n. 2
marzo/aprile 2013

 

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La porta aperta della fede
Tra incredulità e indifferenza

LUIGI ALICI

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Le prime righe della Lettera apostolica Porta fidei di Benedetto XVI sono letteralmente disarmanti, nella loro semplicità evangelica: «La “porta della fede” (cf At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi». Disarmanti, perché invitano a liberarci dall’armatura dei nostri pregiudizi che rischia di inchiodarci, esitanti e insicuri, proprio sulla soglia in cui finito e infinito si toccano. Quella soglia che la persona umana è l’unico essere al mondo capace di riconoscere e attraversare.

Sono queste le vere “colonne d’Ercole”, oltre le quali l’umanità può ritrovare la patria perduta se accetta di staccarsi dal suo vecchio mondo, rassicurante e insieme invivibile come “l’aiuola che ci fa tanto feroci” di cui parla Dante (Par. XXII,151). Non è solo l’Ulisse dantesco a voler varcare questa soglia, per vivere all’altezza della propria vocazione: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza” (Inf. XXVI, 118-120). Il nostro padre nella fede è Abramo, che può diventare una benedizione vivente solo a patto di andarsene dalla propria terra, dalla propria parentela, dalla casa di suo padre e mettersi in viaggio verso una terra sconosciuta.

Proprio sulla soglia di questa porta ogni essere umano ritrova la propria vocazione infinita, «quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma». È il miracolo della fede che mette in movimento la nostra storia: «Attraversare quella porta - è ancora Benedetto XVI - comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita». In questo cammino, l’uomo non cessa di essere uomo e nello stesso tempo non è più quello di prima. Un paradosso espresso efficacemente da papa Benedetto nell’omelia pronunciata nella Veglia Pasquale del 2006: «Io, ma non più io: è questa la formula dell'esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo. Io, ma non più io: se viviamo in questo modo, trasformiamo il mondo».

 

Uomo vecchio e uomo nuovo

Per esprimere questo paradosso, molti Padri della Chiesa - a cominciare da Agostino - hanno spesso attinto alla metafora paolina dell’uomo vecchio e dell’uomo nuovo. L’uomo vecchio è portatore di una creaturalità ferita, che orienta e insieme indebolisce la ricerca del bene. L’uomo nuovo è il frutto di una nuova nascita, come Gesù si sforza di far comprendere a Nicodemo. La differenza attesta un incontro che scaturisce da un dono immeritato e comporta un’adesione - fragile e sempre reversibile - a un nuovo modo di vivere e di morire, che trasfigura la vita incorporandoci al Risorto. Tuttavia non promette lo stravolgimento dell’umano, non cancella la fragilità costitutiva dell’“uomo vecchio”, non ci fa diventare “superuomini” (che è un altro modo di essere “disumani”).

Anche il cristiano, quindi, porta dentro di sé un uomo vecchio, ed è sempre tentato di varcare all’indietro quella soglia, addirittura rimpiangendo, come il popolo ebraico, persino le cipolle d’Egitto e la schiavitù passata, quando il cammino si fa impervio e la meta appare lontana. Il dialogo tra le domande dell’uomo vecchio e le risposte dell’uomo nuovo identificano lo statuto più proprio dell’umano: quello di abitare sulla soglia di due mondi e di non potersene ritrarre in modo indolore. Come ha scritto B. Lonergan: «Essere solo uomo è quanto l'uomo non può essere».

Interrogarsi sulla fede oggi, in un contesto ritenuto - forse a torto - di incredulità, significa riflettere sul senso di questa porta aperta: non una porta che sta davanti a noi, in una zona lontana e periferica dell’esistere, dove è possibile avventurarsi rinunciando a frequentare orizzonti di senso più accessibili e promesse più a buon mercato. Inteso in questo senso estrinseco, quel passaggio potrebbe anche - chissà - aggiungere qualcosa alla nostra vita, ma ignorarlo certamente non le toglierebbe nulla, perché si possono pur sempre immaginare tanti altri passaggi, più o meno simili. Non è così: qui stiamo parlando di una porta speciale, che non è davanti a noi, perché è la porta che noi stessi siamo. Può essere chiamata via della fede per chi l’attraversa, ma anche via dell’infinito per chi la riguarda solo dal lato di una finitezza aperta.

