n. 12
dicembre 2001

 

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Il volto “ che a Cristo più somiglia
di Lilia Sebastiani

 

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Quando Dante si fa rivolgere da san Bernardo l’invito “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia” (Par. XXXII, 85-86), pensa in primo luogo proprio al volto umano di Maria; pensa che di solito il volto di una madre ricorda nei tratti e nell’espressione quello di suo figlio. Noi diremmo che il figlio assomiglia alla madre; in questo caso però dignità e trascendenza del Figlio sono tali da far sembrare irriguardosa la formulazione più consueta. Ovviamente Dante non è mosso solo da considerazioni naturalistiche e affettive, ma anche dalla riflessione teologica, che ai suoi tempi comincia ad assumere la forma a cui siamo abituati: Gesù e sua madre come uniche creature esenti dal peccato originale...

Anche oggi l’idea del volto che somiglia a Cristo più di ogni altro non ci lascia indifferenti, ma l’eco privilegiata che suscita nel nostro cuore è, in parte, diversa. Se guardiamo a Gesù di Nazaret come al prototipo della nuova umanità, sua madre Maria, donna vera con una vera storia interiore ed esteriore, donna nuova tra i due Testamenti, coopera all’irruzione del nuovo di Dio nella storia umana. Vi coopera proprio in quanto esiste, in quanto è una creatura umana e una madre; vi coopera con la sua autentica, creaturale fiducia in Dio, non fuori del tempo e dello spazio, non prefabbricata, non al riparo da dubbi, scoramenti e oscurità, ma autentica vicenda di fede umana in divenire.

Somigliare a Cristo è l’idea-guida nella spiritualità cristiana e nell’etica. Una volta si parlava piuttosto di ‘imitazione’ di Cristo: idea e termine fortunati, soprattutto in seguito all’opera omonima di Tommaso da Kempis. Oggi anziché di ‘imitazione’, dal suono più passivo ed estrinseco, si preferisce parlare, più evangelicamente, di ‘sequela’. Seguire Gesù, oggi come nei giorni della sua vita terrena, significa farsi suoi discepoli, mettere tutto il proprio essere al servizio della causa del Regno, prolungare l’opera di Gesù nella storia.

Modello del discepolato

Forse tutto quanto nei secoli è stato detto di Maria - in singolare contrasto con la sobrietà degli evangelisti a suo riguardo - aiuta a capire, più che Maria, coloro che elaboravano la sua immagine. Ciò vale sia per gli aspetti migliori della mariologia e del culto mariano sia per quelli meno felici. Aiuta inoltre a capire il modello di femminilità sottostante. Aiuta a capire meglio il tipo di Chiesa in cui un certo tipo di speculazione o di devozione si rendeva possibile e prendeva forma. In questo senso i cambiamenti che si sono determinati almeno a partire dal Concilio Vaticano II nel modo di vedere Maria esprimono anche il passaggio da un modello di Chiesa alquanto statico a un modello - non ancora del tutto visibile e operante, ma autentico - di Chiesa dinamica, solidale con la società umana in cui è inserita.

Nell’approccio cattolico, per molto tempo, nel discorso su Maria risultava predominante il modello dell’ancillarità. Il termine rimanda immediatamente all’Ecce ancilla Domini..., e, in seconda istanza, alle parole del Magnificat: Quia respexit humilitatem ancillae suae. L’una e l’altra frase erano interpretate anche giustamente, ma restrittivamente e a senso unico, solo come umile dichiarazione di disponibilità ai voleri di Dio.

Oggi, parlando di Maria, si preferisce come più autenticamente evangelico e più fecondo, il modello discepolare: cioè quello che in Maria scorge un modello, anzi un’anticipazione dei discepoli e delle discepole di Cristo. E’ questa soprattutto la prospettiva di Luca, che assume il tema del discepolato come una delle strutture portanti del suo vangelo.

La lettura discepolare è oggi ampiamente recepita, anzi teologicamente è prevalente, da quando ha avuto la sua ufficializzazione magisteriale con le due importanti encicliche mariane di Paolo VI (Marialis cultus, 1974) e di Giovanni Paolo II (Redemptoris Mater, 1987).

