n. 10
ottobre 2004

 

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La libertà di Davide
Una riflessione sulla libertà nella vita secondo i consigli evangelici, a partire da una lettura della storia di Davide, consacrato "secondo il cuore di Dio"
di Gabriella Tripani*

 

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A casa di Iesse il Betlemita si svolge una liturgia familiare e solenne, un preambolo nascosto a una storia che si svelerà tutta dopo (1Sam 16,1-13). Con qualche resistenza Samuele si è recato a Betlemme sapendo di dover ungere un nuovo re. I candidati sfilano davanti a Samuele che sta in attesa di comprendere: è forse lui, è forse lui? Chi mai Dio vorrà consacrare?

Alzati e ungilo, è lui! Davide è il più piccolo, è fulvo, ha begli occhi, è gentile di aspetto… per quale di queste cose Dio ha scelto proprio lui?

A Samuele, perplesso per i criteri di scelta di Dio, Dio stesso risponde: L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore.

Dio non ha guardato quello che il mondo guarda, ma altro. E allora che cosa ha visto nel cuore di Davide?

«Ho trovato Davide figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore» (At 13,22). Nonostante tutte le sue debolezze, che la Scrittura non nasconde, a Dio piace Davide: è secondo il suo cuore.

Che cosa dunque gli è piaciuto? La piccolezza, la disponibilità a farsi guidare, lo slancio dell’amore, il cercare Dio prima di tutto il resto? Cosa gli è piaciuto di Davide?

Ancora ragazzo quando è stato consacrato, Davide sarà sempre amico di Dio, in un rapporto pieno di confidenza e semplicità. Anche nel limite e nel peccato, raccontati con tanta chiarezza, l’amore per Dio rimane in lui spinta dominante, ragione profonda nelle scelte, motivazione di ogni decisione.

Davide è spesso imprevedibile, sorprende chi gli sta attorno con le sue scelte. Sembra nascostamente educato da Dio alla sua logica. E mentre gli altri disapprovano o criticano o semplicemente non capiscono, intuiamo che a Dio piace questa originalità che viene da una comprensione più profonda dei gusti di Dio e sa già tanto di Vangelo.

Davide in particolare mostra una libertà singolare che colpisce e attrae: ama, obbedisce e dona con grande libertà.

E non è la castità libertà di amare, l’obbedienza libertà di lasciar fare, la povertà libertà di dare?

 

Castità è libertà di amare

L’armatura. - «Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e gli fece indossare la corazza. Poi Davide cinse la spada di lui sopra l’armatura, ma cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: “Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato”. E Davide se ne liberò» (1Sam 17,38-39).

Due versetti estremamente espressivi, proprio all’inizio della storia di Davide e della sua lunga amicizia con Dio: dicono che la forza di Davide è la sua fiducia in Dio e che non vuole altre difese che quella. Chi gli sta vicino si preoccupa per lui e vuole fornirgli protezione e garanzie. Davide ci prova, si lascia docilmente rivestire, ma capisce ben presto che non può funzionare. Non fa grandi discorsi, si scrolla di dosso l’armatura. Dice con semplicità: Non sono abituato e se ne libera. Con quelle difese non può camminare. Le difese gli tolgono la libertà del procedere, impacciano e ostacolano il passo.

L’armatura difende, ma blocca; rende sicuri, ma rigidi; offre protezione, ma a prezzo della libertà.

L’armatura può evitare ferite: non si è toccati da ciò che fa male. Ma neppure ciò che fa bene può raggiungere il cuore.

L’armatura nasconde la debolezza: il ragazzo giovane che era Davide con l’armatura di Saul probabilmente appariva guerriero forte e adulto. Ma appunto, “appariva”. La verità di Davide, la sua giovane debolezza, rimaneva nascosta. Chi indossa l’armatura, vuol sembrare forte, sicuro, superiore. Cerca di “sembrare”.

Invece l’amore preferisce essere come è, accetta di essere vulnerabile, sa essere debole. E allora chi ama soffre.

Anche noi potremmo domandarci, come Davide irrigidito nella corazza: ma riesco a camminare così? E qual è la mia armatura, l’armatura che tengo per proteggermi dalla minaccia che a volte sono gli altri, che tengo per sembrare forte e superiore a tutto, che dovrei togliere per amare tutti con libertà?

