funzione e identità. E poi che una concentrazione sul proprio ruolo specifico rendeva più credibile ed efficace la guida, senza la presunzione di avere le qualità per tutto e per tutti. Ma allo stesso tempo, proprio grazie alla propria esperienza, potevano dare dei criteri per una selezione dei collaboratori che rispondesse alle vere esigenze di quel servizio, che, pure se male, avevano svolto con serietà. Le tre indicazioni sulle qualità di questi «servitori» indicano dei profili dove non entrano interessi di conservazione e di controllo: e l’assemblea ha risposto con coraggio e piena autonomia. E i Dodici hanno accettato le scelte con fiducia e piena solidarietà, imponendo le mani sui nuovi corresponsabili.

Le nuove esigenze spingevano ad avere il coraggio di inventare nuovi ruoli, nuovi stili, nuovi servizi stabili e autonomi. E senza che per questo ai nuovi «scelti» fosse imposto di stare a quel ruolo specifico e non ficcassero il naso altrove. Anzi - come si vede dalla vicenda di Stefano e di Filippo - questi «diaconi», specializzati per le mense, si sentono allo stesso tempo corresponsabili per tutte le esigenze della buona novella, e nessuno li rimprovera di uscire dal recinto loro assegnato. Da parte dei diaconi e da parte dei Dodici c’è chiara coscienza che il compito «generale» della Chiesa è impegno di tutti e non monopolio di un gruppetto o di una élite di specialisti.

Conclusione

Abbiamo fatto solo degli accenni veloci sulla vasta miniera biblica e visto un po’ più da vicino l’episodio del malcontento nella Chiesa primitiva che porta alla scelta dei sette diaconi. Possiamo comunque concludere con alcune indicazioni più generali.

I conflitti non sono una malattia, molto spesso sono una situazione fisiologica di crescita, di adattamento, di evoluzione e vanno quindi gestiti e non semplicemente soppressi o demonizzati. Ci vuole saggezza, intuizione, diciamo di più, ci vuole il «discernimento» per interpretare e gestire bene, in modo che ne vengano dei progressi, e non delle involuzioni o delle cancrene.

Non temere di mediare quando si tratta di esigenze che sembrano contrapporsi: la mediazione può essere compromesso indecoroso e frutto di ignavia, ma può anche essere segno della capacità di distinguere essenziale e secondario, urgenze e tendenze, responsabilità e corresponsabilità. La mediazione non deve però piombare dall’alto come «chiusura» d’autorità del problema e del malcontento, ma deve essere frutto di sapienza e ricerca, apertura mentale e accettazione della provvisorietà, nella fiducia reciproca.

Lasciare infine aperti gli spazi per ulteriori evoluzioni: ogni conflitto risolto non toglie di mezzo futuri altri contrasti, bisogno di ripensamenti e di equilibri nuovi, sofferenze e fatiche. Proprio gli Atti degli Apostoli mostrano questo con evidenza inconfutabile. Quella prima mediazione dovrà ripetersi in altre circostanze e con coraggio ancora maggiore, come mostra il Concilio di Gerusalemme. E come dimostrano, in ogni epoca della storia della Chiesa, le ricorrenti tensioni fra centro e periferie, fra culture e sensibilità, fra linguaggi e istituzioni.

L’avventura antropologica e culturale della Chiesa primitiva - ma anche di tutt’intera la vicenda biblica, nelle sue molteplici stagioni - dimostra che l’insorgenza dei conflitti è una terapia sana per situazioni che a volte rischiano di perdere vigore e creatività. E che la loro soluzione va gestita di volta in volta e non imposta né improvvisata, e tanto meno ricopiata pedissequamente dal passato.

Bruno Secondin
Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

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