n. 3
marzo 2004

 

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Il Primo Testamento e l'Eucaristia
di Nuria Calduch Benages*

 

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La tavola

L'Antico Testamento ci presenta una società la cui economia è maggiormente agricola. La gente dipende dai frutti della terra per sopravvivere. Il clima impone la sua legge e la fame è una minaccia costante soprattutto alla fine di una estate troppo calda. La siccità va unita alla fame. Ricordiamo la storia di Giuseppe, quando interpreta il sogno del faraone in Gen 41 (i sette anni di carestia) o quella della vedova di Sarepta in 1Re 17 (tre anni di siccità). Mangiare è un gesto importante nella vita dell’uomo. Perciò, l’uomo biblico pensa al cibo quotidiano, e specialmente ai banchetti. Ricordiamo Is 25,6: "Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati" o anche Ger 31,12.14. E’ vero che il cibo è collegato con l’idea di felicità e abbondanza (Sal 4,7), però l’israelita s’interessa di più all’aspetto relazionale dei pasti.

Pensiamo innanzi tutto alla famiglia che mangia insieme: "i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa" (Sal 128,3), poi agli amici o visitanti che condividono il cibo con il padrone di casa (Gen 18: Abramo offre del cibo ai tre uomini che lo visitano alle Querce di Mamre) e, infine, pensiamo ai pasti che segnano un’alleanza tra due parti: per concludere la loro alleanza Isacco e Abimelek "mangiarono e bevvero" (Gen 26,30). Anche in Gen 31,44-54 troviamo un bell’esempio: Giacobbe giura di rispettare le figlie di Labano e Labano giura di non oltrepassare la frontiera, e questo patto viene sigillato da un pasto comune: "Giacobbe offrì un sacrificio sulle montagne e invitò i suoi parenti a prendere cibo. Essi mangiarono e passarono la notte sulle montagne" (v. 54). Dobbiamo però fare un passo avanti nella nostra riflessione. Dal significato biologico e sociale del cibo passiamo a un significato metafisico, a un valore religioso. L’uomo è legato al cibo, perché il cibo è necessario per la vita. La vita dell’uomo dipende dal cibo che prende quotidianamente (il cibo viene dal di fuori, entra in noi e diventa noi), perché l’uomo non può vivere senza mangiare. Questa dipendenza indica che l’uomo non è il principio della propria vita: è una creatura dipendente da Dio. Il fatto di dover mangiare indica la nostra creaturalità. In altre parole, l’uomo dipende dal cibo, ma anche da colui che glielo dà. Ricordiamo Gen 3,1-7: Adamo ed Eva mangiano dell’albero della conoscenza del bene e del male, per poter diventare conoscitori del bene e del male. Un altro esempio, Ezechiele mangia il libro della parola di Dio, il che significa che il profeta assimila la parola che deve predicare (Ez 3,1-3).

L’Altare

Parliamo ora di un altro tipo di mensa. L’altare o mensa sacrificale utilizzata non soltanto per i sacrifici, come in Ez 44,16 o Mal 1,7.12: "Offrite sul mio altare un cibo contaminato e dite: "Come ti abbiamo contaminato?". Quando voi dite: "La tavola del Signore è spregevole...", "La tavola del Signore è contaminata e spregevole ciò che v’è sopra, il suo cibo", ...voi mi disprezzate, dice il Signore degli eserciti..."

- L’olocausto, dal gr. holos, tutto intero + kaiein, bruciare, indica un sacrificio dove la vittima è bruciata tutt’intera in onore del Signore. In ebraico, ‘ôlah, dal verbo ‘alah, un verbo di moto che significa salire, far salire (hifìl). Allora, l’olocausto è il sacrificio la cui vittima sale all’altare, o ancora meglio, il verbo salire fa riferimento al fumo del fuoco che consuma la vittima e sale a Dio. Il rituale più completo di questi sacrifici si trova in Lev 1-8. Segnaliamo soltanto tre elementi caratteristici dell’olocausto:

a) L’offerente "poserà la mano sulla testa della vittima" (Lev 1,4), per indicare che la vittima è sua, che il sacrificio che il sacerdote presenterà sarà offerto in nome suo e che frutti del sacrificio saranno in suo beneficio.

b) La vittima è sgozzata dal proprio offerente, al di fuori dell’altare: "poi immolerà il capo di grosso bestiame davanti al Signore" (Lv 1,5) ... "scorticherà la vittima e la taglierà a pezzi" (v.6). Il sacerdote interviene soltanto quando la vittima entra in contatto con l’altare.

c) Tutto si porrà sull’altare per essere bruciato da un fuoco perpetuo, tranne la pelle, che corrisponde al sacerdote (Lev 7,8).