Come sottolinea suor Anne Carr, nota teologa femminista cattolica americana, le donne credenti oggi stanno recuperando Maria di Nazaret, dopo un periodo di relativa eclissi, reazione a certi eccessi del passato; la stanno recuperando come figura; stanno recuperando Maria di Nazaret nel suo ruolo umano, nel senso di un’autentica forza religiosa e liberante.1

 

Un genere inedito di maternità e filiazione

Nei Vangeli i passi che riguardano Maria sono pochi, ove si prescinda dai vangeli dell’infanzia, che hanno origine e intento teologico diversi dal resto della narrazione evangelica. Oltre che scarsi, sono fin troppo sobri e scarni rispetto a quanto ci piacerebbe sapere; quasi sempre, risultano anche abbastanza sconcertanti per il lettore ‘non iniziato’ plasmato da secoli e secoli di devozione mariana. Infatti Gesù parla poco a sua madre, parla poco di sua madre e, anche quando lo fa, sembra piuttosto rivolto a relativizzarne il ruolo di madre, anzi a prendere le distanze da lei, e talvolta anche in modo sbrigativo, un po’ brusco, che contraddice la nostra immagine piuttosto oleografica di Gesù o forse la nostra immagine di ‘figlio modello’.

Inutile porre ai vangeli domande di tipo puramente biografico o psicologico: esse sono votate all’insuccesso, forse perché sbagliate in partenza, scorrette nel metodo e nei presupposti; inoltre, ciò che è più grave, sono feconde di equivoci.

Con tutto ciò, vi è una considerazione che sempre più spesso si sente avanzare nelle riflessioni moderne, che merita di essere ricordata, quantunque possa sembrare troppo ‘moderna’ e occidentale, arrischiata e forse semplificatrice.

E’ ormai pacificamente accettata l’idea che per ogni essere umano di sesso maschile il rapporto con la figura materna risulta fondamentale e determinante, soprattutto in vista del rapporto che il figlio, divenuto adulto, stabilirà con le donne, con ogni donna. Per quel che riguarda il vissuto e l’atteggiamento di Gesù, uno degli aspetti che risaltano, secondo la testimonianza molteplice emergente dai Vangeli, è la trasgressiva novità del suo modo di porsi, così libero e inedito rispetto alle abitudini, allo stile di comportamento, agli schemi mentali invalsi nel suo tempo e nel suo ambiente. Forse in nessun altro campo la novità è così evidente come nei suoi rapporti con le donne. In un contesto culturale e religioso che può ben dirsi ‘animoso’ (nel senso junghiano) e sprezzante nei confronti del femminile, più ancora che delle singole donne, Gesù appare veramente come il modello supremo di uomo integrato e riconciliato.2

Così assoluta è la sua libertà, così forte e disturbante, allora e oggi, l’appello profetico contenuto nel suo agire, che gli stessi evangelisti hanno recepito il nuovo solo fino a un certo punto; nel restituirci poi quella novità, rivelano un certo imbarazzo e anche lo sforzo, probabilmente inconsapevole, di sfumare quella novità, di normalizzarla, anche per non sconcertare troppo i destinatari.

Così, soprattutto quando nei vangeli si parla di donne o quando parlano le donne, si devono studiare in trasparenza anche le lacune e le incertezze del racconto; si deve fare esegesi del silenzio, e questo ovviamente è sempre rischioso.

Non vogliamo avanzare congetture o improbabili spunti di impossibile analisi a proposito del tempo precedente alla vita pubblica e della dimensione intima e privata che i Vangeli non affrontano; ma come impedirci di pensare che un uomo di questa straordinaria libertà, un uomo giunto a integrare come pochi altri il femminile nel proprio modo di essere, dovesse aver avuto con la propria madre un rapporto inedito per qualità e libertà? E, per conseguenza, che anche sua madre dovesse essere una donna nient’affatto comune, almeno per quanto concerne l’apertura al nuovo di Dio?

La nostra cultura occidentale oggi insiste molto sul distacco dalla madre (in termini psicologici e non certo affettivi): un figlio che non riesca a realizzare il distacco dalla madre, è destinato a rimanere per tutta la vita, almeno in certi ambiti del proprio essere, in uno stato di infantilismo psicologico e spirituale. Lo stesso vale anche per una figlia; ma il legame di solito agisce in modo più forte sui figli maschi, come si è già ricordato.

