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n.3
maggio/giugno 2014

 

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Preghiera e vita

di ANTONIO RAMINA

 

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Per dire della vita intera

Tra le molteplici dimensioni della vita cristiana la preghiera assume, indubbiamente, un posto di primo piano. Potremmo addirittura affermare che essa ci offre un punto di vista capace di farci allargare lo sguardo sull'intero della vita cristiana. Oppure, ancor più, su tutta la vita dell'uomo: “Chi impara a pregare, impara a vivere”, scriveva Thomas Moore. In queste righe cercherò di richiamare alcune peculiarità relative alla preghiera cristiana, dicendo subito che ne parlerò intendendola non tanto come una serie di cose che si dicono o si fanno, bensì come un modo di stare nella vita. La preghiera, infatti, è possibile soltanto a condizione che la persona accolga come indispensabili e faccia propri alcuni orientamenti che dovrebbero attraversare ampiamente tutta la sua esistenza.

Gratuità

Il primo di questi orientamenti, possiamo dirlo francamente, è una qualità fuori moda. Parlare di gratuità significa dichiarare con fermezza quanto sia necessario superare un ostacolo piuttosto diffuso: la barriera dell’efficientismo. Che cosa significa? Vuol dire sapersi opporre con coraggio al falso “dogma” che attribuisce importanza unicamente a ciò che produce qualcosa. Efficientista è colui che accorda valore esclusivamente a quelle azioni capaci di ottenere un frutto più o meno visibile. Efficientista, pertanto, è colui che è incapace di scorgere un valore anche in quegli aspetti della vita umana che non sono finalizzati a ricavare un risultato in termini di profitto. Comprendiamo bene che, qualora dominasse in noi questo atteggiamento, la preghiera sarebbe dichiarata impossibile già in partenza. Pregare, infatti, vuol dire compiere un’azione “inefficace”; domanda di saper riconoscere l'importanza anche di quanto, di per sé, immediatamente non produce nulla. Basti solo pensare a quante cose sarebbero estromesse dalla nostra vita se ragionassimo sempre in termini produttivi, realizzativi: l’amicizia, la cui gioia più grande sta proprio nello stabilire con altri legami di comunione indipendenti da un utile da ricavare; sarebbe di scarso interesse ogni espressione artistica, che attira l'essere umano aprendolo ad orizzonti inesplorati di bellezza e di fascino; non più cercato sarebbe il tempo libero per lo svago, in cui la persona può entrare in contatto con se stessa sperimentando di valere non per le cose che fa. La preghiera domanda appunto che si sappia recuperare il significato profondo e insostituibile di certe “perdite di tempo”; anzi, essa stessa è una di queste “perdite di tempo”, salutari e irrinunciabili; è tempo sabbatico per eccellenza.

Attesa

Un secondo orientamento indispensabile per pregare è l'attitudine a rimanere con pazienza nella distensione del tempo, ad attendere senza fretta. A questa capacità si oppone facilmente il funzionalismo. Si tratta di un ostacolo simile al precedente, e tuttavia è utile esplicitarlo perché consente di smascherare un altro aspetto che rischia di ostacolare la preghiera. Se con l'efficientismo si sottolineava la cattiva tendenza a dare valore soltanto a ciò che produce, ora si evidenzia l'inclinazione pericolosa a considerare importante solo l'urgenza del frutto: vale ciò che funziona subito, qui e ora. È chiaro che la preghiera è radicalmente estranea a una mentalità che accorda rilievo unicamente all'immediatezza del tornaconto. Al contrario, pregare vuol dire saper compiere un’azione che porta i suoi frutti soltanto nel tempo, progressivamente. Sotto questo profilo occorre coltivare la pazienza tipica dell’agricoltore, che getta il seme con abbondanza anche se i mesi necessari alla raccolta saranno molti; rischiando con fiducia senza lasciarsi trattenere dall'eventualità di cataclismi; dando valore anche ai tempi notturni, in cui tutto sembra tacere perché la crescita avviene nel silenzio e nell'oscurità. La capacità di attendere, nella preghiera, corrisponde bene al coraggio di essere pazienti: la pazienza è di chi, nella fatica, nell'incertezza, nell'oscurità del dubbio, non solo aspetta che la notte passi, ma si dispone a lasciarsi attraversare da questa notte, per uscirne maggiormente illuminato. Attendere, dunque; essere pazienti: per imparare un frutto buono rimanendo perseveranti nella prova.

