Profezia
La
profezia era tornata alla grande subito dopo il Concilio. Ed è
comprensibile: in tempi di mutamenti in corso, il profeta appare più
affascinante e interessante dell’uomo dell’istituzione, proprio perché è
proiettato verso il futuro o quanto meno, apre prospettive nuove.
Tuttavia la parola “profezia” abbinata alla vita consacrata in un certo
momento, verso la fine del secolo scorso, è stata considerata una
miscela tanto esplosiva, da non essere neppure nominata nei
Lineamenta
inviati per preparare il Sinodo dei
vescovi sulla vita consacrata.
I motivi di questa epurazione
naturalmente non mancavano: in America Latina la dimensione profetica
era riservata ai problemi sociali della liberazione dalla povertà. Negli
Stati Uniti invece circolava la curiosa teorizzazione della vita
consacrata quale successione dei profeti del Nuovo Testamento, in
parallelo alla successione apostolica da parte della gerarchia. In
Europa invece c’era ancora chi usava la profezia dei religiosi contro la
pesantezza dell’Istituzione, fino a considerare fisiologica la
dialettica carisma-vita consacrata
versus
istituzione-gerarchia.
È comprensibile che con tali
interpretazioni piuttosto unilaterali, si temesse per la salute della
vita consacrata e la si tenesse accuratamente protetta dalla tentazione
profetica. Ma, come si sa,
abusus non tollit
usum!
Al Sinodo molti interventi hanno trattato
proprio della dimensione profetica della vita consacrata, mettendo in
risalto come nel periodo del rinnovamento ci siano stati spesso più
facili profeti che falsi profeti, senza che mancassero quelli veri. E la
successiva esortazione apostolica
Vita consecrata
ha trattato diffusamente, e con dovizia
di specificazioni, il tema della profezia della vita consacrata,
presentando Elia come un esempio di profeta geloso difensore della
signoria di Dio e intrepido difensore dei diritti degli oppressi.
La profezia va quindi contestualizzata:
là dove prevale la mancanza di rispetto verso la persona umana si
sottolineerà la sua denuncia sociale, là invece dove si dimentica Dio
avrà il coraggio di affrontare i “sacerdoti di Baal”, anche se il loro
numero e la loro forza è soverchiante. È questa la situazione della
nostra società secolarizzata, dove ci si accontenta del buon
funzionamento delle cose, in nome della pura razionalità o
dell’appagamento dei desideri, senza alcun riferimento a Dio.
Quale profezia?
Ma oggi la vita consacrata è diventata prudente, anzi quasi restia a
parlare di profezia, più di quanto non lo fosse qualche anno fa, quando
c’era tanta gioventù e possedeva tante energie vitali impegnate nelle
sue opere. Come si fa infatti a parlare di profezia, quando il futuro è
così incerto? Come si possono attendere soluzioni creative e innovative
da comunità di anziani? Che prospettive possono dare persone assorbite
nella gestione di una faticosa sopravivenza delle loro opere, spesso
burocratizzate e in attesa di passare nelle mani dei laici?
Eppure si può e si deve parlare di profezia, perché la vita consacrata è
profezia col suo stesso esserci. Il fatto che esista una forma di vita
così insolita, e difficilmente spiegabile con le solite motivazioni,
invita a fare una breve riflessione.
Profezia è credere alla vita consacrata, al suo essere un dono
prezioso per la vita della Chiesa, per il semplice fatto che rimanda
alla forma di vita di Cristo vergine, povero, obbediente. E questo
nonostante gli scandali di abusi da parte di persone consacrate, perché
la castità per il regno dei cieli esercita sempre un fascino segreto,
anche sui più scettici. E questo nonostante gli scandali finanziari,
perché la dedizione agli altri della maggioranza delle persone
consacrate è un segno eloquente del Vangelo. E questo nonostante la
nostra litigiosità, perché il fatto che viviamo assieme, nonostante le
nostre notevoli differenze, parla al cuore di chi sa che cosa voglia
dire la difficile convivenza. E quando anche non fosse un segno, la
nostra vita è un atto di amore al Signore Gesù, che agli occhi suoi vale
infinitamente più dei pur auspicabili riconoscimenti umani. E questo
perseverare nel vuoto di riscontri, è vera profezia.
