n. 11
novembre 2012

 

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Testimone di un cammino
 

PIER GIORDANO CABRA

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Profezia

La profezia era tornata alla grande subito dopo il Concilio. Ed è comprensibile: in tempi di mutamenti in corso, il profeta appare più affascinante e interessante dell’uomo dell’istituzione, proprio perché è proiettato verso il futuro o quanto meno, apre prospettive nuove. Tuttavia la parola “profezia” abbinata alla vita consacrata in un certo momento, verso la fine del secolo scorso, è stata considerata una miscela tanto esplosiva, da non essere neppure nominata nei Lineamenta inviati per preparare il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata.

I motivi di questa epurazione naturalmente non mancavano: in America Latina la dimensione profetica era riservata ai problemi sociali della liberazione dalla povertà. Negli Stati Uniti invece circolava la curiosa teorizzazione della vita consacrata quale successione dei profeti del Nuovo Testamento, in parallelo alla successione apostolica da parte della gerarchia. In Europa invece c’era ancora chi usava la profezia dei religiosi contro la pesantezza dell’Istituzione, fino a considerare fisiologica la dialettica carisma-vita consacrata versus istituzione-gerarchia.

È comprensibile che con tali interpretazioni piuttosto unilaterali, si temesse per la salute della vita consacrata e la si tenesse accuratamente protetta dalla tentazione profetica. Ma, come si sa, abusus non tollit usum!

Al Sinodo molti interventi hanno trattato proprio della dimensione profetica della vita consacrata, mettendo in risalto come nel periodo del rinnovamento ci siano stati spesso più facili profeti che falsi profeti, senza che mancassero quelli veri. E la successiva esortazione apostolica Vita consecrata ha trattato diffusamente, e con dovizia di specificazioni, il tema della profezia della vita consacrata, presentando Elia come un esempio di profeta geloso difensore della signoria di Dio e intrepido difensore dei diritti degli oppressi.

La profezia va quindi contestualizzata: là dove prevale la mancanza di rispetto verso la persona umana si sottolineerà la sua denuncia sociale, là invece dove si dimentica Dio avrà il coraggio di affrontare i “sacerdoti di Baal”, anche se il loro numero e la loro forza è soverchiante. È questa la situazione della nostra società secolarizzata, dove ci si accontenta del buon funzionamento delle cose, in nome della pura razionalità o dell’appagamento dei desideri, senza alcun riferimento a Dio.

 

Quale profezia?

Ma oggi la vita consacrata è diventata prudente, anzi quasi restia a parlare di profezia, più di quanto non lo fosse qualche anno fa, quando c’era tanta gioventù e possedeva tante energie vitali impegnate nelle sue opere. Come si fa infatti a parlare di profezia, quando il futuro è così incerto? Come si possono attendere soluzioni creative e innovative da comunità di anziani? Che prospettive possono dare persone assorbite nella gestione di una faticosa sopravivenza delle loro opere, spesso burocratizzate e in attesa di passare nelle mani dei laici?

Eppure si può e si deve parlare di profezia, perché la vita consacrata è profezia col suo stesso esserci. Il fatto che esista una forma di vita così insolita, e difficilmente spiegabile con le solite motivazioni, invita a fare una breve riflessione.

Profezia è credere alla vita consacrata, al suo essere un dono prezioso per la vita della Chiesa, per il semplice fatto che rimanda alla forma di vita di Cristo vergine, povero, obbediente. E questo nonostante gli scandali di abusi da parte di persone consacrate, perché la castità per il regno dei cieli esercita sempre un fascino segreto, anche sui più scettici. E questo nonostante gli scandali finanziari, perché la dedizione agli altri della maggioranza delle persone consacrate è un segno eloquente del Vangelo. E questo nonostante la nostra litigiosità, perché il fatto che viviamo assieme, nonostante le nostre notevoli differenze, parla al cuore di chi sa che cosa voglia dire la difficile convivenza. E quando anche non fosse un segno, la nostra vita è un atto di amore al Signore Gesù, che agli occhi suoi vale infinitamente più dei pur auspicabili riconoscimenti umani. E questo perseverare nel vuoto di riscontri, è vera profezia.