 

Mikal alla finestra

«Allora Davide trasportò l’arca di Dio nella città di Davide, con gioia (…). Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa di Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba. Mentre l’arca del Signore entrava nella città di Davide, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo (…). Quando Davide tornava per benedire la sua famiglia, Mikal, figlia di Saul, gli uscì incontro e gli disse: “Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!”. Davide rispose a Mikal: “L’ho fatto dinanzi al Signore che mi ha scelto… ho fatto festa davanti al Signore!”» (2 Sam 6,12-23).

Davide danza e salta con tutte le forze davanti all’arca. Esprime con libertà la sua gioia e in quella gioia c’è tutto il suo amore per Dio, che sente così vicino nell’arca che torna a Gerusalemme. Ma Mikal non capisce. Mikal disprezza un comportamento che sente non appropriato al ruolo. È un comportamento che svela l’interno, il cuore, la povertà. Davanti a Dio Davide non finge e non si maschera, si espone come è, si denuda. Questa è la parola dell’accusa di Mikal: “scoperto”, come un uomo da nulla. In fondo è la stessa immagine del passo precedente: Davide è di nuovo “scoperto”, prima ha lasciato l’armatura e ora le vesti solenni del ruolo.

Davide non si preoccupa dei giudizi altrui, delle aspettative degli altri che lo vogliono rigidamente inamidato. Non mi interessa, dice Davide, apparire in un ruolo che non mi lascia libero di esprimere il mio amore. Reagisce con forza affermando la sua priorità: Ho danzato per Dio. Ciò che fa lo fa per Dio, davanti a lui, e non per gli altri, agli occhi degli altri.

Mikal alla finestra, che guarda e critica, è il simbolo della nostra paura del giudizio altrui; è lo sguardo temuto degli altri che pesa sulla libertà dell’amore.

Ci sentiamo sotto lo sguardo di Dio o continuamente sotto lo sguardo critico degli altri? E quanto questo timore, la preoccupazione di noi stessi e della nostra immagine, condiziona il nostro amore? Abbiamo anche noi una Mikal alla finestra, che continuamente si sporge sul davanzale per controllare, pronta a disprezzare, a dire “sei come una persona da nulla”? Per questo ci rivestiamo, per non essere da nulla agli occhi degli altri, per valere di più? E Mikal c’è davvero o è sufficiente il nostro timore che ci sia, il “potrebbe esserci”?

 

Il profeta

«Allora Natan disse a Davide: “Tu sei quell’uomo! (…) Tu hai colpito di spada Uria l’Ittita, hai preso in moglie la moglie sua, e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti” (…). Allora Davide disse a Natan: “Ho peccato contro il Signore”» (2Sam 12,1-14).

«Fu riferito a Ioab: “Ecco il re piange e fa lutto per Assalonne” (…). Allora Ioab entrò in casa del re e disse: “Tu copri oggi di rossore il volto di tutta la tua gente, che in questo giorno ti ha salvato la vita (…), perché mostri di amare quelli che ti odiano e di odiare quelli che ti amano (…). Io ho capito che se Assalonne fosse vivo e noi fossimo quest’oggi tutti morti, allora sarebbe una cosa giusta ai tuoi occhi. Ora dunque alzati, esci e parla al cuore della tua gente!”. Allora il re si alzò…» (2Sam 19,6-9).

«Ma dopo che Davide ebbe fatto il censimento del popolo, si sentì battere il cuore e disse al Signore: “Ho peccato molto per quanto ho fatto; ma ora Signore perdona l’iniquità del tuo servo, perché io ho commesso una grande stoltezza”» (2Sam 24,10).

Occorrono questi passi nella storia di Davide per convincerci che il suo “io danzo per Dio”, che sfida gli sguardi alla finestra, non è presunzione, né certezza di non sbagliare mai, né rifiuto di tutte le critiche come se fossero infondate a priori.

Occorre il dialogo tra Davide e Natan all’indomani del peccato con Betsabea, il dialogo senza parole con Ioab il giorno della morte di Assalonne, il dialogo tutto interiore con Dio dopo il censimento, per integrare la libertà dal giudizio e dalle critiche con la libertà di saper accogliere giudizio e critiche.

