n. 11
novembre 2010

 

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Terapia delle relazioni: aiuto e illusioni

di Marcello Brunini

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Il discorso sulla terapia delle relazioni è articolato e difficile. Mi limiterò a qualche sollecitazione che apriràpiù problemi che soluzioni.

Oggi si parla molto di relazioni e della loro fondamentale importanza per la realizzazione di una vita sufficientemente serena e armoniosa. Ma il fatto che se ne parli troppo è già indice delledifficoltà che la relazione interpersonale attraversa. Vorrei propriopartire evidenziando alcune fatiche relazionali, per poi tentare di individuare qualche – altrettanto precario – percorso terapeutico.

Le fatiche della relazione

La fatica della relazione è segnata da alcune condizioni o sindromi che incidono sull’esistenza personale, familiare, sociale e anche religiosa.

La prima fatica potrebbe essere descritta come la sindrome da grande fratello. Si sta insieme per eliminarci; vince chi toglie di mezzo l’altro. In questo contesto ci si accosta all’altro, prevalentemente per capire i suoi lati deboli e poterlo più facilmente escludere; per comunicargli che io ho ragione, lui ha torto; per prevedere le sue reazioni ed essere in grado di neutralizzarle.

La seconda è la sindrome del farsi da soli. Il desiderio di autosufficienza e di autoreferenzialità. Questo atteggiamento è un serio ostacolo alla relazione, in quanto porta a sognare un’autonomia personale che sfocia nel dominio sull’altro e sull’ambiente circostante. L’altro è finalizzato ai propri scopi; io mi considero capace di indovinare le sue stesse aspettative.

La terza è la sindrome della paura. La pluralità degli incontri tra persone e la ricchezza delle prospettive sociali, economiche, politiche che si aprono dinanzi a noi, anziché favorire la fiducia, getta nell’incertezza, nel disagio, nella tristezza. La paura fa chiudere all’altro, al diverso soprattutto; spinge verso soluzioni prevalentemente individuali o familiari; fa percepire il futuro non come una possibilità, ma come una minaccia. La relazione si esprime nel sospetto, in un atteggiamento investigatorio.

La quarta sindrome è quella dell’uomo senza inconscio. Un uomo, cioè, che non avverte più il suo limite, la sua "mancanza a essere", ma si identifica con il suo"vuoto" e tende a superarlo gettandosi nel godimento che il vuoto stesso offre. Il soggetto senza inconscio non è più capace di scoprire il senso del proprio malessere, ma è portato a identificarsi in maniera totale con la cosa che lo sovrasta (cibo, droga, alcol, ecc. "lista degli oggetti antiamore").

L’uomo senza inconscio si rinchiude in una nicchia protettiva antitetica a quella del mondo e dell’a/Altro; si chiude in un godimento autistico e narcisista che prescinde e lo allontana dallo scambio simbolico con l’altro proprio a partire dalla sua ferita, dalla sua mancanza a essere.1

La quinta sindrome riguarda la sfera della religiosità. Potremmo descriverla come la sindrome della fusionalità. Secondo alcuni studiosi, Dio viene percepito dalle nuove generazioni come una persona familiare e amica. È sentito talmente vicino da perdere un po’ della sua trascendenza. La sua presenza appare così ravvicinata da essere dispersa e richiamata nei gesti e nei segni della vita quotidiana. Questo movimento può certamente indicare il bisogno di una religiosità più a misura d’uomo, di una fede in cui la dimensione esistenziale prevalga su quella normativo-dogmatica e ritualistica. Tuttavia, il "trascendente" sembra non essere più una sfera specifica separata dal quotidiano, ma quasi fusa con quest’ultimo. Da qui la difficoltà di molti a sentire e vivere l’esperienza della fede cristiana come relazione di amicizia con un Dio personale: un Altro che ti trascende, ma che si fa presente e parla con te, come un amico.

Sentieri terapeutici

Alle fatiche della relazione si può rispondere anche con qualche "cauto" sentiero terapeutico.

