n. 12 dicembre 2007

 

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Silenzio e preghiera nella Bibbia

di Antonietta Augruso

 

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Quando mi assale la malinconia e niente riesce a sottrarmi ad essa, quando sono sola e tagliata fuori dal resto del mondo, separata, so cosa debbo fare. Apro un libro di poesia o un libro sacro e parto alla ricerca della frase che darà alle mie gambe il formicolio di uno strano rapimento».1

Per alcuni aspetti l’esperienza del silenzio e della preghiera nella Bibbia, l’incontro tra silenzio e parole umane, silenzio e Parola divina, sono narrati come una realtà a volte di sofferenza rigenerante, a volte di maturazione dello stupore, sempre necessari in ogni crescita autenticamente umana. La Parola di Dio non può essere funzionale agli stati d’animo di ogni singolo uomo, però sa mettere in luce, in quanto storia di alleanza e d’incontro, di lotta e attesa, il senso di molte vicende grigie o insignificanti.

Un tema complesso

C’è tanta paura della pausa, del silenzio: perchè? Non è difficile accorgersi che molti di noi soffrono di horror vacui, quell’incredibile malessere che assale, quando tutto tace e si è quasi spinti a guardare in faccia alle cose finite e a quelle che appaiono infinite.

La stampa, i media, il modus vivendi comune, non aiutano a dare un senso a dimensioni dimenticate. I padri chiamavano statio una forma di quiete: il desiderio di non preoccuparsi troppo delle cose, per prepararsi alla preghiera.

Perché tanta enfatizzazione dei media sui silenzi di viltà, di omertà e di divisione e così poco spazio a quel silenzio che è luce capace di generare parole trasparenti e luminose? Perché in molte celebrazioni ecclesiali si fa tanto rumore, come se si potesse pregare solo parlando o suggerendo a Dio, così come agli idoli? Cosa fare e in che direzione andare?

L’orante in alcuni testi biblici intuisce la speranza, che sta lì dove si attende l’aurora e si accolgono nuovi segnali (Sal 63). Sappiamo che nel leggere e meditare la Parola ognuno interpreta anche la propria storia, con emozioni e linguaggio personale.

Nel parlare della preghiera e del silenzio nella Bibbia, inoltre, bisogna vigilare sulla tentazione di cercare definizioni teoriche, perché non è tipico della mentalità semitica formulare teorie. Esiste poi una sorta di discrezione dell’animo quando dobbiamo occuparci di questi temi: avvertiamo un disagio interiore che ci rende consapevoli della particolarità dell’argomento. Il cardinale Martini afferma: «… mi pare che la preghiera sia una realtà di cui non si possa parlare».2

Aspettare in silenzio

Nella Sacra Scrittura la preghiera è presente come esperienza di relazione. Quando preghiamo non siamo soli: c’è un Tu al quale volgiamo lo sguardo e porgiamo l’orecchio. Ci sono poi, tutto il cosmo e la sua storia: i dolori e le gioie di un popolo in cammino. E, come in ogni relazione, nella preghiera biblica il silenzio è ascolto, attesa, stupore.

Bisogna ritrarsi sempre un po’ quando si prova ad ascoltare, occorre aprire uno spazio, in qualche forma fare esperienza del dono. Per l’uomo non sempre ciò significa gioia immediata. È significativo che la mistica ebraica parli della Simsun, il ritiro di Dio dalla creazione, perché possa dispiegarsi liberamente il mondo ed esprimersi. «Il silenzio nella Bibbia acquista un valore positivo e umanizzante soltanto quando, quale moto interiore che scaturisce di fronte all’ignoto, predispone a cogliere il mistero dell’alterità, quando favorisce la comunione, quando è espressione dell’apertura dell’accoglienza dell’altro e soprattutto dell’Altro».3

Come nella vita, così nella Bibbia, ci sono silenzi e preghiere non assimilabili tra loro. C’è il silenzio dell’incomunicabilità e della divisione che genera l’odio (Gen 37,4), c’è il silenzio del dolore e del pianto collettivo (Lam 2,10). Mentre nel primo l’uomo tace perché è prigioniero di se stesso, nel secondo l’uomo tace perché tacendo prega: invoca il perdono e la vita. Il silenzio orante in alcuni testi biblici esprime il desiderio di «affidarsi» anche in situazioni drammatiche dal punto di vista umano, nelle quali l’esistenza sembra svuotata di senso, colpita dalla tragedia, ma sorprendentemente animata dalla volontà di riprendere a vivere.