Talvolta questo indispensabile distacco dalla madre viene inteso dagli studiosi in modo scorretto e ideologico, quasi come un trionfo del maschile - inteso come età adulta, forza, iniziativa, logos contro pathos, distanza dagli affetti... - sul femminile, arbitrariamente ridotto alla maternità, e questa deformata a sua volta nel ‘mammismo’: dunque attaccamento importuno e limitante, identificazione esclusiva con il corpo e la natura, emotività, affettività esclusivista, pathos senza logos…

In realtà il distacco dalla madre, indispensabile tappa del processo di crescita, implicherebbe qualcosa di ben diverso: non rottura, ma ricomposizione nel profondo, significa accogliere nel più profondo di sé ciò che la madre significa, “sviluppando la continuità e insieme la novità del suo essere figlio/a e persona unica”,3 e per questa via raggiungendo l’equilibrio affettivo, la capacità di essere in relazione.

 

L’ascolto e la risposta a Dio che chiama

Se si confronta il racconto dell’annuncio a Maria con quello dell’annuncio a Zaccaria, che si trova nello stesso capitolo del vangelo di Luca (1,5-25), si resta colpiti dall’evidente volontà dell’evangelista di stabilire una corrispondenza tra i due episodi, ma una ‘corrispondenza evolutiva’, cioè sottolineando costantemente la superiorità di quel che si riferisce a Maria.

Anche nel suo dialogo con l’angelo, nella sua domanda “Come è possibile questo?” (che, a differenza della domanda di Zaccaria, non esprime riluttanza a credere, ma bisogno di capire), e non solo nel suo fiat, Maria ci viene presentata come paradigma dell’ascolto; e l’ascolto è anche umanissima abitudine a riflettere. Non sufficiente forse a costituire l’ascolto di fede, ma necessaria.

L’ascolto è la prima caratteristica del discepolo di Cristo, e agisce su piani diversi. Ancora qualcuno lo intende come una realtà passiva, ricevente, mentre è una delle attività più creative, più trasformative che esistano e, se è vero, presuppone e genera libertà. Biblicamente parlando, si tratta sempre di ascolto di Dio, ma la voce di Dio risuona in più modi: attraverso la coscienza personale in cui parla lo Spirito, attraverso l’intelligenza, ma anche attraverso l’intuizione (che Hanna Wolff definisce “quella funzione di coscienza che coglie le possibilità”); attraverso i segni dei tempi; attraverso le persone che sono accanto a noi, e non necessariamente attraverso le migliori in termini umani a cui abbiamo accesso: infatti anche le persone più deboli, più povere in senso etico e spirituale, meno evolute e consapevoli, possono mediare una parola di Dio, aprire l’accesso a un ambito particolare delle intenzioni di Dio.

Letta nella giusta luce, la nostra vita intera è un tessuto di annunciazioni e ognuno di noi, per quanto numerose e gravi siano le sue personali debolezze, può ben essere in certe circostanze l’angelo dell’annunciazione di un altro.

E’ necessaria una fiducia senza riserve nel mistero di Dio che chiama, per avere il coraggio di lasciare spazio al nuovo che trasforma profondamente la situazione preesistente. Alle parole dell’angelo Maria risponde “Eccomi, sono la serva del Signore...”, e queste parole, come già accennato, sono state per lungo tempo recepite - pur con tanto amore e venerazione - in un senso spiccatamente ‘servile’, che è riduttivo e fuori luogo, accentuando in esse a senso unico l’umiltà e la docilità.

A parte il fatto che la sottomissione a Dio è assolutamente diversa dalla sottomissione a qualsiasi altra autorità terrena (è infatti l’unica sottomissione che, quanto più è profonda e totale, tanto più è liberante e sprigiona autonomia personale e originalità di risposta), la parola serva richiama qui la figura del Servo del Signore, nel libro del Secondo Isaia: il misterioso personaggio che salva il suo popolo attraverso l’accettazione di una sorte dolorosa. E’ un personaggio sofferente, non si ribella all’ingiusta sofferenza e alla malvagità umana che lo colpisce; eppure è tutt’altro che passivo, la sua funzione è regale e mediatrice, il suo carattere è messianico. A ciò si potrebbe aggiungere che l’iniziale “Eccomi” della risposta di Maria evoca le grandi chiamate della storia del popolo di Dio: la prova di Abramo, la vocazione di Samuele...

Da parte sua, quindi, il fatto di rispondere “Eccomi, sono la serva del Signore” significa collocarsi consapevolmente in continuità con la storia intera del popolo d’Israele di cui è parte, e accettare con naturalezza per sé un ruolo unico e fondamentale all’interno di questa storia. Il fatto di definirsi “serva del Signore” inoltre anticipa profeticamente uno stile rinnovato di rapporti all’interno della nuova umanità, fondato sulla centralità del reciproco servizio.

