Come
trascorrono il loro tempo le persone consacrate? Quanto un Istituto
religioso si preoccupa di organizzarsi e disporre al meglio delle
risorse umane sulle quali può contare per il raggiungimento dei suoi
obiettivi? Quanto ci si preoccupa per assicurare che nelle comunità
religiose tutti i membri siano impegnati in un lavoro ordinato e fecondo
e ci sia un’attenzione oculata e saggia alla gestione del denaro che i
membri guadagnano e spendono?
Non è male che qualche volta si prendano in considerazione questi
interrogativi, se non altro perché l’immagine che la gente si fa delle
persone consacrate – e della vita consacrata in genere – si basa anche
su questi aspetti molto concreti e quotidiani.
Una categoria "professionale" atipica
È superfluo sottolineare che una comunità religiosa
non può essere assimilata ad un’azienda. Mentre questa è finalizzata
alla ottimizzazione delle risorse per ottenere il massimo profitto, la
comunità religiosa ha per priorità l’impegno a far crescere nella carità
le persone e l’attenzione alle esigenze della diffusione del regno di
Dio. Anche l’orario di lavoro della persona consacrata non può essere
confrontato con quello di persone che svolgono altre professioni, salvo
quei casi in cui essa ha un compito ben preciso legato ad un orario
particolare (ad esempio l’insegnamento).
Una comunità religiosa non è neppure confrontabile,
dal punto di vista del lavoro, con una normale famiglia, dove è
necessario che uno o più membri abbiano un lavoro per assicurare
determinate entrate e dove non raramente c’è l’assillo per il posto di
lavoro che si potrebbe perdere. Infatti, i membri di una comunità
religiosa non hanno normalmente la preoccupazione di trovare lavoro e
dal punto di vista economico non devono preoccuparsi di far quadrare il
bilancio mensile, in quanto la responsabilità di una gestione economica
oculata è affidata ad altri (il superiore locale, il consiglio
generale). Infine, anche il tempo del pensionamento è vissuto
diversamente dai religiosi rispetto ad altre categorie di persone,
perché spesso si continua a svolgere anche dopo l’età del pensionamento
l’attività che si era svolta in precedenza.
Questa atipicità che caratterizza il profilo
professionale della persona consacrata potrebbe comportare, tra l’altro,
la mancanza di un controllo rigido sul lavoro da lei svolto e quindi una
organizzazione del lavoro lasciata in buona parte alla sua personale
responsabilità (senza comunque dimenticare che le situazioni comunitarie
presentano una grande varietà circa il modo con cui sono strutturate):
vi è chi sente la responsabilità, chi abusa, chi non si preoccupa.
Organizzare bene il tempo
L’uso del tempo della persona consacrata dipende tra
l’altro da: la personalità del soggetto (grado di maturità, valori,
interessi, attitudini…); ciò che per obbedienza viene chiesto di fare;
il grado di accettazione, da parte del soggetto, del ruolo che gli viene
assegnato e il modo concreto in cui lo assolve; le condizioni ambientali
in cui opera.
Da un punto di vista psicologico, l’attività svolta
dalla persona consacrata e il modo concreto in cui ella impiega
quotidianamente il suo tempo hanno senza dubbio una rilevanza
significativa per quanto riguarda:
- il suo senso di identità;
- il senso di benessere/malessere generale e, più in generale, la sua
salute mentale;
- la qualità del contributo che ella può offrire al
gruppo, quindi l’efficienza del gruppo stesso nel raggiungimento dei
suoi obiettivi;
- il livello di soddisfazione del gruppo (l’apporto ordinato e ben
motivato di ciascun membro contribuisce a creare un clima di gruppo
positivo, mentre il disimpegno o la non chiarezza dei ruoli possono
minacciare il morale del gruppo e creare disgregazione e scontentezza);
- l’immagine della vita religiosa che viene offerta all’esterno.
I membri di una comunità religiosa impiegano bene il
proprio tempo nella misura in cui esso permette sia la migliore
soddisfazione possibile dei bisogni dei singoli membri sia il miglior
raggiungimento possibile delle finalità apostoliche che la comunità si
propone.