Profezia è vivere serenamente il momento presente, pensando alle parole del Signore: «Non siamo altro che servi», lieti di servire e d’aver servito il nostro Signore. E tenendo presente anche la saggezza spirituale della grande tradizione della vita consacrata, espressa nella frase ignaziana: «Fare tutto quello che dipende da noi e poi lasciare il risultato al Signore, come se tutto dipendesse da lui». Fare tutto quello che dipende da noi significa anche cercare di realizzare la fedeltà creativa del proprio carisma, senza accanimenti terapeutici. Qui soccorre il discernimento non sempre facile fra i due criteri della ricerca di forme nuove e dell’accettazione del termine di una missione, discernimento difficile, ma sempre possibile per chi è in atteggiamento orante e di ascolto di quanto lo Spirito dice alla sua Chiesa.

Profezia è accettare di aver compiuto la nostra parte nella missione della Chiesa, una parte forse non più ritenuta importante o necessaria o persino al suo tramonto per mancanza di rincalzi. La vita consacrata ha educato i popoli occidentali alla carità operosa, nei vari settori delle necessità del prossimo. Ora la società ha imparato a fare da sé, è diventata adulta e autosufficiente. Se la nostra opera di presenza quantitativa è sempre meno richiesta, più necessaria è quella qualitativa di esemplarità evangelica, pur in mezzo a tutti i lacci di legislazioni sempre più livellanti. Esemplarità che significa mettere al centro la persona umana da servire.

 

Profezia è beata speranza

Profezia è non amareggiarsi per quanto sta capitando fuori o dentro di noi, «come fanno quelli che sono senza speranza». Preoccuparsi, ma senza affannarsi, essere realisti, ma senza amareggiare gli altri con le nostre lagne e le nostre filippiche contro la durezza dei tempi. Chi dice di frequentare Dio, ha il compito d’infondere speranza, basata sulla certezza che la storia non sfugge dalle mani di Dio. La nostra fiducia in Dio sostiene profeticamente la fiducia di genitori che vedono i figli allontanarsi, di credenti che si vedono sempre più isolati, di cristiani impegnati che dubitano dell’efficacia dei loro sforzi.

Profezia è il ricupero personale della dimensione escatologica, di una dimensione ritenuta un tempo costitutiva e persino prioritaria della vita religiosa. Il che significa attendere positivamente il cielo, proiettarsi costantemente e gioiosamente verso di esso, «attendendo la beata speranza» della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo nell’attesa della sua venuta. «Vieni Signore Gesù», è la grande invocazione profetica in un mondo che si è chiuso in se stesso, senza prospettive sul futuro, che ha rimosso la morte e il suo pensiero. L’attesa fiduciosa della “beata speranza” è una profezia che può essere fatta con particolare scioltezza da chi ha dedicato tutta la sua vita al Tutto, all’Amato del suo cuore. E deve essere fatta perché questo è il banco di prova della veridicità di quello che diciamo e di quello che facciamo o abbiamo fatto.

Maranatà! Vieni Signore Gesù a riempire d’amore il mio cuore, a distribuirmi le tue ricchezze, a realizzare i miei più intimi desideri. A volte mi viene da pensare che il Signore ci stia togliendo tante cose che noi credevamo fossero un segno profetico, per chiederci di vivere questa profezia essenziale per scuotere il nostro mondo che si sta illudendo di bastare a se stesso.

Ecco la grande profezia, sempre possibile, sempre più doverosa: dire col cuore e con le labbra: «Vieni, Signore Gesù!».

 

Pier Giordano Cabra fn
Via Piamarta, 6 - 25121 Brescia

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