n. 10
ottobre 2004

 

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La sinfonia dalle mille voci
Unità e diversità nelle comunità religiose

di Margherita Dal Lago *

 

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La vita religiosa nel cambio culturale

E' ormai imminente il convegno internazionale1 promosso dall’Unione dei Superiori e delle Superiore Maggiori sul tema: «Passione per Cristo, passione per l”umanità».

L’instrumentum laboris, scritto con l’apporto di molti Istituti di vita consacrata, analizza alcuni nodi problematici e lascia grande spazio alla ricerca intorno a un interrogativo cruciale, che da parecchi anni risuona nelle comunità: quale stile di vita per essere, oggi, presenza profetica?

Ci accorgiamo che le categorie con cui abbiamo risolto l’organizzazione comunitaria e la formazione sono “saltate”. Ci troviamo di fronte a problemi inediti. Occorre transitare verso il pluralismo culturale, la precarietà, un’evangelizzazione ripensata in un contesto di indifferenza.

Rileggendo la storia di fondazione di molti Istituti sorti sul finire dell’800 ci si accorge che le intuizioni carismatiche primitive sono state rigorosamente inquadrate in una visione “monastica” con un accento forte sulla regolarità della vita, scandita dalle “pratiche di pietà”.

Anche la formazione, al di là di alcune peculiarità, seguiva uno schema comune. Del resto la società era compatta, con stratificazioni stabili, con una religiosità cristiana, con espressioni popolari condivise.

La Chiesa contribuiva a dare stabilità e rifugio anche dal punto di vista sociale.

Questi parametri, da molti anni, non esistono più.

La società multiculturale e multireligiosa è un dato di fatto. Dall’ateismo o dall’anticlericalismo si è passati all’indifferenza nei confronti del sacro; si è fatta strada una religiosità soggettiva, individualistica, con conseguenze gravi sull’etica. Quando, infatti, il riferimento a Dio si allontana, tutto può accadere.

Lo Stato, inoltre, si è organizzato così da assorbire molti compiti e funzioni che, in passato, erano prerogativa dei religiosi/e, mettendo in crisi molte opere (ospedali, scuole, orfanotrofi…).

Le nostre comunità hanno dovuto ripensarsi. Oggi, si parla a ragione di rifondazione, perché il nostro tempo deve riesprimere con modalità totalmente nuove il carisma della vita consacrata.

 

Oltre gli stereotipi

«Io non posso cambiare. Sono fatta così… la mia formazione è diversa».

Parole così se ne sentono spesso. Sono l’alibi per acquietarsi nel tran-tran quotidiano, dentro la nicchia che ognuna di noi, tendenzialmente, si costruisce.

Invece, il tempo di una formazione “a stampo unico” è finito da un pezzo.

Molte cose, in realtà sono cambiate dal post Concilio: ci sono prospettive teologiche nuove, si è innalzato il grado di scolarità della donna, si sono moltiplicati gli scambi culturali.

Le nostre comunità, oggi, hanno una composizione variegata: poche sorelle giovani, molte anziane, con una fascia di persone mature che incidono notevolmente sulle scelte. Di più: in molti contesti, sorelle di nazionalità e culture diverse sono chiamate a esprimere lo stesso carisma e scelte condivise a partire da schemi mentali molto distanti.

La differenza è nel cuore stesso delle comunità: l’età, la cultura, la nazionalità, il lavoro, l’organizzazione dei tempi della vita mettono in crisi, quotidianamente, un modello di vita consacrata imperniata su orari comuni, pratiche e ritmi di vita uguali, percorsi formativi ed esigenze di qualificazione standardizzate.

La domanda che affiora è inquietante: che cosa fa di un gruppo di persone una “comunità”? Come si esprime l’appartenenza?

La ricerca su questo tema è tanto più urgente quanto più la vita comune si afferma come uno degli indicatori che affascinano maggiormente le giovani di oggi, quando si trovano di fronte alla scelta vocazionale.

Ma, spesso, è una vita comune idealizzata. Che compensa la paura della solitudine. Che svicola dalla fatica di costruirsi dentro dinamiche di fede. Che sublima la condivisione o la riduce a puro sentimento effimero.

 

Dallo spartito alla sinfonia

Le Costituzioni rinnovate sono il nostro spartito, scritto con amore e creatività. Ogni Istituto, dopo la ventata del Concilio, si è impegnato a studiare il carisma di fondazione, a ripulirlo dalle incrostazioni del tempo e a codificarlo, tenendo conto del dialogo nuovo con il mondo contemporaneo.