Troviamo un passaggio interessante e suggestivo nelle Lamentazioni. Sembra la fine: Gerusalemme parla attraverso il frastuono dei suoi palazzi distrutti (Lam 2,5), i bimbi muoiono nel grembo delle madri, quasi inghiottiti dall’abisso (Lam 2,11). Tutto sembra parlare solo di distruzione: «Siedono a terra in silenzio gli anziani dei figli di Sion, hanno cosparso di cenere il capo, si sono cinti di sacco, curvano a terra il capo le vergini di Gerusalemme» (Lam 2,10). Si sperimenta la difficoltà di una comunicazione fatta di parole ormai poco credibili, ma l’assenza di parole diventa supplica, pianto, dunque preghiera!

È un silenzio orante e iniziatico, che conduce fuori di sé per guardare in un’altra prospettiva, è l’esodo. Commenta S. Baez: «Gli anziani con il loro silenzio accettano di meritare la morte a causa del peccato e l’assumono; riconoscendo le loro colpe e accettando la morte dell’esilio, esprimono la loro fede nel Dio della vita nel momento della sofferenza».4

Un sofferenza che non uccide la speranza della Pasqua: «Le misericordie del Signore non sono finite» (Lam 3,22). «Buono è il Signore con chi spera in lui, con l’anima che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (vv. 25-26). «Sieda costui solitario e resti in silenzio, poiché egli glielo ha imposto» (v. 28).

Gli occhi di Gerusalemme sono pieni di lacrime (Lam 1,16), ma dal suo silenzio s’intravede la speranza: è la Pasqua! «La salvezza è quella esultanza interiore che deriva dalla certezza dell’amore di Dio. Di conseguenza, vi è anche un nesso molto stretto tra la salvezza e la preghiera, perché la preghiera è un altro modo per dire la nostra fiducia in Dio che mi ama e mi ama personalmente».5

Gettare unarcata

Nell’ora in cui abbiamo fatto di tutto per far tacere la misericordia del Signore, spezzando il legame, il silenzio apre le imposte alla Luce! A. Neher parla del Dio dalle arcate spezzate: sull’abisso che ci separa da Lui, ci lascia la possibilità di gettare un arco. Un arco che non sempre è fatto di parole, a volte di gesti, altre di lacrime, altre ancora di silenzio: è il mistero dell’incontro al quale in modo semplice si può dare il nome di preghiera.

Una forma di preghiera che può sembrare insolita, ma questo silenzio apparentemente tenebroso sembra esprimere una distanza profonda tra la vita umana e Dio, permette all’oscurità di schiarirsi e assumere altre sembianze, quelle del silenzio mattutino, quando si attende l’aurora che permetterà di vivere eventi nuovi.

E questo nuovo giorno si apre nel testo con una presa di coscienza che bisogna andare oltre, dunque convertirsi, chinare il capo e tacere, implorando il cambiamento. Con le parole del salmista possiamo dire: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui» (Sal 37,7).

Il salmista fa intuire che l’amore si nutre anche del silenzio, e lì dove sembra esserci una resa c’è invece apertura alla comunicazione, attesa della misericordia del Signore. Una misericordia che si conosce come duratura, fedele, salvifica. «Poiché nella parola è evidente la sua provenienza proprio dal silenzio, e la voce della parola è al tempo stesso destinata a tacere, non si può insomma né pronunciare né ascoltare parola se non “dal silenzio” e “nel silenzio”».6

Nellamarezza

Se la preghiera nella Bibbia è lode, supplica, pentimento, gratitudine, lamento, ha cioè una moltitudine di sfumature, come pensare all’esperienza paradigmatica di Giobbe? Una storia così dura che sembra sfiorare l’assurdo, come tante storie umane, dove il dramma della sofferenza si consuma sulla pelle degli innocenti. Se non partiamo da una concezione della preghiera semplicemente come momento rituale, il testo sacro ci mostra come la vita del credente stesso può essere preghiera silenziosa, o preghiera gridata, urlata, silenzio amaro.

Ogni uomo compie un suo percorso. Giobbe ad un certo punto «si mette la mano sulla bocca» (Gb 40,4), comincia cioè a stupirsi; si tratta di uno stupore che nella vita spesso ci appare come l’unica via d’uscita, quasi obbligatoria. Eppure da quel gesto nasce un dialogo con il suo goel fatto di silenzio e parole, fino a quando lo scontro si tramuterà in incontro e visione. Le parole che Giobbe pronuncia davanti a Dio esprimono un suo cambiamento interiore di riscoperta del mistero.7 Possiamo dedurre che nella fatica di riconciliazione che Giobbe vive con se stesso, con gli altri e con la sua «idea» di Dio, c’è un vero percorso di iniziazione alla preghiera, intesa come un mettersi alla presenza di Dio accettando e rispettando la Sua libertà: un’esperienza umanamente delicata.