Un primo sentiero è senza dubbio l’apertura all’ascolto dell’altro, a far risuonare l’altro dentro di sé. Tutti pensiamo di saper ascoltare, ma non siamo consapevoli della bellezza e della fatica dell’ascolto. Ascoltare richiede applicazione della mente, della "pancia" e del cuore alla totalità dell’altro. Domanda attenzione alle sue parole, al suo gergo, alle sue idee. Alla configurazione conformista o creativa, ripetitiva o creativa del suo dire. Al "tempo" del suo parlare e del suo pensare; ad esempio: la prevalenza data al passato, al presente o al futuro. L’ascolto "risuonante" richiede, ancora, la percezione delle emozioni e dei sentimenti che attraversano l’altro nel "qui e ora" della relazione; il suo atteggiamento emozionale - ad esempio introverso o estroverso – i suoi silenzi, i suoi desideri, i suoi sogni; i suoi movimenti profondi di pace o di gioia, di tristezza o di risentimento. E si potrebbe continuare.

Un secondo percorso è dato dall’attenzione all’esperienza della fragilità e del limite. Ciascuno di noi è costituito da un insieme complesso di condizioni, di storie, di legami, di desideri, di incontri con eventi e con persone che si incrociano e si intrecciano. Ognuno ha necessità dell’altro, non può fare a meno dell’altro. In questo senso, ciascuno di noi, è fragile. Entrare nella fragilità significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con altri. Legami che non devono mai essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita condivisa; paradossalmente, sono essi a renderci liberi.2 Ognuno di noi non è un individuo isolato che si è fatto o si fa da solo. Ciascuno si fa insieme all’altro.

Siamo tutti uomini e donne fragili che, proprio "nella" e "per" la nostra fragilità, abbiamo un rapporto di apertura verso gli altri e verso il mondo. Siamo tutti persone che dovrebbero esercitare la propria libertà, non come ricerca di autonomia e di dominio, ma attraverso lo sviluppo e la moltiplicazione di vincoli relazionali. L’altro, che mi si pone di fronte con la sua disarmante presenza, con il suo volto caratteristico, non è colui che va convinto, ma colui che va accolto, che va accettato e ricevuto nel suo limite e nella sua ricchezza, perché sempre e comunque l’altro è parte di me.

In ascolto di fragilità e ferite

Per tentare, allora, di contenere il nostro desiderio di sufficienza e di dominio è necessario disporci all’ascolto della fragilità e della ferita nostra e dell’altro. Un ascolto partecipato del dramma dell’altro può favorire, in lui, il passaggio dalla ferita alla feritoia, ossia dalla letteralità delle storie personali alle possibilità che queste trattengono. Le ferite fisiche o esistenziali trattengono un senso nascosto (feritoie), che non "devo" capire, ma è necessario che attenda", "ospiti" e "accolga".3 Mettersi in ascolto delle fragilità, permette di portare alla luce una prospettiva "altra" da quella immediatamente vissuta; permette di scoprire tutti quei legami che possono aiutare l’altro a uscire dalla sua sufficienza e aprirsi al riconoscimento della sua ricchezza fragile; della sua bellezza infranta.

Un terzo sentiero terapeutico valorizza la curiosità. Ma attenzione, perché ne esistono diverse: la curiosità autocentrata e quella relazionale. La curiosità autocentrata è costituita, anzitutto, dal giudizio. Prima si giudica (fenomeni, eventi, persone), poi si passa all’interesse o alla distanza. In questo modo, ci mettiamo al riparo dal coinvolgimento; alimentiamo il senso di superiorità; non siamo disponibili a entrare nella "casa" dell’altro. La curiosità autocentrata è poi pettegola, fa diventare dei "ficcanasi", dicevano i Padri del deserto: ci dichiariamo a servizio dell’altro, ma esclusivamente per servirci di lui.

La curiosità relazionale inizia nello sguardo: uno sguardo non possessivo, capace di esplorare l’altro per intuire un po’ della sua anima, un pizzico del suo sentire e del suo patire. La curiosità si consolida nell’interesse per l’altro: per il suo aspetto, per la situazione che vive, per le condizioni che lo avvolgono. La curiosità aperta ci lega all’altro, perché allenta i cordoni angusti delle nostre preoccupazioni private, personali, etniche, religiose. La curiosità si apre anche all’ascolto del "perturbante" che l’altro nasconde. All’ascolto, cioè, di ciò che lo turba, dei suoi ricordi difficili, delle sue negatività, della sua ombra. Quell’ombra che io non voglio vedere in me e che l’altro non vuole vedere di sé. La curiosità autentica si consuma nell’ospitalità. Ci rende aperti all’intimità di un dialogo. Ci fa disponibili al limite dell’altro, alla sua diversità, alla sua peculiare bellezza. La curiosità come ospitalità ci mette in contatto creativo con la vita dell’altro, soprattutto quando questa si trasforma in tragedia.4