Ma avere uno spartito bellissimo non assicura una bella sinfonia.

Tradurre la nostra Regola di vita nelle scelte quotidiane comporta attrezzarsi per custodire la vigilanza del cuore, alimentare una carità senza confini, alimentare il perdono…

«Passare dall’io al noi» – per usare un’espressione ormai nota2 – è un compito mai finito. «Lo sforzo di costruire comunità meno formaliste, meno autoritarie, più fraterne e partecipate è uno dei frutti più evidenti del rinnovamento»3 ormai avviato.

Ma nel momento in cui ci si ferma a riflettere, balzano agli occhi lentezze, limiti, ostacoli, che a volte frenano l’entusiasmo. Richiamo alcuni rischi4 a cui le nostre comunità sono esposte.

-  «Se la vita consacrata interpreta se stessa dalla prospettiva dell’auto-realizzazione, ha perso la via del Vangelo… La cultura dell’autorealizzazione stravolge il discernimento comunitario: esso viene preso non tanto come un processo di distacco e di purificazione per sintonizzarsi con la volontà di Dio, ma come strategia per imporre una decisione personale, sovente già presa».

-   «Se la vita consacrata nega di essere segno visibile di qualcosa, allora che senso ha?». L’invisibilità e la voglia di normalità stanno modificando radicalmente abitudini, linguaggio, strutture. Come recuperare la “visibilità” evangelica, restando “in mezzo” alla gente?

-    «Oggi la necessaria preparazione professionale diventa sovente un pretesto per non essere disponibili alla missione. Stiamo perdendo la freschezza della disponibilità evangelica per diventare professionisti… Ma se la vita consacrata conta soltanto su dei professionisti della sanità, dell’educazione, dell’emarginazione, si deve pur ammettere che ha sbagliato».

-     «Si è introdotta una grande dose di individualismo, che rende l’obbedienza quasi impossibile. Il fatto è tanto più grave, quanto meno è cosciente… Dinanzi ai propri diritti, al proprio progetto, alla realizzazione della vocazione personale, non c’è niente da fare…»

-      Il tipo di comunità promosso da un modello liberale di vita consacrata è «uno spazio di tranquillità, di rispetto mutuo, di personale benessere, di star bene senza sentirsi scomodati. Per riuscire in questo si preconizza il valore di comunità omogenee, formate da uguali; se questo non è possibile, si fa ricorso al pluralismo e alla tolleranza… La cosa più importante sarebbe la mancanza di conflitti, di scontri, o semplicemente di diversità di vedute…»

-    «Se la vita consacrata non forma personalità robuste, uomini e donne di comunione, che si prendono cura della vita gli uni degli altri (NMI, 43), non ha ragione di esistere, perché la comunione vissuta e testimoniata è uno degli elementi che la fanno significativa, luminosa ed evangelica».

Il cammino di rinnovamento della vita consacrata dovrà coniugare in maniera seria i cammini personali e comunitari, l’impegno di cittadinanza evangelica con l’appartenenza a Dio, la consapevolezza dei “mali” che inquinano il mondo e la coraggiosa denuncia in nome del Vangelo, la cura delle relazioni fraterne e l’apertura ai grandi temi dell’umanità.

Identità, pluralismo, dialogo, interculturalità sono sì parole nuove di cui assumere il significato profondo. Ma sono soprattutto vocaboli da coniugare con parole “antiche”: carisma, fede, carità, che esigono la via dell’umiltà, del perdono, della preghiera, del primato di Dio nella nostra vita.

 

Ritmi diversi per una stessa melodia

Lo sappiamo bene che la musica è questione di ritmo.

E sappiamo altrettanto bene che la sinfonia comunitaria deve portare a unitarietà i ritmi di molte persone. Il piccolo san Placido5 sapeva risolvere con un sorriso la questione delle finestre chiuse o delle finestre aperte. Ma oggi il problema è più complesso: gli orari dei pasti non coincidono, l’orario di lavoro è diverso; ci sono nella stessa comunità persone che lavorano all’interno e all’esterno, che sono vincolate con Enti pubblici; molti gruppi fanno attività dopo cena; i consigli pastorali si incontrano sempre la sera. C’è chi va a dormire quando altre si apprestano ad alzarsi.

L’esemplificazione potrebbe continuare.

