n. 3
marzo 2005

 

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Eucaristia: la sorprendente vicinanza di Dio
di Erminio Antonello, c.m.*

 

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In un contesto di parole “leggere”, a noi credenti è chiesto di custodire e ridare peso alle parole che narrano di Dio e del suo svelarsi alla nostra umanità. Fra le parole di Gesù, quelle sull’Eucaristia hanno maggiormente bisogno di essere protette dall’abitudine. Occorre sottrarle al degrado di una ripetizione svuotata di senso e di gusto, per rilanciarle e farle risuonare dentro alle anime. Quelle parole, infatti, sono state lasciate alla Chiesa con l’imperativo: Fate questo in memoria di me. E’ dunque un comando che deve risuonare come memoria, e quindi, nell’atto di essere ripetute, devono lasciar trasparire la Presenza a cui rimandano.

Sorge pertanto la domanda: come può essere vissuta l’Eucaristia in epoca di concentrazione antropologica? In un tempo, cioè, in cui il dogma può venir apprezzato per il suo riferimento alla condizione storica dell’uomo? Come possiamo testimoniare il dono prezioso dell’Eucaristia nelle nostre comunità consacrate? Sviluppiamo allora qualche riflessione sull’intima natura dell’Eucaristia ed il suo nesso con la nostra umanità.

  

Con-corporei con Cristo

Uno dei temi a cui il nostro tempo è maggiormente sensibile è quello della relazione interpersonale. L’uomo vive della relazione che positivamente stabilisce con l’altro. Le profonde insoddisfazioni della personalità umana dipendono in gran parte dalla delusione di rapporti ritenuti importanti, che si sono infranti. Ed ecco che l’Eucaristia ci porta all’interno di una relazione personalissima con Gesù Crocifisso Risorto che permane nella vita della sua Chiesa per il bene dell’uomo. Come per i discepoli di Emmaus egli viene, lungo i percorsi della storia, in cerca della nostra umanità, stabilendo quel rapporto che ci lega in un’amicizia senza confini. Come osservava sant’Agostino, Dio ha sentito nostalgia dell’uomo: per questo si è immerso nella sua creatura e continua a cercarla per ricreare con essa quel vincolo che il peccato aveva tentato e tenta di dissolvere unilateralmente. L’Eucaristia è il vincolo di un’amicizia, che strappa da ogni solitudine.

Nel dopo concilio è stata giustamente sottolineata la dimensione comunitaria dell’Eucaristia, e sta bene; ma occorre coniugarla con un aspetto altrettanto importante che è la dimensione personale dell’Eucaristia. Un giorno ebbi la fortuna di concelebrare l’Eucaristia con l’abbé Pierre, l’amico dei poveri e dei diseredati. Mi sorprese il gesto che egli compì dopo la consacrazione. Prima di alzare verso l’assemblea l’ostia consacrata la baciò con trasporto. Nel gesto intuii la profonda relazione che esisteva tra lui e quel sacramento che celebrava. L’Eucaristia possiede questa dimensione profondamente umana della relazione amicale. Con essa entriamo in quel rapporto con il nostro destino che ci definisce e rende lieta la nostra umanità.

A scanso di equivoci, va detto che l’Eucaristia è Gesù, non un “altro” Gesù, accanto a quello della storia. L’Eucaristia ci mette in contatto con il Gesù che si è incarnato, è morto ed è risorto. E grazie all’Eucaristia, ogni credente è attratto in Gesù, assimilandosi e conformandosi a Lui, in modo che il rapporto con Lui non resta relegato in un passato lontano, ma diventa un evento attivo e vitalizzante nel presente. E’ nell’Eucaristia che Gesù realizza la promessa: «Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20), in una intimità che ha scandalizzato e continua a scandalizzare.