Come Giobbe, ogni credente, nel dialogo con il Signore, precipita nel paradosso di dover accettare che l’unica via di scampo è disporsi al cambiamento, quello difficile, che si vive quando ciò che si è sempre pensato è incredibilmente opposto rispetto a ciò che bisognerà pensare o vivere. Ed è in questo dover andare oltre (metànoia vuol dire proprio andare oltre) che Giobbe afferma: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (Gb 42,5).

Ora la conoscenza di Dio, che sembrava ben consolidata nella tradizione rappresentata dai suoi amici e dai loro ragionamenti, è una relazione viva e autentica. Il vedere di cui parla il testo più che un fatto visivo è un cambiamento di tutta la persona. È ormai diverso il proprio modo di esistere e di porsi dinanzi a Dio e al suo mistero; nasce una nuova relazione d’ascolto: «Questo ascolto suppone apertura e attenzione, esige un silenzio che “ode” e “vede”, che concede la priorità all’altro, che fa sì che germinino il dialogo e la comunione personale».8

Giobbe ci spinge a guardare oltre l’orizzonte delle certezze consolidate e ben conservate per vie che non avevamo previsto, a comprendere che il silenzio è ascolto di un interlocutore che non si fa catturare dai nostri schemi e al quale è importante affidarsi maturando nella speranza e nella fiducia. Possiamo chiederci: non è legittimo affermare che questa faticosa danza tra silenzio e parole di supplica e di smarrimento costituisca il cuore della preghiera? È importante che la preghiera del credente sia «un grido del cuore» e nel contempo, una pagina della Scrittura.

Molti pensano di non saper pregare e con sofferenza parlano di questa difficoltà, soprattutto in situazioni della vita che sembrano senza via d’uscita; eppure la Bibbia stessa ci fa capire che nel riconoscimento di una simile inadeguatezza e povertà si sta già pregando. A volte senza dir nulla, perché come Giobbe, non si ha più la forza e ci si mette una mano sulla bocca, a volte pronunciando il nome del Signore come il pubblicano nel tempio (cf Lc 18,13).

Autenticità e fiducia

Accettando di non poter possedere né comprendere totalmente la verità e il senso degli eventi, né tanto meno il mistero di Dio, nasce una preghiera autentica; è qualcosa a cui bisogna educarsi ed aiutare gli altri a farlo, per poter sviluppare l’attitudine alla preghiera come dialogo autentico e fiducioso col Signore. La Bibbia dà la possibilità di guardare a storie come quelle di Giobbe, di Elia, di Pietro come fossero la nostra storia; ci suggerisce di non mentire davanti a chi ha il cuore più grande della nostra fragilità (cf 1Gv 3,20).

La vita di ogni popolo è fatta di lotte e di umiliazioni, dove la supplica e il lamento non mancano, dove la menzogna distrugge esistenze indifese. Anche in queste situazioni la preghiera diventa luogo di discernimento, di supplica, di lode, di benedizione. In un Salmo troviamo l’orante (potrebbe essere ogni uomo che prega sulla terra!) che subisce l’empietà degli uomini. Egli assume un atteggiamento di supplica, parlando alza le mani e chiede al Signore di non stare in silenzio (Sal 28,1).

Nonostante percepisca silenzio dall’altra parte, continua a pregare attraverso una sorta di narrazione della sua vita. Con il corpo rivolto verso la parte più santa del tempio vive il silenzio di Dio come pericolo di distruzione: «Io sono come chi scende nella fossa». Eppure non si ferma, dietro di lui sembra esserci solo il vuoto, ma la conclusione è diversa da ogni previsione possibile: «Sia benedetto il Signore che ha dato ascolto alla voce della mia preghiera» (v. 6). Dalla paura alla lode, una lode che non è semplicemente sua, ma appartiene alla comunità: «Salva il tuo popolo e la tua eredità benedici» (v. 9).

L’orante ha la certezza che la sua preghiera non cadrà nel vuoto. Chi prega va al di là del silenzio e si fida totalmente, ostinandosi a non chiudere il dialogo con Lui: «percepirlo come carenza, come vuoto, è già relazionarsi con lui».9

Alcuni silenzi sono di attesa, altri sono difficilmente interpretabili. Come possiamo pensare che il Padre celeste esiterà a dare «cose buone» ai propri figli? (Mt 7,1). La supplica deve partire sempre dal presupposto che chi ci ascolta desidera solo il bene. L’apparente «indifferenza» di Dio non può chiuderci alla speranza, anche se al momento abbiamo la sensazione di parlare una lingua contraria. L’evangelista ricorda chi è il Signore, e il salmista aiuta ad attendere: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui» (Sal 37,37).

Discernere

Nel silenzio si trovano le parole giuste, si progettano gesti e scelte importanti: più volte la Scrittura ce lo indica come dimensione essenziale del discernimento (Gn 24,21) e della maturazione umana, un percorso dove l’uomo e in particolare il credente si affida ad una visione altra e diversa da quella che potrebbe percepire nell’immediato.