L’olocausto è principalmente un atto di lode a Dio che si esprime attraverso un dono, un dono totale (qorbán), l’offerta per eccellenza. Poi, viene attribuito un valore espiatorio al rito del sangue nell’olocausto (il sacerdote sparge il sangue attorno all’altare), come in tutti i sacrifici (Lev 17,11).

- Il sacrificio di comunione. Qui la vittima viene immolata e poi viene distribuita a Dio (il grasso e le viscere), al sacerdote (il petto e la coscia destra) e all’offerente (il resto dell’animale per mangiarlo con la famiglia e gli amici). Questo sacrificio (il Levitico ne distingue tre tipi) può essere completato con una offerta di torte senza lievito e pane ordinario. Una parte sempre va riservata per i sacerdoti (Lev 3; 7,11~38; 10,14-15; 22,21-25.29-30). Questa modalità era chiamata sacrificio di lode (in ebraico tôdah, dalla radice yadah, confessare, proclamare, celebrare).

- I sacrifici espiatori. Ogni sacrificio che ha come scopo di ristabilire il rapporto con Dio ha un valore espiatorio. Però Israele aveva una coscienza così forte del peccato che ha sviluppato dei riti speciali, cioè i cosiddetti sacrifici espiatori. Il più importante è il sacrificio per il peccato (Lev 4,1-5; 4,13; 6,17-23), le cui caratteristiche sono due. In primo luogo, il ruolo importantissimo del sangue. Dice Lev 17, 10-1 1: "Ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro, che mangi di qualsiasi specie di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò la faccia e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita". In secondo luogo, l’offerente che si riconosce colpevole non partecipa alla distribuzione della carne. La carne si brucia per Dio e poi per i sacerdoti. Quella vittima espia il peccato.

- L’oblazione o offerta vegetale. Si offrivano i prodotti del suolo (cereali, farina, olio). Si offriva fior di farina sulla quale si versava olio e incenso, qualche volta accompagnati dal vino. Erano esclusi i pani lievitati, perché il lievito corrompe la massa, e le torte di miele perché ricordano i culti cananei. Tutte le offerte erano accompagnate dal sale, segno dell’incorruttibilità dell’alleanza. La parte dell’offerta che si bruciava era chiamata il memoriale (il Signore si ricorderà dell’offerente) e quella che non si bruciava era riservata per il sacerdote.

 

Il memoriale

Le nostre civiltà, quelle della scrittura, hanno molta cura degli archivi, delle biblioteche e dei musei, dove si conservano documenti del passato. Il passato ci aiuta a capire il presente. Perciò ricordare è molto importante nella vita. Ricordare non è un semplice passatempo, un modo di sentire nostalgia o una evasione dalla realtà, ma ci mette in rapporto con le nostre radici, con le nostre origini.

Nella Bibbia la parola ricordare esprime il rapporto vicendevole tra Dio e il suo popolo Israele. Dio si ricorda sempre del suo popolo (Es 6,5; Sal 78,39...), però qualche volta Israele crede che Dio si è dimenticato di loro (Sal 10,11; 13,2...), e allora grida: Ricordati di noi (Sal 25,6-7; 74,2.18.22...). Dall’altra parte, Israele, attratto da altri idoli, si dimentica spesso del suo Dio e deve faticare molto per rinfrescare la memoria (nei libri profetici vi sono molti esempi). Ad ogni modo, Israele è consapevole che ricordare il passato non è sempre facile: i ricordi si possono cambiare, adattare, manipolare, correggere... Perciò, il ricordo dei fatti essenziali della storia del popolo devono essere accompagnati da alcuni testimoni immutabili. Per esempio, gli accordi tra Giacobbe e Labano resteranno sigillati in eterno in una pietra, una stele (Gen 31,45). Il libro di Giosuè parla di parecchi monumenti che "ancora oggi si trovano lì" in Palestina e che sono "un ricordo perpetuo per gli israeliti" degli eventi del passato (cfr. Gios 4,6.7.9 e 7,26; 8,29): "vi eressero sopra un gran mucchio di pietre, che dura fino ad oggi".

Questo segnale che attualizza un passato finito e presente allo stesso tempo è lo zikkarôn (dalla radice zaka, ricordarsi), che noi traduciamo con "memoriale". Lo zikkarôn è il segnale visibile e tangibile di una realtà invisibile e irraggiungibile; esso è il fatto esperienziale del presente che contiene un significato occulto.

Tra i molti testi che presentano lo zikkarôn, ci sono due salmi molto significativi: Sal 132 e Sal 48. In essi, un atto cultuale attualizza il ricordo del passato, in modo tale che i personaggi del salmo si sentono totalmente coinvolti nel passato evocato. Dice il Sal 132:

"Ecco, abbiamo saputo che era in Efrata,
l’abbiamo trovata nei campi di Iàar.
Entriamo nella sua dimora, prostriamoci allo sgabello dei suoi piedi" (vv.6-7).