Il racconto dell’annuncio a Maria nel vangelo di Luca costituisce anche, secondo un’idea illuminante di L. Pinkus, un paradigma dell’individuazione-realizzazione.4

La risposta di Maria infatti denota un’autocoscienza di livello elevato, un’eccezionale disponibilità al cambiamento (che richiede senso di identità e autonomia), un profondo senso di creaturalità, una fiducia senza riserve e una consapevole scelta di affidarsi incondizionatamente a Dio.

Attraverso i secoli Maria è stata considerata modello privilegiato per le donne e associata a valori quali l’umiltà, la disponibilità, la verecondia e l’interiorità in ascolto - di solito troppo sbrigativamente ridotta al ‘silenzio’.

In quest’ultimo caso si tratta, è chiaro, di uno sviluppo ascetico-mistico, tuttaltro che disinteressato, dell’affermazione che ricorre due volte nel cap. 2 del vangelo di Luca, “Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”(vv. 19,51). “Nel suo cuore”: dunque - si presumeva - in silenzio, e questo silenzio, che è un dato teologico-spirituale, veniva indebitamente amplificato, fino a diventare un modus vivendi, e assolutizzato, fino a costituire quasi la cifra di un’esistenza intera.

A parte il fatto che il cosiddetto ‘silenzio di Maria’ nei vangeli è piuttosto il ‘silenzio su Maria’ da parte degli evangelisti, meditare nel cuore è un’espressione biblica spesso riferita ai giusti, uomini e donne, a quelli che sono soliti vivere alla presenza di Dio. Non vuol dire che la persona a cui si riferisce sia personalmente, caratterialmente taciturna, ma che è abituata a riflettere. E di solito chi è abituato a riflettere è capace sia di tacere sia di parlare, secondo quanto le circostanze richiedono, secondo quanto detta la coscienza illuminata dallo Spirito.

 

La Visitazione

Secondo Luca, Maria, appena accolto il mistero delle intenzioni di Dio, si mette in cammino a va a far visita alla sua parente Elisabetta, anche lei incinta perché “nulla è impossibile a Dio”. L’evangelista ha detto prima che Elisabetta, appena compreso il disegno di Dio che la riguarda, rimane nascosta per cinque mesi; Maria invece si alza in fretta e si mette in cammino.

Nei vangeli in genere e in quello di Luca in modo speciale, questa fretta è caratteristica dell’agire del discepolo. Non è solo umana disponibilità e sollecitudine: ha qualcosa dell’impazienza divina (che può convivere con la pazienza e la tenerezza di Dio) e dell’urgenza escatologica. Chi ha vissuto con forza l’incontro con il piano di salvezza di Dio non si chiude subito dopo in un’estasi solitaria, ma va e annuncia, poiché avverte la precisa e urgente responsabilità di recare agli altri il dono che ha ricevuto.

L’interpretazione tradizionale, sempre volta a leggere la femminilità come servizio e il servizio in termini prevalentemente materiali e assistenziali, diceva troppo spesso che l’intento di Maria nell’affrettarsi a far visita a Elisabetta era quello di prendersi cura della parente anziana e incinta. Senza voler escludere del tutto questa dimensione del ‘prendersi cura’ - che è pure essenziale nell’agire del discepolo, uomo o donna che sia, come nell’agire di Gesù stesso -, riconosciamo che vi è molto di più. Maria va da Elisabetta soprattutto per condividere con lei l’esperienza straordinaria del progetto di Dio accolto nella totalità del proprio essere. L’annuncio si impoverisce quando venga svuotato di questa dimensione relazionale e solidale.

 

Tra Fiat e Magnificat

Il vicendevole rendersi omaggio di Maria ed Elisabetta avvalora il contatto umano e nello stesso tempo è una celebrazione dialogata e potenziata dell’agire di Dio. L’incontro delle due madri culmina nel Magnificat.

Qui la creatura che parla si proclama umile e sottomessa a Dio, il quale “ha guardato l’umiltà della sua serva” e l’umiltà qui è l’umile condizione, la condizione creaturale, assai più e assai prima di una ‘virtuosa’ disposizione dell’animo; ma nello stesso tempo sovverte dalle radici ogni idea corrente e scontata dell’umiltà. “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata; grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. Maria assume consapevolmente il suo ruolo nell’agire di Dio, ciò che non è possibile senza un profondo senso di identità personale, senza una sana accettazione di sé.