Davide pecca, e non sono solo peccati trascurabili, imperfezioni. Ma si mostra libero di riconoscere il proprio errore. Ho peccato, riconosce con Natan, dopo l’adulterio e l’omicidio. Tacitamente cambia comportamento dopo i rimproveri di Joab, in seguito alla morte di Assalonne. È colpa mia, dice a Dio, dopo l’errore del censimento.

Davide si mostra libero dal bisogno di giustificarsi a tutti i costi, di incolpare altri, di negare l’errore. Avrebbe potuto dire che con Betsabea era stato solo un momento di debolezza, che le conseguenze poi lo avevano praticamente costretto a proteggere la propria immagine di re, e che aveva voluto evitare uno scandalo, in fondo per il bene del popolo. Avrebbe potuto dire che non intendeva uccidere Uria, che ci era stato quasi trascinato, che non lo avrebbe fatto se Uria fosse stato così ragionevole da andare a casa, senza fare l’eroe a tutti i costi, e dormire con sua moglie, cosa che non aveva voluto fare né da sobrio, né da ubriaco. Davide non si giustifica: accoglie la correzione e prontamente si dispone a comportarsi in maniera diversa.

La libertà nell’amore sa chiedere perdono, sa riconoscere gli errori, ammettere i fallimenti, accettare il limite, proprio perché è sicura dell’amore, che non si ferma davanti a nessun limite, fallimento o errore. «Il Signore ha perdonato il tuo peccato».

 

Il figlio Assalonne

«Figlio mio! Assalonne, figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!» (2Sam 19,1-5).

Nonostante le trame di Assalonne, nonostante il male che il figlio compie verso un padre che era sempre stato buono con lui, fin troppo buono, Davide continua ad amare come prima, come se niente gli fosse stato fatto, tanto che gli altri reagiscono e non capiscono. «Tu ami quelli che ti odiano e odi quelli che ti amano». In filigrana, lo scandalo degli operai nella vigna: «Perché lo stesso compenso a quelli che non hanno lavorato come noi, noi che ci siamo dati tanto da fare?» e la risposta del padrone: «Non posso fare quello che voglio delle mie cose?»; in filigrana, il figlio maggiore: «A me niente, tutto a lui che si è comportato male» e le parole del padre: «Ma tutto quello che possiedo è tuo, tu eri qui, lui era perduto».

Davide mostra un amore gratuito, anche nella non corrispondenza, nell’ingratitudine, nell’indifferenza, nell’ostilità altrui. Mostra un amore ingiusto.

Questa libertà di Davide che continua ad amare ci provoca. E noi sentiamo tutto lo scandalo e tutto il fascino dell’amore ingiusto, del coraggio di continuare ad amare e di amare fino in fondo, più di noi stessi, dei nostri diritti.

 

Obbedienza è libertà di lasciar fare

Non tocca a me. - «Davide e Abisai  scesero tra quella gente di notte ed ecco Saul giaceva nel sonno tra i carriaggi e la sua lancia era infissa a terra a capo del suo giaciglio (…). Abisai disse a Davide: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io lo inchiodi a terra con la lancia in un solo colpo e non aggiungerò il secondo”. Ma Davide disse ad Abisai: “Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?”. Davide soggiunse: “Per la vita del Signore, solo il Signore lo toglierà di mezzo o perché arriverà il suo giorno e morirà o perché scenderà in battaglia e sarà ucciso”» (1Sam 24,1-23; 1Sam 26,6-25).

«Allora Davide disse a tutti i suoi ministri che erano con lui a Gerusalemme: “Alzatevi, fuggiamo…”. Ecco venire anche Zadok con tutti i leviti i quali portavano l’arca dell’alleanza di Dio (…). Il re disse a Zadok: “Riporta in città l’arca di Dio! Se io trovo grazia agli occhi del Signore, egli mi farà tornare e me la farà rivedere insieme con la sua Dimora. Ma se dice: Non ti gradisco, eccomi: Faccia di me quello che sarà bene davanti a lui”» (2Sam 15,24-26).