In riferimento al tema sul quale stiamo riflettendo,
potremmo distinguere tra comunità religiose efficienti e comunità
religiose non efficienti (il significato del termine efficienza che qui
viene usato va definito tenendo conto delle osservazioni fatte
precedentemente). Le prime sono caratterizzate da un lavoro ordinato e
fecondo da parte dei vari membri, tale da permettere il raggiungimento
degli obiettivi (sia di carattere personale che apostolico) che esse si
propongono, mentre nelle seconde ciò non avviene.
Ora, la domanda che ci si pone è la seguente: come si
presenta oggi la situazione delle comunità religiose e, più in generale,
degli Istituti religiosi per quanto riguarda l’uso del tempo? Quale
immagine di ‘efficienza’ offrono oggi le comunità religiose?
Tra efficienza e confusione
È facile rendersi conto che una risposta di carattere
generale è praticamente impossibile; forse un singolo Istituto può
essere in grado (dovrebbe essere in grado…) di avere alcuni elementi per
trovare una risposta a questi interrogativi. In generale, si può
affermare che le comunità dove le cose funzionano bene - le comunità
efficienti - si somigliano un po’ tutte e presentano aspetti comuni,
mentre le comunità non efficienti lo sono ciascuna a modo proprio.
Nelle prime vi è un’assimilazione dell’ideale
carismatico e quindi si realizza una identificazione emozionale dei
singoli con il gruppo; di conseguenza, si ha un progetto di vita
sufficientemente chiaro e definito; gli obiettivi sono esplicitati e
condivisi dal gruppo; i ruoli sono ben chiari e tali per cui si sa chi e
che cosa ognuno deve fare; ciascun membro dà con gioia e generosità il
suo contributo; i processi comunicativi sono tali da favorire un
monitoraggio costante dell’andamento della situazione generale e un
confronto libero sui problemi che via via si presentano, per cui il
gruppo è in grado di metabolizzare i conflitti e superare gli
inevitabili problemi che si possono presentare.
Nella misura in cui tutto ciò non avviene, possono
presentarsi diverse situazioni che poco o tanto creano tensioni
all’interno della comunità e la mettono nelle condizioni di non essere
efficiente e di non disporre al meglio delle risorse umane di cui
dispone per il raggiungimento dei suoi obiettivi. La casistica è varia.
Ci possono essere, ad esempio, religiosi
sotto-occupati, che non sanno come gestire il tempo o che si annoiano in
chiacchiere o occupazioni futili e poco significative per loro, con
conseguente senso di frustrazione e problemi di identità. A volte ciò
dipende da una insufficiente progettazione comunitaria, oppure da una
scarsa attenzione ai talenti e alle caratteristiche personali dei
singoli (non si valorizzano i loro interessi e le loro attitudini),
oppure non si danno responsabilità significative alle persone.1
In altri casi ci si trova in presenza di religiosi
che amano la vita comoda, ‘borghese’, hanno scarse motivazioni
apostoliche, passano il tempo nel coltivare qualche hobby personale
(leggere giornali, internet, telefono…), si creano un gruppo ristretto
di relazioni personali alle quali dedicano tempo e attenzioni
particolari.
Non mancano, poi, soggetti che presentano un elevato
grado di dinamicità e di impegno, ma il loro impegno è marcatamente di
tipo individualista. Hanno generalmente un loro settore di lavoro ben
definito e vi si dedicano con passione, ma rimane in definitiva un
impegno poco o per niente concordato con la comunità, che può portarli
anche ad avere orari propri e abitudini di vita che inizialmente erano
viste come eccezioni alla regola, ma che con il tempo sono diventate
abitudini ben consolidate e assai difficili da mettere in questione.