Inoltre proclama qui che Dio riscatta gli oppressi e capovolge ogni criterio di giudizio terreno, ogni status quo. Sembra incredibile che tanto spesso il culto mariano sia stato adoperato nella storia, a fini tradizionalisti e immobilisti. Invece “Maria, donna profetica e liberatrice” è il titolo che Leonardo Boff dà al cap.12 del suo studio teologico-cristologico-pneumatologico sulla madre di Gesù.5 In contrasto con l’immagine tradizionale di Maria che accentuava, l’abbiamo detto, aspetti quali umiltà, mitezza, rassegnazione, riserbo e soprattutto silenzio, negli ultimi decenni è stato valorizzato in Maria con particolare intenzione l’aspetto profetico e sovversivo; e proprio a partire dal Magnificat.

Il modello di liberazione che si trova qui espresso da Maria non è di pura rivendicazione o di contrapposizione violenta: è un modello trasformativo. Le antitesi salvifiche dell’inno acquistano senso solo in una prospettiva di trasformazione continua della storia in cui agisce lo Spirito.

Il Magnificat può sembrare a tratti un canto di trionfo, a tratti quasi minaccioso, ma la sua sostanza profonda è la logica di un Dio materno, infinitamente solidale con il genere umano. E’ un canto di gioia e di speranza, carico di forte denuncia profetica: coscienza critica della storia in prospettiva escatologica.6

Come ogni grande testo di preghiera, come la vita di ogni vero discepolo, il Magnificat unifica la dimensione cosiddetta verticale e quella cosiddetta orizzontale. Rapporto con Dio e apertura al mondo, preghiera e impegno. E’ un inno e un proclama di solidarietà. Solidarietà in primo luogo con i poveri e gli oppressi, ma non solo. E’ soprattutto il canto gioioso e riconoscente della vicinanza, del coinvolgimento di Dio con il genere umano e delinea un inedito percorso di liberazione per ogni discepola/discepolo di Gesù proprio in virtù di questo forte senso di identità soggettiva che lo pervade e che non ha nulla di narcisistico. Il ‘senso di sé’ non è in conflitto con il ‘senso di Dio’; le due dimensioni si rafforzano vicendevolmente; così pure si incontrano e si avvalorano, senza confondersi, la libertà dai condizionamenti della storia e l’impegno nella storia.

Dice una teologa tedesco-olandese (Catharina Halkes) che ogni protesta volta alla liberazione è feconda solo in quanto si riesca a ‘pendolare’ tra Fiat e Magnificat: solo così la protesta può crescere fino ad acquisire carattere autenticamente profetico, senza chiudersi in una ideologia.7

L’interpretazione tradizionale del Magnificat è stata costantemente volta a spiritualizzarlo, ovvero a ridurlo nei confini di una spiritualità privatistica e intimista, fino a svuotarlo di tutto il suo contenuto libertario e sovversivo. Sappiamo ormai che parole quali spirito, spirituale, spiritualità e spiritualizzare sono così improprie e così fuori della logica redenta, quando si muovono in senso opposto alla logica dell’incarnazione.

 

A Cana: uno stimolo salvifico

Nell’episodio delle nozze di Cana, narrato nel quarto vangelo (Gv 2,1-11), Maria appare come una donna dotata di profetico senso dell’urgenza e di una penetrazione inedita del piano di salvezza, in un confronto non privo di qualche elemento di conflittualità, ma vittorioso, con l’uomo Gesù, il quale in questa fase sembra ancora trattenuto, all’inizio, in un’idea un po’ astratta e teorica della propria missione.

Dicendo “Non hanno più vino”, è come se Maria additasse misteriosamente l’insieme dell’esperienza di fede d’Israele nel Primo Testamento: un’esperienza straordinaria di comunione collettiva con Dio, che però adesso è esposta al rischio dell’osservanza formale, dell’esteriorità, della sterilità. “Non hanno più vino”, considerando la ricchezza dei significati simbolici che il vino assume nella Scrittura, è come dire “non hanno più vita”; o anche “non hanno più amore”.