Molto tempo dopo Davide, i fedeli ricordano la traslazione dell’arca santa, trono di Dio, come se si trattasse di un evento attuale. Così essi diventano i protagonisti di una storia passata. Efrata è Betlemme e i campi di Iàar sono una designazione poetica di Kiriat-Iearim, dove ci fu l’arca, secondo 1Sam 7,1-2. Per quanto riguarda il Salmo 48, ci troviamo di fronte a una "liturgia di Sion". Una liturgia di ringraziamento per la liberazione di Gerusalemme. I pellegrini del tempio rivivono la storia passata e anche essi si sentono protagonisti degli eventi antichi:

"Come avevamo udito così abbiamo visto,
nella città del Signore degli eserciti,
nella città del nostro Dio;
Dio l’ha fondata per sempre" (v. 9).

Per concludere, lo zikkarôn è una specie di "presenza reale" – espressione forse troppo azzardata – del passato storico nel presente attuale (L. Monloubou).

 

La Pasqua: storia e teologia

Per comprendere Gesù, specialmente nel momento dell’ultima cena con i suoi discepoli, bisogna entrare nel mondo in cui Gesù viveva, nella cultura a cui egli apparteneva. L’Eucaristia istituita da Cristo e praticata dai primi cristiani è la conclusione di un lungo percorso, i cui momenti più rilevanti vogliamo accennare, anche se in maniera breve.

Ecco i testi che narrano la Pasqua.

Es 12,1-201: "Il Signore disse a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto: "Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità di Israele e dite: Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo serberete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case, in cui lo dovranno mangiare. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco, la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le viscere. Non ne dovete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato lo brucerete nel fuoco. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. E la pasqua del Signore! In quella notte io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d’Egitto, uomo o bestia; cosi farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando io colpirò il paese d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne.

Per sette giorni voi mangerete azzimi. Già dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al giorno settimo, quella persona sarà eliminata da Israele.

Nel primo giorno avrete una convocazione sacra; nel settimo giorno una convocazione sacra: durante questi giorni non si farà alcun lavoro; potrà esser preparato solo ciò che deve essere mangiato da ogni persona.

Osservate gli azzimi, perché in questo stesso giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dal paese d’Egitto; osserverete questo giorno di generazione in generazione come rito perenne. Nel primo mese, il giorno quattordici del mese, alla sera, voi mangerete azzimi fino al ventuno del mese, alla sera.

Per sette giorni non si troverà lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievito, sarà eliminato dalla comunità di Israele, forestiero o nativo del paese. Non mangerete nulla di lievitato; in tutte le vostre dimore mangerete azzimi".

Questo testo è quello che si utilizza tradizionalmente come la memoria storica della Pasqua, nel momento della liberazione dall’Egitto. Il testo però non è una cronaca di quello che accadde la famosa notte. Scritto molti anni dopo i fatti narrati (senz’altro durante l’esilio), questo brano comprende parecchi strati successivi

Dt 16,1 - S: "Osserva il mese di Abib e celebra la pasqua in onore del Signore tuo Dio perché nel mese di Abib il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire dall’Egitto, durante la notte. Immolerai la pasqua al Signore tuo Dio: un sacrificio di bestiame grosso e minuto, nel luogo che il Signore avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Non mangerai con essa pane lievitato; per sette giorni mangerai con essa gli azzimi, pane di afflizione perché sei uscito in fretta dal paese d’Egitto; e così per tutto il tempo della tua vita tu ti ricorderai il giorno in cui sei uscito dal paese d’Egitto. Non si veda lievito presso di te, entro tutti i tuoi confini, per sette giorni; della carne, che avrai immolata la sera del primo giorno, non resti nulla fino al mattino. Non potrai immolare la pasqua in una qualsiasi città che il Signore tuo Dio sta per darti, ma immolerai la pasqua soltanto nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per fissarvi il suo nome, la immolerai alla sera, al tramonto del sole, nell’ora in cui sei uscito dall’Egitto. Farai cuocere la vittima e la mangerai nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto; la mattina te ne potrai tornare e andartene alle tue tende. Per sei giorni mangerai azzimi e il settimo giorno vi sarà una solenne assemblea per il Signore tuo Dio; non farai alcun lavoro".

Ambedue le narrazioni presentano due feste diverse che si sono unite: la festa della Pasqua (pesa h) che si riferisce al sacrificio dell’agnello e la festa degli Azzimi (masôt) che si riferisce al fatto di mangiare pane senza lievito durante sette giorni. Si tratta di due feste diverse che a un certo momento della storia di Israele (probabilmente al tempo di Giosia) si unificarono, come abbiamo visto nel testo, e così rimasero durante il post-esilio, il NT, fino ad oggi.