Professionalità e conflitti
In certi casi ci si trova di fronte a persone che,
per scelta dell’Istituto, si sono specializzate in qualche particolare
settore. Con il passare del tempo la loro competenza si accresce, è per
loro fonte di gratificazione (sono, ad esempio, psicologi continuamente
richiesti da un numero crescente di persone, o assistenti sociali di cui
c’è particolare bisogno per le tante persone in difficoltà), diventano
praticamente indisponibili per altri servizi all’interno della comunità,
possono anche disporre di una certa indipendenza economica. Tutto ciò
può portare un soggetto ad una confusione di identità o alla prevalenza
della sua identità professionale sulla identità legata alla sua
consacrazione (si sente psicologicamente anzitutto uno psicologo, un
assistente sociale, un esperto in economia…).
Ci si può trovare di fronte, infine, a soggetti che
si potrebbero definire disadattati, che non riescono - o non vogliono –
inserirsi nel dinamismo d’insieme di una comunità, abitualmente
scontenti e critici, per i quali i superiori non riescono quasi mai a
trovare un ruolo che accettino di svolgere con senso di responsabilità e
con personale soddisfazione. Le motivazioni di questa situazione sono
riconducibili spesso o ad una scelta religiosa non autentica o ad
immaturità psicologica.2
Quando una o più di queste situazioni si verificano,
si hanno comunità che presentano un alto tasso di conflittualità e
scontento, si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un autentico
sciupìo di talenti e di risorse umane, si offre l’immagine di una vita
religiosa che deresponsabilizza le persone, riesce difficile comprendere
come tutto ciò si possa conciliare con l’esempio di tanti padri e madri
di famiglia che devono fare sacrifici per far quadrare bilanci e
preoccuparsi di trovare (e mantenere) un lavoro dignitoso.
Sapersi organizzare
Le brevi riflessioni sopra riportate dovrebbero
essere sufficienti per richiamare l’attenzione dei responsabili di una
comunità o di un Istituto religioso sul problema dell’impiego del tempo
da parte dei loro membri. Si può anche tentare di proporre qualche
spunto operativo. Alcuni esempi.
- L’organizzazione della vita da parte di una persona
dipende fondamentalmente dal senso che la vita stessa ha per lei; è la
visione teologica della propria esistenza che la guida nelle sue scelte
e quindi nel modo di impostare le proprie giornate. In questo senso, per
la persona consacrata l’uso del tempo è strettamente collegato con quel
senso di identità che essa deve avere: ciò significa che essa deve
mantenere viva in sé la coscienza di essere una persona al servizio del
Regno di Dio, donata a Dio e ai fratelli e animata da quella carità di
Cristo ("chiarita Christi urget nos") di cui parla s. Paolo.3
Questo lei ha accettato solennemente e pubblicamente un giorno davanti a
Dio e alla Chiesa. Questo è il punto fondamentale da cui partire per
ragionare sull’uso del tempo delle persone consacrate.
- Esercitare un discernimento attento nei confronti
delle persone che mostrano di essere portate ad una vita di
consacrazione e verificare se, tra i requisiti che esse presentano, c’è
anche la volontà di lavorare, impegnarsi, sacrificarsi, collaborare.
- Definire progetti di vita comunitaria chiari, con
evidente distinzione dei ruoli, con assegnazione di responsabilità
significative ai singoli membri, come si conviene a persone adulte.
- Favorire nei singoli membri la consapevolezza che
ognuno di loro deve mantenersi con il proprio lavoro e deve sentirsi
responsabile anche dell’andamento economico della propria comunità e del
proprio Istituto. Lavorare per avere il diritto di mangiare: anche per
il religioso vale quello che dice s. Paolo!
- Saper investire in modo saggio per la formazione o
la specializzazione delle persone. Ciò può significare, ad esempio:
prevedere tempi definiti per terminare un curricolo di studi (a volte si
ha l’impressione che ciò non sia un problema per un Istituto religioso,
come lo sarebbe invece per una famiglia, e così un religioso può
dilazionare senza particolare preoccupazione la conclusione degli
studi); il tempo necessario ad una persona per un determinato curricolo
di studi non sia di norma interrotto per destinarla ad altri incarichi e
poi magari chiederle di riprendere a distanza di anni; quando si vuole
che un membro si specializzi in qualche disciplina o settore
particolare, si abbia chiaro fin dall’inizio per quale impiego futuro si
ritiene opportuno investire denaro per la sua specializzazione.