C’è la persona che è puntuale e quella che è sempre in ritardo. C’è quella dell’ultima ora sistematica e quella che deve arrivare in anticipo. C’è chi se la prende a cuore e chi non si sposta neppure se crolla il mondo.

È questione di ritmo. Ed è su questa differenza, iscritta nel dna delle persone e delle comunità, che occorre fermarsi, quando ci si mette alla ricerca di un nuovo stile di vita.

Per questo, provo a tracciare alcuni apprendimenti che saranno indispensabili nei percorsi formativi del futuro. In un tempo in cui tutti siamo in formazione continua; in una cultura che chiede di concentrarsi sui saperi essenziali6 per districarsi nella complessità, anche la vita consacrata fa i conti con alcuni atteggiamenti che permettono di coniugare il progetto di vita personale con la testimonianza della comunione.

Non ci si può nascondere dietro l’alibi di “formazioni e culture diverse”; occorre piuttosto individuare i denominatori comuni, gli atteggiamenti di fondo, i criteri-guida attorno a cui costruire il percorso di conoscenza di sé, la propria identità, come persone che fanno la scelta prioritaria di Dio e intendono assumere il “segno” della vita comune.

Con questo, non si intende, nella maniera più assoluta, omologare la vita, le esigenze, le persone. Si indicano piuttosto alcuni nuclei formativi su cui riflettere e che vanno declinati nelle varie età della vita.

Imparare un’identità “aperta”. - Un “io-bambino” si percepisce al centro dell’interesse di tutti. Non sopporta di vivere ai margini. Gli serve, sempre, il primo piano. Una vita da protagonista.

Solo crescendo si impara che il mondo è complesso, che non sempre si ha ragione, che ci sono modi di pensare diversi e non sbagliati. Solo chi ha un’identità sicura non entra in crisi se deve fare marcia indietro su una decisione, se è messa in minoranza, se cambia ruolo. È l’adulto, che impara a riflettere sulla vita, che si accorge del mistero dell’altro e dell’impossibilità di catalogare tutto: pensieri e scelte.

Imparare a relativizzare i nostri giudizi è mettersi al riparo dal pericolo di essere troppo sicure delle proprie conoscenze e delle proprie percezioni. Ed è la consapevolezza che ciascuno di noi manipola in certo qual modo le informazioni, le deforma su misura delle sue percezioni.

Solo tenendo conto di queste dinamiche, la persona adulta che vive in comunità si dispone a lavorare insieme con le sorelle, senza la pretesa che solo i progetti che portano la propria firma siano intelligenti e creativi.

“L’io-adulto” accetta il confronto. Non si perde, né entra in confusione se cambia ruolo. Se sbaglia, accetta di ricominciare.

Sa fare i conti con la propria intimità, con le proprie scelte profonde, anche se intorno non trova il pieno consenso o il sostegno che vorrebbe. Sa sopportare la fatica e l’esperienza della solitudine tanto quanto sa godere della compagnia, dell’amicizia, dell’incontro.

Non si sente vittima, né esige un piedestallo. Sa che esiste in ogni persona una zona d’ombra che coesiste con una ricchezza e una luminosità altrettanto certe.

La sicurezza sta “nel cuore”, nelle ragioni profonde, nella fiducia, che dà allo sguardo una capacità di comprensione che legge al di là di quello che si vede.

Il cammino verso la maturità dell’io è lungo e si alimenta non solo con l’osservazione “vigile” sui moti del proprio cuore, non solo con le strategie umane e psicologiche che aiutano a trovare equilibrio nelle scelte, ma anche con il discernimento spirituale, che porta a verificare davanti a Dio l’onestà del proprio cammino e aiuta a togliere le maschere costruite dal nostro io a sua difesa.

Ma guai a chi, per difendersi dagli altri, vive sulle barricate tutta la vita. È destinato all’infelicità.

Abbiamo piuttosto bisogno di educarci a fare spazio dentro di noi all’altro, incondizionatamente.

Imparare i tempi del dialogo. - Paolo VI7, parlando del dialogo, ne ha ricordato quattro caratteristiche, che richiedono una speciale arte spirituale: la chiarezza, la mitezza, la fiducia e la prudenza.

Oggi tutte noi chiediamo più dialogo, molto ascolto, ma dimentichiamo, troppo spesso, che il dialogo si costruisce con pazienza, nel tempo, imparando a comprendere e riconoscere le persone. Non esiste una ricetta unica per tutti: c’è chi capisce al volo, chi ha una logica ferrea, chi dimentica, chi si infastidisce per le ripetizioni continue…

Il dialogo esige l’ascolto attento, non un silenzio temporeggiatore che prepara la risposta successiva.