 

Grandezza della fede e miseria delle idolatrie

Come si guarda (o non si guarda) oggi a quest’apertura infinita del nostro cuore? Non vorrei abusare del luogo comune - peraltro giustificabile, se ben motivato - che pone il nostro tempo sotto il segno dell’incredulità. Non solo perché viviamo in un’epoca chiamata “postsecolare”, in quanto segnata da un ritorno del religioso sulla scena pubblica, che coincide con un indebolimento delle utopie e delle ideologie che avevano secolarizzato, nella modernità, l’escatologia cristiana. Questo fenomeno, di per sé complesso e meritevole di attenzione, non equivale però a una rinascita quasi automatica della fede; anzi, a volte, sembra imporsi proprio a scapito della fede, sia nella forma troppo “forte” di una rivalsa fondamentalista, sia nella forma troppo “debole” di una religione civile, chiamata a supplire alla crisi d’identità della politica.

È in un altro senso che vorrei ridimensionare lo stereotipo dell’incredulità. In modo quasi provocatorio, si potrebbe addirittura capovolgere quest’affermazione, arrivando ad affermare che è proprio un eccesso di credulità il vero nemico della fede autentica. La credulità è la banalizzazione della fede, che s’illude di surrogare la rinuncia a sporgersi sull’infinito dipingendo tante porte finte sulla superficie esteriore della vita, da spostare di qualche centimetro, ogni volta che tocchiamo con mano l’inganno; porte che lasciano intravedere scenari inesistenti, frutto di banali illusioni ottiche (in francese si parlerebbe di trompe l'oeil).

Ieri attraversare la porta della fede poteva essere temuto come una sorta di fuga dalla vita, generando reazioni di rifiuto, spesso ostili ed esibite. Si avvertiva, in modo più o meno consapevole, che quel passo esigeva un prezzo troppo alto: una scelta per la vita, dalla quale non si poteva tornare indietro a cuor leggero. Oggi, al contrario, questo attraversamento può apparire addirittura troppo facile. La porta della fede è diventata una porta come un’altra, che si può demolire e ricostruire, anzi cancellare e ridisegnare a piacimento. Stiamo diventando indifferenti alle differenze.

Rispetto all’uomo moderno, che ha combattuto battaglie aspre e sanguinose in nome di ideologie, visioni del mondo, progetti   politici ritenuti irrinunciabili nella loro diversità quasi salvifica, l’uomo postmoderno assume un atteggiamento più disincantato e ambivalente. Le differenze ci fanno paura, ci mettono a disagio; per questo cerchiamo di ridimensionarle, relativizzarle, sfumarle. Non solo le differenze storiche, ma anche quelle culturali e persino naturali: sfuma la differenza fra vero e falso, fra buono e cattivo, fra bello e brutto, fra maschile e femminile, fra uomo e animale, fra finito e infinito…

La vita diventa insapore, e incolore. Per questo, si può cercare di aprire tante piccole porte, diventare senza troppi scrupoli abitanti a tempo determinato di tante tribù: opportunisti nel lavoro fino al cinismo, spensierati nel tempo libero fino all’incoscienza, generosi nel volontariato fino all’altruismo. Intransigenti nell’etica pubblica e incensurabili nell’etica privata. Freddi calcolatori nell’uso dei più sofisticati strumenti tecnologici e creduloni superstiziosi nel ricorso a maghi ed astrologi. Persino il bisogno religioso può essere appagato da un’appartenenza puramente esteriore a tribù simboliche senza verità e senza dogmi, dove si adora a occhi chiusi il mondo dello sport, dello spettacolo, della finanza, della politica, ricreando al loro interno chiese, riti, tempi liturgici, culto dei santi…

In ogni distorsione idolatrica ricorre una medesima sproporzione fra lo squallore insulso di una consacrazione salvifica del finito e il suo diabolico potenziale autodistruttivo. Perché la nostalgia d’infinito - lo ripeto - costituisce la nostra identità più vera e più profonda. Ostentare indifferenza nei confronti della porta della fede significa umiliare le domande dell’uomo vecchio e cercare invano di sterilizzare la differenza infinita che noi siamo a noi stessi. Questa rinuncia non è come un’altra, è infinitamente più grande. Non è come rinunciare, per una sera, a uscire di casa: è rinunciare, per sempre, a entrare a casa nostra e illudersi che si possa vivere bene da stranieri bussando a una sfilza interminabile di porte chiuse.

 Luigi Alici
Università degli Studi di Macerata
Via Garibaldi, 20 – 62100 Macerata

 

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