Un quarto sentiero terapeutico è l’apertura a ciò che l’altro "non ha ancora scritto di sé"; è il passaggio verso il mistero che abita ogni persona, ma che è presente anche nel mondo e nella storia. Il cammino terapeutico si fa, allora, ascolto della profondità, spesso abissale, che il sintomo trattiene. In questo orizzonte, ad esempio, "le malattie dell’uomo non sono solo limitazioni del suo potere fisico, ma sono anche drammi della sua storia … L’uomo è aperto alla malattia non per una condanna o per un destino, ma in virtù della propria semplice presenza al mondo. E in questa prospettiva, la sua salute non è affatto un’esigenza d’ordine economico da far valere nel quadro di una legislazione, ma è semmai l’unità spontanea delle condizioni di esercizio di vita. Quest’esercizio, su cui si fondano tutti gli altri, crea e racchiude sempre il rischio dell’insuccesso, un rischio da cui nessuno statuto di vita socialmente normalizzata può preservare l’individuo".5

La via della preghiera

Un quinto percorso terapeutico si apre al cammino spirituale. È la via della preghiera o meglio, l’apertura a Dio che parla. Un sentiero che riguarda certamente coloro che si riconoscono cristiani; un percorso che solo in parte è terapeutico, ma che affonda le sue radici nella necessità di riscoprire la relazione con un Dio personale che è il primo a cercare l’uomo e non viceversa. Parlando del Servo del Signore, Isaia dice: "Ogni mattina, il Signore, fa attento il mio orecchio perché io ascolti come un discepolo " (Is 50,4-5). È Dio stesso che si incarica di svegliare l’udito affinché sia capace di ascoltare attentamente per comprendere gli ammaestramenti del nuovo giorno.

Per la Bibbia, Dio non è "Colui che è", ma "Colui che parla", e parlando cerca amicizia con l’uomo e suscita la sua libertà. Nella vita si cresce quanto più si discende nelle profondità dell’ascolto; quanto più si fa spazio in se stessi fino a diventare dimora dell’a/Altro.

La terapia della relazione, oggi, si declina al plurale. E due mi sembrano le direzioni principali. Un filone di stampo cognitivista comportamentale in cui il soggetto è aiutato a ristabilire un ordine sconvolto, un equilibrio frantumato; il fine in definitiva è un nuovo benessere psicofisico, raggiunto anche attraverso un supporto farmacologico.

Un secondo filone, che accetta la complessità del soggetto-persona, valorizza il sintomo, la ferita, la fragilità, il desiderio come un "al di là", una "apertura" verso la singolarità di sé, una singolarità/differenza che dispone a un "passaggio" verso l’altro e verso il trascendente. Apertura che diviene l’ambiente in cui la relazione è possibilità di ulteriore approfondimento della propria singolarità. Il vero rischio della terapia delle relazioni può essere la dimenticanza della distinzione, che pone la teologia dell’Oriente cristiano, tra natura e persona. La natura risponde alla domanda: "Che cosa è?". La persona trascende la domanda. Quest’ultima, infatti, è irriducibile alla sua propria natura. "Per presentire il mistero della persona è necessario superare tutto il suo contesto naturale, tutto il contesto cosmico, collettivo, individuale, tutto ciò che può essere afferrato. Si afferra sempre la natura, ma non si af-ferra mai la persona. Si afferrano solo degli oggetti, anche quando sono oggetti di conoscenza. La persona non è un oggetto di conoscenza, più di quanto non lo sia Dio. Come Dio, essa è l’incomparabile, l’inesauribile, il "senza fondo"".6

Come l’aprirsi a Dio che si rivela esige ascolto, preghiera, vigilanza e, al limite, morte, così la conoscenza della persona domanda amorevole attenzione in quanto essa trattiene un mistero che svela la sua luminosità solo nella conoscenza e nei paradossi dell’amore.

1 Cf M. RECALCATI, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina, Milano 2010.

2 Cf M. BENASAYAG-G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, 105-106.

3 Cf M. BRUNINI, Ospitare la vita. Sentieri di fede, di interiorità, di pace, EDB, Bologna 22008.

4 Una possibile icona biblica di questo percorso è l’incontro tra Gesù e Zaccheo (Lc 19,1-10).

5 G. CANGUILHEM, Sulla medicina, Einaudi, Torino 2007, 46-47.

Marcello Brunini
Docente Istituto Superiore
di Scienze Religiose – Pisa
Via Catalani 22
55043 Lido di Camaiore (Lucca)

 

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