«Simei maledicendo Davide diceva: “Vattene, vattene, sanguinario (…)”. Allora Abisai disse al re: “Perché questo cane morto dovrà maledire il re mio signore? Lascia che io vada e gli tagli la testa!”. Ma il re rispose: (…) “Se maledice è perché il Signore gli ha detto: Maledici Davide. E chi potrà dire: perché fai così? (…) Lasciate che maledica, perché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi”» (2Sam 16,5-13).

Non succede mai che Davide pensi che il Signore lo abbia abbandonato, neanche quando le cose vanno male. Ha fiducia: crede che il Signore sa bene cosa gli capita e perché. E allora non tocca a lui vendicarsi, a lui tocca solo restare fedele. Ci penserà Dio a fargli giustizia. «Io non lo farò, lo farà Dio», questa è la sua reazione quando gli altri, come al solito estranei al suo sentire di fede più profondo, gli consigliano di assumere la gestione di ciò che avviene.

In questa fiducia non uccide Saul, il nemico che vuole la sua morte.

In questa fiducia, lascia l’arca a Gerusalemme, preferendo rischiare, piuttosto che non affidarsi.

In questa fiducia Davide lascia che Simei lo maledica. «Se Dio gli ha detto di farlo…»

Gli altri non capiscono e vogliono fare giustizia.

Ma Davide non è interessato ad affermare i suoi diritti e la sua innocenza. Ci penserà Dio a difenderlo, a trasformare il male in bene. Quello che succede è per lui un invito ad obbedire, avviene perché lo vuole il Signore e il Signore è capace di intervenire, quando vorrà: non tocca a lui prendere il posto di Dio, a lui tocca seguire. Non cerca di convincere Dio a fare come vuole lui e sa accettare una certa insicurezza circa il futuro.

A volte è difficile lasciare a Dio la regia della nostra vita e prevale il desiderio di spiegare a Dio cosa deve fare per noi, fin nei dettagli. A volte abbiamo paura di essere usati, paura che gli altri facciano di noi quello che vogliono, e questa paura diventa resistenza ad obbedire.

Restare fedeli, sicuri che il Signore conduce la storia: questa è la libertà dell’obbedienza.

 

Povertà è libertà di dare

La cetra. - «Lo Spirito del Signore si era ritirato da Saul ed egli veniva atterrito da uno spirito cattivo, da parte del Signore. Allora i servi di Saul gli dissero: “Vedi, un cattivo spirito sovrumano ti turba. (…) Cercheremo un uomo abile a suonare la cetra.  Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio”. (…) Così Davide giunse da Saul e cominciò a stare alla sua presenza.  (…) Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui» (1Sam 16,14-23).

Davide è chiamato alla corte di Saul perché sa suonare bene la cetra: una dote che sembra secondaria rispetto ad abilità militari, intellettuali, di governo. Eppure è questa piccola cosa che porta sollievo a Saul, che è turbato e angosciato. Con molta semplicità, Davide mette il suo dono a disposizione, per consolare, rasserenare, fortificare. Suonare, fare, servire, per il solo motivo di far piacere all’altro: segno di una libertà grande dal risultato, dall’efficienza, dal calcolo.

La povertà non è solo fare economia. È anche offrire i propri doni per la gioia di donare e basta. Il suono di quella cetra risveglia un’attrazione per il gratuito, il semplicemente bello, l’inutile quasi.

Ciascuno di noi ha una cetra che consola e rallegra gli altri: si tratta solo di scoprirla e mettersi a suonarla, senz’altra ricompensa che vedere gli altri contenti.

 

Il palazzo di cedro

«Il re, quando si fu stabilito nella sua casa e il Signore gli ebbe dato tregua da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: “Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto una tenda”» (2Sam 7,1-3).

Davide si accorge che Dio è più povero di lui e vuole riparare. Vuole costruire un tempio per Dio, desidera fare qualcosa per Dio.

Il ragionamento che fa è: se possiedo, devo anche donare. Davide non tiene strette le sue ricchezze. Era un semplice pastore con pochissime cose; perseguitato da Saul, era fuggitivo sui monti senza possedere niente; ora che possiede vuole dare.

«Io abito in un palazzo di cedro!». È la gratitudine che nasce dall’accorgersi di quanto si è ricevuto e che diventa volontà di dono.