Spesso noi vorremmo affrettare i tempi e giungere velocemente alle decisioni che abbiamo in testa. Invece i tempi delle persone sono diversi ed è lento il processo di reciproca accoglienza e comprensione. La frenesia della vita comunitaria deve fare i conti con spazi e luoghi di confronto e ricerca intorno ai temi della comune missione, favorendo la conoscenza delle motivazioni, approfondendo le divergenze di pensiero, superando i conflitti inevitabili.

Ogni persona, nella comunità, si deve predisporre al dialogo curando gli atteggiamenti profondi, perché l’aggressività, i piccoli rancori, le invidie che si annidano nei meandri della nostra sensibilità non diventino ostacoli alla fiducia.

Iniziare un incontro attaccando, od offendendo, rende il dialogo difficile e l’aria irrespirabile. La parola rispettosa, il tono conciliante, la disponibilità a cogliere il “buono” sono presupposti per incontri fruttuosi in cui diventano possibili la ricerca del bene e la correzione fraterna.

Imparare l’accordo. - Il dialogo, se praticato con discernimento e con costanza, porta a trovare soluzioni inedite e a smussare anche aspetti spigolosi del proprio carattere. In fondo, ogni convivenza civile è frutto di mediazioni tra esigenze diverse.

Noi, assumendo anche la fede nel percorso di maturazione personale, chiamiamo “comunione” l’arte del saper trovare l’accordo, al di là delle differenze.

Nella Nuovo millennio ineunte, Giovanni Paolo II8 ne parla in maniera molto concreta, superando la dicotomia tra crescita spirituale e crescita umana. Per superare le dissonanze delle nostre diversità, è decisivo allenarsi continuamente all’accoglienza. Allenarsi al pensiero positivo è un impegno esigente della nostra formazione. Comporta il non fermare l’attenzione in forma maniacale, a volte, sugli sgarbi, sulle trasgressioni, sulle differenze. Esige la capacità di fare spazio alle motivazioni della sorella, puntando sulle sue risorse interiori e lasciando cadere tutto il resto.

Consapevoli delle dinamiche comunicative che regolano i nostri rapporti interpersonali, sappiamo che i problemi hanno soluzioni multiple, che i nostri cuori possono essere vicini, anche se le nostre teste ragionano in maniera diversa (Papa Giovanni).

Imparare la diversità. - Le nostre comunità sono sempre più multiculturali. La distanza è legata, sì, alle culture di provenienza (nelle comunità internazionali), ma è sempre più evidente anche la distanza di mentalità tra persone giovani e meno giovani, tra chi ha fatto esperienze di avanguardia e chi ha svolto sempre nello stesso posto un identico servizio.

Come vivere la povertà, come intendere la presenza apostolica, come affrontare i problemi dei giovani, il dialogo con il mondo, i temi scottanti dei diritti umani, dell’ecologia, del rispetto della vita; come vivere la sessualità e l’affettività, ma anche il lavoro, il sacrificio, la preghiera… Su questi temi, nelle nostre comunità, si misura la distanza culturale.

Non c’è una risposta unica per tutto. Né è possibile imporre un’unica soluzione.

Non si tratta di tatticismo per evitare conflitti.

La diversità, che rende complessa anche la vita comunitaria, impone di ricercare la comunione a livelli più profondi, rispetto al passato.

Oggi, occorre individuare con chiarezza le poche cose che contano e concentrarsi sull’essenziale, tracciato certamente nella Regola di vita. L’esteriorità dei comportamenti. le dichiarazioni verbali non sono l’unico criterio di valutazione della fedeltà.

La fedeltà si misura piuttosto sull’amore con cui si rende testimonianza al Vangelo e ci si fa “parola viva” del Signore Gesù.

Imparare il perdono. - L’esperienza del limite personale fa sì che ciascuna di noi debba elaborare una strategia del perdono. Imparando ad accogliere e a perdonare la zona d’ombra insita nella nostra creaturalità, dobbiamo anche imparare a superare atteggiamenti di intransigenza nei confronti degli altri, che vorremmo a nostra immagine e somiglianza. È una tentazione sottile e sempre presente quella di voler incasellare gli altri nel nostro modo di pensare e di comportarsi.

Alimentare sentimenti ostili porta all’infelicità e a complessi persecutori difficilmente sanabili. Il perdono è una vera e propria terapia. Non solo un gesto “di fede”. Aiuta a ritrovare serenità e a crescere in umanità.