Volontà buona

Si potrebbe dire semplicemente così: pregare vuol dire compiere un’azione anche quando non se ne ha “voglia” e il proprio “sentire” spingerebbe a fare qualcos'altro, in direzione opposta. L'ostacolo contro cui combattere è quello dello spontaneismo;
opporsi cioè alla tendenza di dare valore solo a ciò che fa “sentire bene”. Lo sappiamo: uno degli atteggiamenti su cui più facilmente si inciampa lungo il cammino della preghiera è proprio questo: non pregare quando “non ci si sente” di farlo, dimenticando che la preghiera non è qualcosa che si deve fare solo quando “fa stare bene” o “ci si sente bene”. Sotto questo profilo pregare è una forma di “arte”: ha bisogno di essere esercitata con determinazione; ha le sue regole da mettere in pratica con costanza; domanda un esercizio fedele che non può essere lasciato in balìa degli stati d'animo, sempre passeggeri e fluttuanti. Molti sono i Padri del deserto che ce ne parlano come di una vera e propria lotta, una lotta fino all'ultimo respiro.

Alcuni “contorni” della preghiera cristiana

Gi aspetti che sono stati portati all'evidenza fino a questo punto possono essere considerati come atteggiamenti da perseguire al fine di poter entrare e rimanere nella preghiera. Vorrei ora soffermarmi su alcune qualità più intrinseche della preghiera cristiana, note peculiari che la connotano in senso fortemente relazionale.

1. Il primato del “ricevere” sul “dare”. Il cristiano che prega, in primo luogo, non è uno che si volge a Dio per offrirgli qualche cosa. È piuttosto uno che si dispone a ricevere, a ricevere in dono. La preghiera stessa è dono di Dio, e stare davanti a lui è risposta a una sua chiamata gratuita, generosa e preveniente. In tal senso, si potrebbe dire che la preghiera del cristiano ha un aspetto passivo, ricevente. E questo vale non solo per il fatto che la preghiera è, in primis, possibilità accordata dallo Spirito di Dio, ma anche per un altro motivo. Il ritmo del pregare cristiano, infatti, dovrebbe essere scandito dal primato dell’“udire” sul “parlare”. È cioè necessario che la preghiera nasca dall'ascolto di una parola, la Parola di Dio che mi raggiunge “da fuori”: e tale parola, ultimamente, è il disegno di Dio compiutosi in Cristo. Noi preghiamo cristianamente non sulla base di un vago senso del sacro, senza contorni, che scopriamo dentro di noi; ma sulla base di ciò che è avvenuto ed è stato rivelato in Cristo. Ascoltando ciò che Dio mi dice di sé, di Gesù, dell’uomo, lasciamo che il nostro pregare prenda forma, assuma le parole adatte per parlare con il Signore.

2. Accoglienza di una comunione sempre nuova. Nella preghiera cristiana si scopre pian piano di abitare già all’interno di una comunione che è offerta, senza pentimenti, da parte di Dio. Da questo punto di vista la preghiera, anche se richiede una sua struttura, una sua forma che la metta al riparo dalla precarietà dello spontaneismo, non è solo tecnica da dominare, o un meccanismo da imparare e mettere in atto. Quello che è in gioco è piuttosto un rapporto, caratterizzato da una conoscenza reciproca sempre nuova e sorprendente. La preghiera cristiana sa cioè custodire il senso di un graduale cammino di rivelazione, fatto sia di scoperte che di incertezze; sa alimentare il senso di un legame interpersonale tra amici, in cui l’altro, Dio, non è una “cosa” di cui si può disporre, ma una persona con la quale si approfondisce un rapporto.

3. Restare esseri umani nella comunione con Dio. Sebbene in comunione profonda con Dio, nella preghiera si resta esseri umani, vale a dire con il senso preciso della propria distanza da Dio stesso. Mai va perduta la persuasione della propria dissomiglianza da lui: con il Signore dialoghiamo portandogli la nostra miseria, il nostro essere peccatori.

Che senso ha pregare...

Concludo cercando di rispondere a una obiezione che talvolta si incontra dialogando con persone credenti o meno; con cristiani che trascurano la preghiera così come con chi vi dedica cura e attenzione. Capita cioè di sentire domandare: “Che senso ha pregare, se tanto Dio conosce già ciò di cui abbiamo bisogno? Non dobbiamo forse fare la volontà di Dio? E allora: cosa importa pregare, dato che, alla fine, dobbiamo fare ciò che vuole lui?”. Non è mia intenzione rispondere in modo definitivo e completo. Suggerisco però l'idea che è il Signore stesso a desiderare da noi che preghiamo, perché il nostro rapporto con lui è rapporto di due libertà in gioco. Davanti al Signore non si sta come massi inerti, privi di desideri e di sogni. Davanti a Dio stiamo come persone libere, che custodiscono nel cuore dei progetti, delle idee, dei desideri, anche tanti bisogni spesso inespressi. E Dio non ci domanda di annullare tutto questo, bensì di entrare in dialogo con lui come persone che desiderano e che sognano, nella disponibilità a lasciar “ri-figurare” ogni anelito del cuore dai tratti di quell'amore che ci è stato pienamente rivelato nel Figlio Gesù.

Antonio Ramina
Docente Facoltà Teologica Triveneto

Convento Sant’Antonio Dottore
Via San Massimo 25 - 35129Padova
antonio.ramina@ppfmc.it

 

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