È interessante vedere come, quando Davide pecca, Dio parla del suo peccato in termini di mancanza di gratitudine. Non lo accusa di aver trasgredito ai comandamenti, di non aver osservato la legge. Gli dice invece: «Io ti ho unto re di Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa di Israele e di Giuda e se questo fosse troppo poco, io avrei aggiunto anche altro! Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore facendo ciò che è male ai suoi occhi?» (2Sam 12,7-10).

Il peccato di Davide è interpretato da Dio come ingratitudine. A Dio fa male la mancanza di riconoscenza che ha condotto Davide al peccato. «Non ti avevo dato abbastanza?», dice per bocca di Natan. «E perché non hai chiesto se ti mancava qualcosa?»

La mancanza di riconoscenza spinge a volere di più, a confrontarsi con gli altri, a sentirsi tristi o amari o risentiti, perché sembra di non aver ricevuto abbastanza.

Invece, la povertà consacrata non è preoccupata di ciò che manca, ma di donare ciò che ha.

Io abito in un palazzo di cedro! Il riconoscere quello che ha ricevuto diventa in Davide desiderio di condividere. Povertà non è solo non avere o avere molto poco, è libertà di condividere quel poco o tanto che si ha: che sia tempo, che siano soldi, doti o che sia un palazzo di cedro, e cioè uno spazio per Dio.

Se povertà è anche condividere lo spazio, la missione allora è la più grande espressione di povertà consacrata: lavorare, perché cresca in ciascuno quello spazio per Dio che si è aperto, per grazia, nella propria vita. Ogni nostro lavoro apostolico è accorgersi che viviamo in un palazzo e decidere di costruirne un altro, per fare spazio a Dio nel cuore delle persone che incontriamo.

 

Il costo

«Gad venne da Davide e gli disse: “Sali, innalza un altare al Signore sull’aia di Araunà, il Gebuseo”.  Davide salì, secondo la parola di Gad (…). Araunà disse: “Perché il re mio Signore viene dal suo servo?”. Davide rispose: “Per acquistare da te quest’aia e innalzarvi un altare al Signore, perché il flagello cessi di colpire il popolo”. Araunà disse a Davide: “Il re mio signore prenda e offra quanto gli piacerà! Ecco i buoi per l’olocausto; le trebbie e gli arnesi dei buoi serviranno da legna. Tutte queste cose, re, Araunà te le regala” (…). Ma il re rispose ad Araunà: “No, io acquisterò da te queste cose per il loro prezzo e non offrirò al Signore mio Dio olocausti che non mi costino nulla!”» (2Sam 24,18-25).

 

Davide riceve dal profeta l’indicazione di costruire un altare in una data località, per ottenere che cessi la peste che aveva colpito il popolo. Allora va per comprare quel terreno e il proprietario è disposto a cederlo gratis al suo re. Ma Davide non vuole, vuole pagare. Bellissima confessione del desiderio di dare: «Non offrirò a Dio qualcosa che non mi costi niente!»

Davide vuole che la sua offerta sia per lui costosa, vuole dare davvero. La sua povertà non è trovare cose a buon prezzo, girare di supermercato in supermercato per scoprire cosa costa di meno, ma è spendere per Dio.

Se interpretassimo con queste parole la nostra vita consacrata, ogni difficoltà e prova, ogni sofferenza e limite? «Non offrirò a Dio qualcosa che non mi costi niente!». Con Davide, saremo contenti se l’offerta che abbiamo fatto con la nostra consacrazione è a volte costosa.

Quando la fedeltà è difficile, invece di bloccarci, possiamo pensare che stiamo comprando il terreno per il Signore, perché sorga un altare.

La vita consacrata, un’iniziativa tutta del Padre (VC 17), profondità di un amore eterno e infinito che tocca le radici dell’essere (VC 18), libero di dono di Dio senza altre ragioni che quello che piace a lui.

Sì, Padre, perché così a te è piaciuto (Lc 10,21). È piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza (1Cor 1,21). E chi potrà dire, perché fai così? (2Sam 16,10).

Quando riusciamo a sentire tutta l’immotivata gratuità del suo amore
che sceglie e ama la nostra piccolezza,
allora cresce in noi il desiderio di piacergli,
semplicemente,
di essere secondo il suo cuore,
in questa nostra stessa piccolezza che egli ha amato.

  

*Missionaria dell’Immacolata – PIME

 

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