In più testi sapienziali s’insiste sulla necessità di trovare un sano rapporto tra parole e silenzio perché: «Morte e vita sono in potere della lingua e chi l’accarezza ne mangerà i frutti» (Pr 18,21). È chiaro che s’invita a non perdere il contatto con il proprio mondo interiore, per evitare di scadere nella banale superficialità, che spesso è fonte di divisione e di malessere. «Chi disprezza il suo prossimo è privo di senso, l’uomo prudente invece tace» (Pr 11,12).

Questi testi non si riferiscono esplicitamente alla preghiera, ma è evidente che indicano una qualità dell’esistenza che incide sulla qualità della preghiera. Chi di noi non si accorge che ci sono dei giorni in cui abbiamo veramente esagerato nelle parole? Se non ci si educa alla prudenza, se non ci sono pause emotive, anche la preghiera sarà un continuo ritorno sul proprio io, un paradossale tentativo di sentirsi sempre nel giusto. Bisogna riflettere e placarsi (Sal 4,5), cioè tacere, perché questa è la strada per poter riconoscere la propria durezza di cuore e le proprie menzogne e disporsi, come Giobbe, a cambiare in profondità.

Un cuore dai molti silenzi

Nella Bibbia, come dicevamo, sono molteplici i significati attribuiti al silenzio, ma tutti mettono in luce che si tratta di una dimensione importante della vita dell’uomo, che cerca risposte di senso e vuole capire dove va la storia, della quale non è l’unico protagonista. Il silenzio nella Bibbia come nella vita non è dello stesso «colore». C’è il silenzio di chi si sente affascinato dalla presenza di Dio nel tempio e avverte la sua fragilità (Sal 65), c’è il silenzio che esprime il linguaggio della creazione e introduce nella bellezza del suo mistero (Sal 19), così come non manca il silenzio dell’inquietudine e della sofferenza presentata a Dio (Sal 39,10).

La Scrittura dipinge con cura l’itineranza del credente: i dubbi, il dolore, la supplica e la lode, lo stupore accogliente, la fuga, la clandestinità. Il Nuovo Testamento ci presenta il silenzio come una dimensione fondamentale dell’esistenza, che rende più vera la relazione con se stessi, con gli altri e con l’Altro. C’è un’essenzialità anche nell’uso della parola, che allora mostra un cuore non sommerso dall’egoismo: «poiché la bocca parla dall’abbondanza del cuore» (Mt 12,34).

Un simile stile di vita non s’improvvisa. Il Vangelo non parla del silenzio come uno dei tanti strumenti di purificazione, ma lascia intuire che per crescere nell’amore e diventare adulti nella fede non se ne può fare a meno. A volte bisogna cercarlo, attraversarlo, altre volte accettarlo come un passaggio obbligato, perché la storia di ciascuno maturi e si compia (Lc 2,51). La preghiera sarà espressione di un vita roboante e senza troppi punti di domanda se la vita è piena di rumori di ogni genere. Sarà espressione di desiderio, di conversione, dove le parole sono ridotte al minimo. La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) mostra chiaramente quanto valgono le parole e i gesti dell’uno e dell’altro.

La vita è piena di parole e di discorsi, che nascondono la verità, la paura del silenzio e della riflessione interiore. Bisogna avere il coraggio di far discernimento su certe suggestioni personali e comunitarie, e si può fare questo solo in silenzio. E lì allora la preghiera diviene presa di distanza dalle illusioni, luce che scandaglia e scopre equivoci e sottili ambizioni ammantate di religione. Si fa più umile e semplice la parola, il gesto, e Dio è onorato con «timore», che è amore e fiducia.

Note

 1.      L. Singer, Del buon uso della crisi, Troina 2006,97. [Torna al testo]

2.      C. M. Martini, La preghiera e la vita, Milano 2004, 9. [Torna al testo]

3.      S.J.Baez, Quando tutto tace. Il silenzio nella Bibbia, Assisi 2007, 23. [Torna al testo]

4.      S.J.Baez, Quando tutto tace, 40. [Torna al testo]

5.      A. Mello, L’amore di Dio nei salmi, Qiqajon, Magnano 2005, 12-13. [Torna al testo]

6.      M. Cacciari, «La parolaa dal e nel silenzio», in Il Messaggero, 2007/5,39. [Torna al testo]

7.      S.J.Baez, Quando tutto tace, 114-115. [Torna al testo]

8.      Ibidem, 116. [Torna al testo]

9.      S.J.Baez, Quando tutto tace, 181. [Torna al testo]

 

Antonietta Augruso
Via Eurialo, 91/16A – 00181 Roma

 

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