Le feste accennate sono molto antiche e nacquero in ambienti culturali molto diversi. La festa degli Azzimi nacque come una festa agricola nei popoli cananei, mentre la festa della Pasqua nacque come una festa dei pastori nomadi. Ambedue si celebravano in primavera. Nella festa degli Azzimi, i contadini offrivano le prime spighe a Dio a modo di ringraziamento, e durante sette giorni nessuno mangiava il pane con lievito. Era un modo per esprimere che durante sette giorni non si utilizzava niente che fosse vecchio (il lievito è collegato con il grano dell’anno precedente). La festa degli Azzimi indica la nascita di un nuova vita: dopo la morte (l’inverno), tutto rinasce (primavera) con le prime spighe.

La festa di Pasqua, abbiamo detto, nasce in un ambiente di pastori. Non è esclusiva di Israele, perché già si celebrava in altri popoli. Essi celebravano la festa in primavera, quando portavano a pascolare i greggi nei nuovi campi. I motivi coincidono con quelli della festa degli Azzimi: ringraziare Dio per la fecondità dei loro greggi dell’anno scorso e anche chiedere la stessa benedizione per l’anno venturo. Si sacrificava un agnello e il sangue si versava sulla tenda per allontanare i cattivi spiriti, cioè le piaghe. Essi pensavano che le piaghe rispettavano le tende sigillate col sangue. Forse qui è da cercare il significato della parola pesah (dal verbo pasah, saltare con una gamba, cioè esaltare sopra" (le tende) e quindi rispettarle. Poi, alla sera si celebrava un banchetto, mangiando l’animale sacrificato arrostito al fuoco, le erbe amare, tipiche del deserto e il pane senza lievito così si conserva meglio, cotto su una pietra bollente. Sandali, bastone, un cinto ai fianchi e la posizione "in piedi" sono elementi caratteristici dei pastori. Ogni anno gli ebrei, quando iniziava la primavera, ripetevano questo rito ereditato dai loro antenati.

A metà del XIII secolo a.C. (impossibile fissare anche l’anno, perchè abbiamo soltanto alcuni indizi storici: Mosè, Egitto), la festa della Pasqua prese un orientamento del tutto nuovo, che quasi fece dimenticare ogni traccia del rito antico. Israele riprende la festa e la trasforma. La inserisce nella propria storia e le conferisce un significato teologico. Da quell’anno in poi, l’anno della liberazione dall’Egitto, il significato della festa cambiò completamente: Dio era entrato nella storia d’Israele per salvarlo dell’oppressore e costituirlo un popolo libero. Da quell’anno in poi, Israele celebra la festa della Pasqua come l’uscita dall’Egitto, il passaggio dalla schiavitù al servizio di Dio, l’evento fondante del popolo.

Siamo abituate ad ascoltare che la Pasqua è la festa centrale dell’AT. Però quante volte viene menzionata nei testi biblici? Oltre ai testi sopra accennati, soltanto in Gios 5,10-12. Dobbiamo aspettare la riforma del re Giosia (622 a.C), quando si ricuperò un rotolo (il nucleo centrale del Dt), per vedere un cambiamento importante. CE 2Re 23,21-23: "Il re ordinò a tutto il popolo: Celebrate la pasqua per il Signore vostro Dio, con il rito descritto nel libro di questa alleanza. Difatti una pasqua simile non era mai stata celebrata dal tempo dei Giudici, che governarono Israele, ossia per tutto il periodo dei re di Israele e dei re di Giuda. In realtà, tale pasqua fu celebrata per il Signore, in Gerusalemme, solo nell’anno diciotto di Giosia" (cfr. Esd 19-22, nel 515 a.C. ci fu una celebrazione solenne della Pasqua a motivo della restaurazione del tempio).

La riforma religiosa di Giosia (un solo Dio, un solo popolo, un solo santuario) condannò tutti i santuari antichi e invitò gli israeliti a celebrare tutte le feste a Gerusalemme. Cosi possiamo capire meglio il nostro testo: "Non potrai immolare la pasqua in una qualsiasi città che il Signore tuo Dio sta per darti, ma immolerai la pasqua soltanto nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per fissarvi il suo nome" (Dt 16,5-6). La centralizzazione del culto iniziata da Giosia, malgrado la caduta di Gerusalemme nel 587 a.C., durerà più di 650 anni (fino alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 d.C. Lo stesso Gesù celebrerà la Pasqua nel contesto imposto da Giosia. Questo è importante per capire il significato dell’ultima cena e della morte di Gesù.

* Docente di Esegesi dell’A.T. alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.

   

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