Cana non è tanto un momento della vita di Maria come madre, quanto piuttosto un momento evolutivo della vita di Gesù; il racconto dell’evangelista va completamente in questo senso. Qui Maria influisce su tempi e modi della missione di Gesù e quasi, si potrebbe dire, sulla sua crescita nella fede, vincendo le resistenze che sono in lui. Lo fa con tranquilla autorevolezza, senza pregare, senza insistere, con una fiducia assoluta e, nella sua linearità, quasi sconcertante. Il suo agire appare nuovo e atipico: non è abituale che una donna prenda la parola in pubblico, che sostenga il proprio punto di vista nonostante la disapprovazione maschile (evidente nel “Che cosa ho da fare con te, o donna?”); ma soprattutto è nuovo perché, con le parole rivolte ai servi e con l’atteggiamento che adotta nei confronti di Gesù, assume di fatto una funzione autoritativa, che sembrerebbe più normale riferire alla figura paterna. Il suo intervento poi sollecita la manifestazione pubblica della missione profetica e salvifica di Gesù; e da queste funzioni autoritative nella sfera sociale e religiosa le donne erano rigorosamente escluse, in Israele come quasi ovunque. Maria travalica i confini del ruolo femminile tradizionale.

Anche se il quarto evangelista ci presenta qui Maria che ‘genera’ il figlio alla vita pubblica, per Maria la comprensione del destino di Gesù non appare come un dato acquisito pacificamente una volta per tutte. Per Maria il passaggio esistenziale da madre a discepola non dev’essere stato né facile né indolore.

 

Dare senso alla morte

Anche la presenza silenziosa di Maria sotto la croce, ricordata dal quarto evangelista (Gv 19,25-27), è una presenza discepolare: la parentela secondo il discepolato e quella secondo la carne, talvolta contrapposte nei vangeli, qui si ricompongono con l’affidamento reciproco di Maria e del discepolo. Ho sempre trovato molto significativo il verbo adoperato dal quarto evangelista a proposito di quelli che stavano sotto la croce di Gesù: eistèkeisan, in latino stabant. L’italiano ‘stavano’ è alquanto incolore e generico, il latino e il greco lo sono meno, almeno in quanto evocano lo stare in piedi. Di contro ai modi esagitati di manifestare il dolore e il lutto che erano diffusi nel mondo antico, e anche nella società giudaica ai tempi di Gesù, l’uso di questo verbo ci trasmette l’idea di un’insolita immobilità, dignitosa e piena di attenzione. Anche qui si può ritrovare la dimensione dell’‘ascolto’.

Attraverso i secoli, la devozione popolare (e non solo questa, se con ‘popolare’ si deve intendere in senso stretto la devozione dei semplici) ha esagerato nel caricare i toni emotivi dell’Addolorata: sappiamo bene che questa immagine mariana è stata cara alla pietà popolare più di ogni altra, forse allo stesso modo in cui il Cristo sofferente del venerdi santo è stato amato più del Cristo glorioso della Pasqua o dell’ascensione o della Parusìa. Un’umanità precaria e sofferente non poteva non sentire in questo modo.

L’Addolorata, che ci sembra figura così tradizionale, sarebbe da ripensare come icona di solidarietà e di trasformazione. Maria sotto la croce appare profondamente solidale da un lato con l’opera di salvezza che si sta realizzando nel mistero (e che è visibile in questo momento solo nella sua carica di scandalo, di sconfitta, di atrocità); solidale dall’altro con la sofferenza del mondo.

Il compito che interpella tutti gli uomini e le donne di oggi, e tanto più se credenti, e tanto più se credono in Gesù che ha vinto la morte, è anche quello di accompagnare la morte e darle un senso, anche quando si tratti di una morte ingiusta o assurda (ciò che non esclude l’impegno a lottare contro la morte come male e come ingiustizia umana in ogni modo possibile, anzi l’avvalora e l’ispira): “…l’impegno - che è di ogni persona che aspiri a un’identità compiuta - di imparare a svolgere una funzione materna di fronte al morire”.8 Forse un dovere primario dei discepoli del Regno è anche quello di aiutare il genere umano a riconciliarsi con la realtà della morte e a caricarla di senso. Senza questo arduo lavoro interiore è impossibile una comprensione vera e quindi una piena accettazione della vita, la quale tra l’altro è connotata e avvalorata dalla stessa provvisorietà.

Il cristianesimo ha ceduto talvolta alla tentazione del ‘dolorismo’, fino a dar l’impressione di adorare la croce più del crocifisso risorto, la sofferenza in se stessa, e non come strumento al servizio della vita: invece l’icona dell’Addolorata, mentre esprime solidarietà con tutta intera la vicenda di un’umanità sofferente, significa e anticipa la trasformazione finale della storia e del cosmo.

  

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