Profezia è vivere serenamente il momento presente, pensando alle
parole del Signore: «Non siamo altro che servi», lieti di servire e
d’aver servito il nostro Signore. E tenendo presente anche la saggezza
spirituale della grande tradizione della vita consacrata, espressa nella
frase ignaziana: «Fare tutto quello che dipende da noi e poi lasciare il
risultato al Signore, come se tutto dipendesse da lui». Fare tutto
quello che dipende da noi significa anche cercare di realizzare la
fedeltà creativa del proprio carisma, senza accanimenti terapeutici. Qui
soccorre il discernimento non sempre facile fra i due criteri della
ricerca di forme nuove e dell’accettazione del termine di una missione,
discernimento difficile, ma sempre possibile per chi è in atteggiamento
orante e di ascolto di quanto lo Spirito dice alla sua Chiesa.
Profezia è accettare di aver compiuto la nostra parte nella missione
della Chiesa, una parte forse non più ritenuta importante o
necessaria o persino al suo tramonto per mancanza di rincalzi. La vita
consacrata ha educato i popoli occidentali alla carità operosa, nei vari
settori delle necessità del prossimo. Ora la società ha imparato a fare
da sé, è diventata adulta e autosufficiente. Se la nostra opera di
presenza quantitativa è sempre meno richiesta, più necessaria è quella
qualitativa di esemplarità evangelica, pur in mezzo a tutti i
lacci di legislazioni sempre più livellanti. Esemplarità che significa
mettere al centro la persona umana da servire.
Profezia è beata speranza
Profezia è non amareggiarsi per quanto sta capitando fuori o
dentro di noi, «come fanno quelli che sono senza speranza».
Preoccuparsi, ma senza affannarsi, essere realisti, ma senza amareggiare
gli altri con le nostre lagne e le nostre filippiche contro la durezza
dei tempi. Chi dice di frequentare Dio, ha il compito d’infondere
speranza, basata sulla certezza che la storia non sfugge dalle mani di
Dio. La nostra fiducia in Dio sostiene profeticamente la fiducia di
genitori che vedono i figli allontanarsi, di credenti che si vedono
sempre più isolati, di cristiani impegnati che dubitano dell’efficacia
dei loro sforzi.
Profezia è il ricupero personale della dimensione escatologica,
di una dimensione ritenuta un tempo costitutiva e persino prioritaria
della vita religiosa. Il che significa attendere positivamente il cielo,
proiettarsi costantemente e gioiosamente verso di esso, «attendendo la
beata speranza» della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo
nell’attesa della sua venuta. «Vieni Signore Gesù», è la grande
invocazione profetica in un mondo che si è chiuso in se stesso, senza
prospettive sul futuro, che ha rimosso la morte e il suo pensiero.
L’attesa fiduciosa della “beata speranza” è una profezia che può essere
fatta con particolare scioltezza da chi ha dedicato tutta la sua vita al
Tutto, all’Amato del suo cuore. E deve essere fatta perché questo è il
banco di prova della veridicità di quello che diciamo e di quello che
facciamo o abbiamo fatto.
Maranatà! Vieni Signore Gesù a riempire d’amore il mio cuore, a
distribuirmi le tue ricchezze, a realizzare i miei più intimi desideri.
A volte mi viene da pensare che il Signore ci stia togliendo tante cose
che noi credevamo fossero un segno profetico, per chiederci di vivere
questa profezia essenziale per scuotere il nostro mondo che si sta
illudendo di bastare a se stesso.
Ecco la grande profezia, sempre possibile, sempre più doverosa: dire col
cuore e con le labbra: «Vieni, Signore Gesù!».
Pier Giordano Cabra fn
Via Piamarta, 6 - 25121 Brescia
Condividi su:
