La vita religiosa nel cambio
culturale
E'
ormai imminente il convegno internazionale1
promosso dall’Unione dei Superiori e delle Superiore Maggiori sul tema:
«Passione per Cristo, passione per l”umanità».
L’instrumentum
laboris, scritto con l’apporto di molti Istituti di vita consacrata,
analizza alcuni nodi problematici e lascia grande spazio alla ricerca
intorno a un interrogativo cruciale, che da parecchi anni risuona nelle
comunità: quale stile di vita per essere, oggi, presenza profetica?
Ci accorgiamo che
le categorie con cui abbiamo risolto l’organizzazione comunitaria e la
formazione sono “saltate”. Ci troviamo di fronte a problemi inediti.
Occorre transitare verso il pluralismo culturale, la precarietà,
un’evangelizzazione ripensata in un contesto di indifferenza.
Rileggendo la
storia di fondazione di molti Istituti sorti sul finire dell’800 ci si
accorge che le intuizioni carismatiche primitive sono state
rigorosamente inquadrate in una visione “monastica” con un accento forte
sulla regolarità della vita, scandita dalle “pratiche di pietà”.
Anche la formazione,
al di là di alcune peculiarità, seguiva uno schema comune. Del resto la
società era compatta, con stratificazioni stabili, con una religiosità
cristiana, con espressioni popolari condivise.
La Chiesa
contribuiva a dare stabilità e rifugio anche dal punto di vista sociale.
Questi parametri,
da molti anni, non esistono più.
La società
multiculturale e multireligiosa è un dato di fatto. Dall’ateismo o
dall’anticlericalismo si è passati all’indifferenza nei confronti del
sacro; si è fatta strada una religiosità soggettiva, individualistica,
con conseguenze gravi sull’etica. Quando, infatti, il riferimento a Dio
si allontana, tutto può accadere.
Lo Stato, inoltre,
si è organizzato così da assorbire molti compiti e funzioni che, in
passato, erano prerogativa dei religiosi/e, mettendo in crisi molte
opere (ospedali, scuole, orfanotrofi…).
Le nostre comunità
hanno dovuto ripensarsi. Oggi, si parla a ragione di rifondazione,
perché il nostro tempo deve riesprimere con modalità totalmente nuove il
carisma della vita consacrata.
Oltre gli stereotipi
«Io non posso
cambiare. Sono fatta così… la mia formazione è diversa».
Parole così se ne
sentono spesso. Sono l’alibi per acquietarsi nel tran-tran quotidiano,
dentro la nicchia che ognuna di noi, tendenzialmente, si costruisce.
Invece, il tempo di
una formazione “a stampo unico” è finito da un pezzo.
Molte cose, in
realtà sono cambiate dal post Concilio: ci sono prospettive teologiche
nuove, si è innalzato il grado di scolarità della donna, si sono
moltiplicati gli scambi culturali.
Le nostre comunità,
oggi, hanno una composizione variegata: poche sorelle giovani, molte
anziane, con una fascia di persone mature che incidono notevolmente
sulle scelte. Di più: in molti contesti, sorelle di nazionalità e
culture diverse sono chiamate a esprimere lo stesso carisma e scelte
condivise a partire da schemi mentali molto distanti.
La differenza è nel
cuore stesso delle comunità: l’età, la cultura, la nazionalità, il
lavoro, l’organizzazione dei tempi della vita mettono in crisi,
quotidianamente, un modello di vita consacrata imperniata su orari
comuni, pratiche e ritmi di vita uguali, percorsi formativi ed esigenze
di qualificazione standardizzate.
La domanda che
affiora è inquietante: che cosa fa di un gruppo di persone una
“comunità”? Come si esprime l’appartenenza?
La ricerca su
questo tema è tanto più urgente quanto più la vita comune si afferma
come uno degli indicatori che affascinano maggiormente le giovani di
oggi, quando si trovano di fronte alla scelta vocazionale.
Ma, spesso, è una
vita comune idealizzata. Che compensa la paura della solitudine. Che
svicola dalla fatica di costruirsi dentro dinamiche di fede. Che sublima
la condivisione o la riduce a puro sentimento effimero.
Dallo spartito alla sinfonia
Le Costituzioni
rinnovate sono il nostro spartito, scritto con amore e creatività. Ogni
Istituto, dopo la ventata del Concilio, si è impegnato a studiare il
carisma di fondazione, a ripulirlo dalle incrostazioni del tempo e a
codificarlo, tenendo conto del dialogo nuovo con il mondo contemporaneo.
Ma avere uno
spartito bellissimo non assicura una bella sinfonia.
Tradurre la nostra
Regola di vita nelle scelte quotidiane comporta attrezzarsi per
custodire la vigilanza del cuore, alimentare una carità senza confini,
alimentare il perdono…
«Passare dall’io al
noi» – per usare un’espressione ormai nota2
– è un compito mai finito. «Lo sforzo di costruire comunità meno
formaliste, meno autoritarie, più fraterne e partecipate è uno dei
frutti più evidenti del rinnovamento»3
ormai avviato.
Ma nel momento in
cui ci si ferma a riflettere, balzano agli occhi lentezze, limiti,
ostacoli, che a volte frenano l’entusiasmo. Richiamo alcuni rischi4
a cui le nostre comunità sono esposte.
- «Se la vita
consacrata interpreta se stessa dalla prospettiva
dell’auto-realizzazione, ha perso la via del Vangelo… La cultura
dell’autorealizzazione stravolge il discernimento comunitario: esso
viene preso non tanto come un processo di distacco e di purificazione
per sintonizzarsi con la volontà di Dio, ma come strategia per imporre
una decisione personale, sovente già presa».
- «Se la vita
consacrata nega di essere segno visibile di qualcosa, allora che senso
ha?». L’invisibilità e la voglia di normalità stanno modificando
radicalmente abitudini, linguaggio, strutture. Come recuperare la
“visibilità” evangelica, restando “in mezzo” alla gente?
- «Oggi la
necessaria preparazione professionale diventa sovente un pretesto per
non essere disponibili alla missione. Stiamo perdendo la freschezza
della disponibilità evangelica per diventare professionisti… Ma se la
vita consacrata conta soltanto su dei professionisti della sanità,
dell’educazione, dell’emarginazione, si deve pur ammettere che ha
sbagliato».
- «Si è
introdotta una grande dose di individualismo, che rende l’obbedienza
quasi impossibile. Il fatto è tanto più grave, quanto meno è cosciente…
Dinanzi ai propri diritti, al proprio progetto, alla realizzazione della
vocazione personale, non c’è niente da fare…»
- Il tipo di
comunità promosso da un modello liberale di vita consacrata è «uno
spazio di tranquillità, di rispetto mutuo, di personale benessere, di
star bene senza sentirsi scomodati. Per riuscire in questo si preconizza
il valore di comunità omogenee, formate da uguali; se questo non è
possibile, si fa ricorso al pluralismo e alla tolleranza… La cosa più
importante sarebbe la mancanza di conflitti, di scontri, o semplicemente
di diversità di vedute…»
- «Se la vita
consacrata non forma personalità robuste, uomini e donne di comunione,
che si prendono cura della vita gli uni degli altri (NMI, 43), non ha
ragione di esistere, perché la comunione vissuta e testimoniata è uno
degli elementi che la fanno significativa, luminosa ed evangelica».
Il cammino di
rinnovamento della vita consacrata dovrà coniugare in maniera seria i
cammini personali e comunitari, l’impegno di cittadinanza evangelica con
l’appartenenza a Dio, la consapevolezza dei “mali” che inquinano il
mondo e la coraggiosa denuncia in nome del Vangelo, la cura delle
relazioni fraterne e l’apertura ai grandi temi dell’umanità.
Identità, pluralismo,
dialogo, interculturalità sono sì parole nuove di cui assumere il
significato profondo. Ma sono soprattutto vocaboli da coniugare con
parole “antiche”: carisma, fede, carità, che esigono la via dell’umiltà,
del perdono, della preghiera, del primato di Dio nella nostra vita.
Ritmi diversi per una stessa melodia
Lo sappiamo bene
che la musica è questione di ritmo.
E sappiamo altrettanto
bene che la sinfonia comunitaria deve portare a unitarietà i ritmi di
molte persone. Il piccolo san Placido5
sapeva risolvere con un sorriso la questione delle finestre chiuse o
delle finestre aperte. Ma oggi il problema è più complesso: gli orari
dei pasti non coincidono, l’orario di lavoro è diverso; ci sono nella
stessa comunità persone che lavorano all’interno e all’esterno, che sono
vincolate con Enti pubblici; molti gruppi fanno attività dopo cena; i
consigli pastorali si incontrano sempre la sera. C’è chi va a dormire
quando altre si apprestano ad alzarsi.
L’esemplificazione
potrebbe continuare.
C’è la persona che
è puntuale e quella che è sempre in ritardo. C’è quella dell’ultima ora
sistematica e quella che deve arrivare in anticipo. C’è chi se la prende
a cuore e chi non si sposta neppure se crolla il mondo.
È questione di
ritmo. Ed è su questa differenza, iscritta nel dna delle persone
e delle comunità, che occorre fermarsi, quando ci si mette alla ricerca
di un nuovo stile di vita.
Per questo, provo a
tracciare alcuni apprendimenti che saranno indispensabili nei percorsi
formativi del futuro. In un tempo in cui tutti siamo in formazione
continua; in una cultura che chiede di concentrarsi sui saperi
essenziali6
per districarsi nella complessità, anche la vita consacrata fa i conti
con alcuni atteggiamenti che permettono di coniugare il progetto di vita
personale con la testimonianza della comunione.
Non ci si può
nascondere dietro l’alibi di “formazioni e culture diverse”; occorre
piuttosto individuare i denominatori comuni, gli atteggiamenti di fondo,
i criteri-guida attorno a cui costruire il percorso di conoscenza di sé,
la propria identità, come persone che fanno la scelta prioritaria di Dio
e intendono assumere il “segno” della vita comune.
Con questo, non si
intende, nella maniera più assoluta, omologare la vita, le esigenze, le
persone. Si indicano piuttosto alcuni nuclei formativi su cui riflettere
e che vanno declinati nelle varie età della vita.
Imparare un’identità “aperta”.
- Un
“io-bambino” si percepisce al centro dell’interesse di tutti. Non
sopporta di vivere ai margini. Gli serve, sempre, il primo piano. Una
vita da protagonista.
Solo crescendo si
impara che il mondo è complesso, che non sempre si ha ragione, che ci
sono modi di pensare diversi e non sbagliati. Solo chi ha un’identità
sicura non entra in crisi se deve fare marcia indietro su una decisione,
se è messa in minoranza, se cambia ruolo. È l’adulto, che impara a
riflettere sulla vita, che si accorge del mistero dell’altro e
dell’impossibilità di catalogare tutto: pensieri e scelte.
Imparare a
relativizzare i nostri giudizi è mettersi al riparo dal pericolo di
essere troppo sicure delle proprie conoscenze e delle proprie
percezioni. Ed è la consapevolezza che ciascuno di noi manipola in certo
qual modo le informazioni, le deforma su misura delle sue percezioni.
Solo tenendo conto
di queste dinamiche, la persona adulta che vive in comunità si dispone a
lavorare insieme con le sorelle, senza la pretesa che solo i progetti
che portano la propria firma siano intelligenti e creativi.
“L’io-adulto”
accetta il confronto. Non si perde, né entra in confusione se cambia
ruolo. Se sbaglia, accetta di ricominciare.
Sa fare i conti con
la propria intimità, con le proprie scelte profonde, anche se intorno
non trova il pieno consenso o il sostegno che vorrebbe. Sa sopportare la
fatica e l’esperienza della solitudine tanto quanto sa godere della
compagnia, dell’amicizia, dell’incontro.
Non si sente
vittima, né esige un piedestallo. Sa che esiste in ogni persona una zona
d’ombra che coesiste con una ricchezza e una luminosità altrettanto
certe.
La sicurezza sta
“nel cuore”, nelle ragioni profonde, nella fiducia, che dà allo sguardo
una capacità di comprensione che legge al di là di quello che si vede.
Il cammino verso la
maturità dell’io è lungo e si alimenta non solo con l’osservazione
“vigile” sui moti del proprio cuore, non solo con le strategie umane e
psicologiche che aiutano a trovare equilibrio nelle scelte, ma anche con
il discernimento spirituale, che porta a verificare davanti a Dio
l’onestà del proprio cammino e aiuta a togliere le maschere costruite
dal nostro io a sua difesa.
Ma guai a chi, per
difendersi dagli altri, vive sulle barricate tutta la vita. È destinato
all’infelicità.
Abbiamo piuttosto
bisogno di educarci a fare spazio dentro di noi all’altro,
incondizionatamente.
Imparare i tempi
del dialogo.
-
Paolo VI7,
parlando del dialogo, ne ha ricordato quattro caratteristiche, che
richiedono una speciale arte spirituale: la chiarezza, la mitezza, la
fiducia e la prudenza.
Oggi tutte noi
chiediamo più dialogo, molto ascolto, ma dimentichiamo, troppo spesso,
che il dialogo si costruisce con pazienza, nel tempo, imparando a
comprendere e riconoscere le persone. Non esiste una ricetta unica per
tutti: c’è chi capisce al volo, chi ha una logica ferrea, chi dimentica,
chi si infastidisce per le ripetizioni continue…
Il dialogo esige
l’ascolto attento, non un silenzio temporeggiatore che prepara la
risposta successiva.
Spesso noi vorremmo
affrettare i tempi e giungere velocemente alle decisioni che abbiamo in
testa. Invece i tempi delle persone sono diversi ed è lento il processo
di reciproca accoglienza e comprensione. La frenesia della vita
comunitaria deve fare i conti con spazi e luoghi di confronto e ricerca
intorno ai temi della comune missione, favorendo la conoscenza delle
motivazioni, approfondendo le divergenze di pensiero, superando i
conflitti inevitabili.
Ogni persona, nella
comunità, si deve predisporre al dialogo curando gli atteggiamenti
profondi, perché l’aggressività, i piccoli rancori, le invidie che si
annidano nei meandri della nostra sensibilità non diventino ostacoli
alla fiducia.
Iniziare un
incontro attaccando, od offendendo, rende il dialogo difficile e l’aria
irrespirabile. La parola rispettosa, il tono conciliante, la
disponibilità a cogliere il “buono” sono presupposti per incontri
fruttuosi in cui diventano possibili la ricerca del bene e la correzione
fraterna.
Imparare l’accordo.
-
Il dialogo, se
praticato con discernimento e con costanza, porta a trovare soluzioni
inedite e a smussare anche aspetti spigolosi del proprio carattere. In
fondo, ogni convivenza civile è frutto di mediazioni tra esigenze
diverse.
Noi, assumendo
anche la fede nel percorso di maturazione personale, chiamiamo
“comunione” l’arte del saper trovare l’accordo, al di là delle
differenze.
Nella Nuovo
millennio ineunte, Giovanni Paolo II8
ne parla in maniera molto concreta, superando la dicotomia tra crescita
spirituale e crescita umana. Per superare le dissonanze delle nostre
diversità, è decisivo allenarsi continuamente all’accoglienza. Allenarsi
al pensiero positivo è un impegno esigente della nostra formazione.
Comporta il non fermare l’attenzione in forma maniacale, a volte, sugli
sgarbi, sulle trasgressioni, sulle differenze. Esige la capacità di fare
spazio alle motivazioni della sorella, puntando sulle sue risorse
interiori e lasciando cadere tutto il resto.
Consapevoli delle
dinamiche comunicative che regolano i nostri rapporti interpersonali,
sappiamo che i problemi hanno soluzioni multiple, che i nostri cuori
possono essere vicini, anche se le nostre teste ragionano in maniera
diversa (Papa Giovanni).
Imparare la diversità.
- Le
nostre comunità sono sempre più multiculturali. La distanza è legata,
sì, alle culture di provenienza (nelle comunità internazionali), ma è
sempre più evidente anche la distanza di mentalità tra persone giovani e
meno giovani, tra chi ha fatto esperienze di avanguardia e chi ha svolto
sempre nello stesso posto un identico servizio.
Come vivere la
povertà, come intendere la presenza apostolica, come affrontare i
problemi dei giovani, il dialogo con il mondo, i temi scottanti dei
diritti umani, dell’ecologia, del rispetto della vita; come vivere la
sessualità e l’affettività, ma anche il lavoro, il sacrificio, la
preghiera… Su questi temi, nelle nostre comunità, si misura la distanza
culturale.
Non c’è una
risposta unica per tutto. Né è possibile imporre un’unica soluzione.
Non si tratta di
tatticismo per evitare conflitti.
La diversità, che
rende complessa anche la vita comunitaria, impone di ricercare la
comunione a livelli più profondi, rispetto al passato.
Oggi, occorre
individuare con chiarezza le poche cose che contano e concentrarsi
sull’essenziale, tracciato certamente nella Regola di vita.
L’esteriorità dei comportamenti. le dichiarazioni verbali non sono
l’unico criterio di valutazione della fedeltà.
La fedeltà si
misura piuttosto sull’amore con cui si rende testimonianza al Vangelo e
ci si fa “parola viva” del Signore Gesù.
Imparare il perdono.
-
L’esperienza del limite personale fa sì che ciascuna di noi debba
elaborare una strategia del perdono. Imparando ad accogliere e a
perdonare la zona d’ombra insita nella nostra creaturalità, dobbiamo
anche imparare a superare atteggiamenti di intransigenza nei confronti
degli altri, che vorremmo a nostra immagine e somiglianza. È una
tentazione sottile e sempre presente quella di voler incasellare gli
altri nel nostro modo di pensare e di comportarsi.
Alimentare
sentimenti ostili porta all’infelicità e a complessi persecutori
difficilmente sanabili. Il perdono è una vera e propria terapia. Non
solo un gesto “di fede”. Aiuta a ritrovare serenità e a crescere in
umanità.
Ognuna di noi può
impegnarsi a guarire le ferite del cuore, lenendole con l’olio della
tenerezza e della comprensione, alimentando pensieri di mitezza,
sradicando le piccole rivalità e vendette in agguato.
Ci sono sorelle
angosciate, che ricordano, a distanza di anni, i torti subiti. Li hanno
ingigantiti a forza di ripeterli, rivivendo emotivamente la rabbia.
Vivono una vita rancorosa che le inacidisce, le priva di fiducia e di
slancio, svuota anche la preghiera.
Così come ci sono
sorelle capaci di sollevare lo sguardo dopo un’offesa e ricominciare il
dialogo paziente e operoso. Il loro segreto? Oltre la fedeltà al
Vangelo, la capacità di non fermare l’attenzione sulle proprie ferite,
di sdrammatizzare, di usare la terapia del perdono che induce anche a
passi coraggiosi.
Chi alimenta in sé
la violenza difficilmente sa perdonare. Ma chi ha un cuore mite sa
ritessere la propria vita.
Imparare l’essenziale.
- Si ha
l’illusione, a volte, che moltiplicare le regole e i regolamenti
faciliti l’osservanza, il dialogo, il consenso comunitario. Invece, più
si moltiplicano le regole, più si moltiplicano i casi di eccezione.
Tanto più oggi in cui, a volte, l’orario è scandito dal ritmo delle
persone più anziane e non sul ritmo del piccolo gruppo che sostiene il
lavoro apostolico.
Imparare a
convergere sull’essenziale è, quindi, il frutto del discernimento,
chiamato a coniugare la flessibilità e la pluralità con la comunione. Ma
la comunione va cercata intorno alla missione apostolica più che
all’organizzazione dei tempi della vita.
L’essenziale è
sempre in profondità ed è per questo che in ogni carisma va ricercato
con pazienza, perché non sia tradito il dono permanente e la profezia di
fondazione.
È in profondità che
si riesce a trovare il difficile equilibrio tra scelta libera della
persona e scelta comunitaria, attraverso percorsi diversi.
L’esigenza di
concentrarsi sull’essenziale è dettata dalla complessità in cui siamo
immerse. I mille rivoli dei bisogni ci fanno correre il rischio della
dispersione e della rincorsa.
Conosciamo fin
troppo bene la pastorale dell’emergenza e i mille tamponamenti a cui
siamo esposte. Per questo sarà sempre più importante educarci
all’essenzialità, che ha lo sguardo sull’insieme della vita.
Una formazione
iniziale che punta sull’essenziale lascia certamente cadere molte
abitudini storiche, la precettistica, ma non può non incrociare le
esigenze della carità, la sobrietà e l’autodelimitazione dei bisogni, il
primato di Dio riconosciuto nell’obbedienza della fede.
Una formazione
continua che punta sull’essenziale, d’altro canto, aiuta a disincrostare
il carisma dalla consuetudine e a liberare la vita dal «si è sempre
fatto così».
Se l’unica cosa
necessaria è affermare con la propria vita la priorità di Dio, siamo
consapevoli che dentro il solco fecondo di un carisma, ognuna di noi è
chiamata a mettere le sue risorse di intelligenza e di amore e a
ricercare il sentiero più dritto che porta alla meta.
Conclusioni
Parlare di
pluralità di percorsi nell’unità del carisma e nella concretezza della
vita comunitaria è un discorso complesso. Le dinamiche psicologiche e
sociali si incrociano con quelle spirituali.
In fondo ogni
consacrata, che vuole fare della comunità il luogo in cui crescere, è
chiamata a mettersi in gioco, lasciando affiorare le ragioni più vere
della sua vocazione e impegnandosi a diventare ogni giorno più matura,
più consapevole, più credente.
I temi sfiorati
sono solo alcuni spunti per riflessioni più articolate perché ci aiutino
nel cambiamento.
Ne «Il dialogo
delle carmelitane» c’è una frase che mi ha colpito tantissimi anni
fa e che oggi comprendo a una profondità diversa. A Bianca de La Force,
la Madre dice: «Ricorda che non è la Regola a custodire te. Sei tu che
devi custodire la Regola».
Il nuovo stile di
vita delle nostre comunità è dentro questa capacità di “custodire” con
gioia e amore il dono del carisma, rendendolo fecondo e arricchendolo
con la fantasia della carità, seminata nel nostro cuore.
Abbiamo solo
bisogno che, per grazia, ci siano dati occhi per vedere la novità che
germina già in mezzo a noi.