Ognuna di noi può impegnarsi a guarire le ferite del cuore, lenendole con l’olio della tenerezza e della comprensione, alimentando pensieri di mitezza, sradicando le piccole rivalità e vendette in agguato.

Ci sono sorelle angosciate, che ricordano, a distanza di anni, i torti subiti. Li hanno ingigantiti a forza di ripeterli, rivivendo emotivamente la rabbia. Vivono una vita rancorosa che le inacidisce, le priva di fiducia e di slancio, svuota anche la preghiera.

Così come ci sono sorelle capaci di sollevare lo sguardo dopo un’offesa e ricominciare il dialogo paziente e operoso. Il loro segreto? Oltre la fedeltà al Vangelo, la capacità di non fermare l’attenzione sulle proprie ferite, di sdrammatizzare, di usare la terapia del perdono che induce anche a passi coraggiosi.

Chi alimenta in sé la violenza difficilmente sa perdonare. Ma chi ha un cuore mite sa ritessere la propria vita.

Imparare l’essenziale. - Si ha l’illusione, a volte, che moltiplicare le regole e i regolamenti faciliti l’osservanza, il dialogo, il consenso comunitario. Invece, più si moltiplicano le regole, più si moltiplicano i casi di eccezione. Tanto più oggi in cui, a volte, l’orario è scandito dal ritmo delle persone più anziane e non sul ritmo del piccolo gruppo che sostiene il lavoro apostolico.

Imparare a convergere sull’essenziale è, quindi, il frutto del discernimento, chiamato a coniugare la flessibilità e la pluralità con la comunione. Ma la comunione va cercata intorno alla missione apostolica più che all’organizzazione dei tempi della vita.

L’essenziale è sempre in profondità ed è per questo che in ogni carisma va ricercato con pazienza, perché non sia tradito il dono permanente e la profezia di fondazione.

È in profondità che si riesce a trovare il difficile equilibrio tra scelta libera della persona e scelta comunitaria, attraverso percorsi diversi.

L’esigenza di concentrarsi sull’essenziale è dettata dalla complessità in cui siamo immerse. I mille rivoli dei bisogni ci fanno correre il rischio della dispersione e della rincorsa.

Conosciamo fin troppo bene la pastorale dell’emergenza e i mille tamponamenti a cui siamo esposte. Per questo sarà sempre più importante educarci all’essenzialità, che ha lo sguardo sull’insieme della vita.

Una formazione iniziale che punta sull’essenziale lascia certamente cadere molte abitudini storiche, la precettistica, ma non può non incrociare le esigenze della carità, la sobrietà e l’autodelimitazione dei bisogni, il primato di Dio riconosciuto nell’obbedienza della fede.

Una formazione continua che punta sull’essenziale, d’altro canto, aiuta a disincrostare il carisma dalla consuetudine e a liberare la vita dal «si è sempre fatto così».

Se l’unica cosa necessaria è affermare con la propria vita la priorità di Dio, siamo consapevoli che dentro il solco fecondo di un carisma, ognuna di noi è chiamata a mettere le sue risorse di intelligenza e di amore e a ricercare il sentiero più dritto che porta alla meta.

 

Conclusioni

Parlare di pluralità di percorsi nell’unità del carisma e nella concretezza della vita comunitaria è un discorso complesso. Le dinamiche psicologiche e sociali si incrociano con quelle spirituali.

In fondo ogni consacrata, che vuole fare della comunità il luogo in cui crescere, è chiamata a mettersi in gioco, lasciando affiorare le ragioni più vere della sua vocazione e impegnandosi a diventare ogni giorno più matura, più consapevole, più credente.

I temi sfiorati sono solo alcuni spunti per riflessioni più articolate perché ci aiutino nel cambiamento.

Ne «Il dialogo delle carmelitane» c’è una frase che mi ha colpito tantissimi anni fa e che oggi comprendo a una profondità diversa. A Bianca de La Force, la Madre dice: «Ricorda che non è la Regola a custodire te. Sei tu che devi custodire la Regola».

Il nuovo stile di vita delle nostre comunità è dentro questa capacità di “custodire” con gioia e amore il dono del carisma, rendendolo fecondo e arricchendolo con la fantasia della carità, seminata nel nostro cuore.

Abbiamo solo bisogno che, per grazia, ci siano dati occhi per vedere la novità che germina già in mezzo a noi.

 

 

   

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