Andare oltre se stessi
In conclusione occorre essere convinti che uno dei
modi più significativi ed importanti per impiegare il tempo da parte di
una persona consacrata è anche lo studio personale. Studio e impegno
apostolico devono rappresentare sempre un binomio inscindibile, come
insegnava già s. Agostino4.
Prevedere che ci siano tempi adeguati di lavoro e di
riposo ed educare all’uso del tempo libero (dovrebbe far problema,
almeno in certi casi, che qualcuno della comunità passi ore e ore
davanti alla televisione o nell’uso del computer...). Due pericoli sono
in ogni caso da evitare: la pigrizia e l’attivismo.
Infine, tra gli aspetti della vita comunitaria a cui
riservare attenzione durante gli incontri di comunità, vi sia qualche
volta – oltre naturalmente la qualità della liturgia o l’osservanza dei
voti o la fedeltà al carisma… - anche questo: come i singoli membri
impiegano il loro tempo, chi deve fare e come farlo, se c’è un clima di
vita laboriosa e impegnata o se invece ci sono persone che si
distinguono per scarso rendimento.
Quale immagine di persona consacrata potrebbe
emergere dalle precedenti considerazioni? Non certamente quella della
persona indaffarata e frenetica, programmata e inavvicinabile perché
sempre occupata nelle cose da fare. È piuttosto l’immagine di una
persona tranquilla e operosa nello stesso tempo, convinta che riceviamo
la vita "andando oltre noi stessi, non guardando a noi, ma dandosi
all’altro nell’umiltà dell’amore… Diveniamo ricchi allontanandoci da noi
stessi".5
Aldo Basso
Seminario Arcivescovile
Via Cairoli 20 - 46100 Mantova
1 Erikson afferma che "la persona matura ha bisogno
che gli altri abbiano bisogno di lei". Quando un soggetto ha la
sensazione che tutto sommato sia indifferente che lui ci sia o non ci
sia, ciò diventa un’esperienza profondamente frustrante per lui.
2 Freud, a chi gli chiedeva da che cosa si riconosce
la persona matura, affermava che essa è colei che sa "amare e lavorare".
Risposta particolarmente profonda: si tratta della capacità di superare
il narcisismo infantile per uscire da se stessi e investire le proprie
energie nell’amore degli altri e nel lavoro (responsabilità) che si
svolge, inteso quest’ultimo come una modalità concreta di essere utile
al mondo e alla realtà circostante.
3 In realtà, ogni cristiano deve pensare come rendere
utile e santa davanti a Dio la propria vita, "persuaso - come afferma Manzoni
- che la vita non è destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno
renderà conto" (I Promessi Sposi, cap. XXII).
4 "Otium sanctum quaerit charitas veritatis, negotium
justum suscipit necessitas charitatis" (De civitate Dei, c. 19, n. 19). Il senso di questa profonda
intuizione di Agostino si può tradurre pressappoco così, tenendo conto
della difficoltà che abitualmente si incontra quando si tratta di
rendere in italiano il suo pensiero: "La carità della verità ha bisogno
di un tempo consacrato alla riflessione, l’urgenza della carità si fa
carico di un impegno doveroso".
5 BENEDETTO XVI, Discorso in occasione della
sua visita alla Chiesa evangelica luterana di Roma il 14 marzo 2010. Al
pensiero del papa si può accostare anche quello di un grande pensatore
ebreo: "Questo è il significato dell’esistenza: riconciliare la libertà
col servizio, l’effimero col durevole, ordire i fili temporali nel
tessuto dell’eternità. La saggezza più profonda cui può giungere l’uomo
consiste nel sapere che il suo destino è aiutare, servire" (A. J.
HESCHEL, L’uomo non è solo, Rusconi, Milano 1987, 292).