La gente, e primi fra tutti gli intellettuali del tempo, si scandalizzarono quando Gesù disse che questo rapporto con Lui, mediante il “mangiare la sua carne” era la fonte della vita. E suscitò scalpore quando Pascasio Radberto1 coniò la felice espressione con cui esprimeva che nell’assumere l’Eucaristia il credente è reso “con-corporeo” con Cristo. Questo comunque è il significato antropologico più immediato del sacramento eucaristico: con esso il credente viene assimilato a Cristo secondo la dinamica espressa dal segno sacramentale del pane offerto e mangiato. Il credente nel cibarsi dell’Eucarista fa tutt’uno con Gesù: viene alimentato, sorretto, guarito in quanto è stretto con un legame vitale a Lui. «Come il Padre, il Vivente, ha mandato me ed io vivo per il Padre, così chi mangia di me vivrà per me» (cfr. Gv 6,58). E’ la promessa della vita eterna, quella vita che realizza la pienezza di rapporto con il proprio destino, e dunque la riempie di significato e di gusto.

Così nella quotidiana e paziente pedagogia dell’incontro con il sacramento eucaristico anche la nostra sensibilità umana tende a plasmarsi in un’autocoscienza il cui centro non è più la solitudine del nostro Io, ma la relazione con il Signore. Vivere da consacrati/e non può voler dire altro se non che la nostra autocoscienza si esplicita in una chiarezza sempre più lucida nell’appartenere a Colui di cui ci si ciba. Questa è la segreta sorgente della vita interiore, intesa non come vaga interiorizzazione senza oggetto, e quindi come una specie di ripiegamento “alla maniera orientaleggiante” su se stessi, ma piuttosto la storia di un rapporto di affezione profonda con Gesù, che si concede sempre più alla nostra umanità, fino al punto di dover dire, nella verità di noi stessi: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Questo d’altra parte è il vertice della richiesta di Gesù ai discepoli: «Rimanete in me!» (Gv 15,1-11), ripetuto, quasi a perdifiato, numerose volte in pochissime righe, per inculcare il metodo del dimorare in lui come condizione dell’agire efficace del credente: «Senza di me, non potete fare nulla!»( Gv 15,5). Nel “rimanere in Gesù” c’è dunque anche la sorgente del servizio e del proprio compito nel mondo. Che cosa, infatti, può sorreggere la fatica con le sue molte delusione e le poche gioie, se non la calda sicurezza di un’amicizia che accompagna ogni attività in un rapporto d’amore che, nella misura della sua vivacità interiore, mette energia e calore ai gesti, anche i più dolorosi e misconosciuti? Non c’è movimento umano positivo se non si attinge al pozzo profondo della nostra interiorità abitata dalla Presenza che riempie i vuoti e gli scacchi della vita.

 

Un’amicizia, principio di una nuova umanità

Quella che Cristo dà non è, dunque, una vita deprivata dell’umano, in senso spiritualistico, come se la ricchezza di vita donata da Lui debba essere distaccata dalla nostra corporeità, cioè dai nostri interessi umani, dalla fatica e dalla gioia quotidiana, dal gusto del rapporto con gli amici. In Gesù non c’è antitesi tra corpo e spirito, tra umano e divino: come se per essere spirituali occorresse sbarazzarsi del corpo. Anzi, si è incarnato proprio perché potessimo riprendere contatto con il nostro corpo, ossia con la pienezza concreta della nostra umanità, osservando, seguendo e imitando la sua umanità in azione. I discepoli vedevano Gesù agire umanamente e imparavano a gestire la loro umanità.

Nulla ci è proprio quanto il nostro corpo umano. In esso, grazie ad una intima unità con il nostro spirito, si esprime esteriormente la parte visibile della nostra personalità. Nella nostra cultura vi è un’esaltazione del corpo “usato” come laboratorio di soddisfazione, di godimento, di seduzione. E’ l’aspetto deviato di una società narcisista. Ma vi è anche il recupero del corpo come espressività e trasparenza della vita intima della persona, superando lo stato di esilio e di condanna a cui nei secoli è stato sottoposto. Il corpo è il volto espressivo della nostra interiorità. In esso confluisce la nostra storia, che vi si iscrive costituendo la nostra personalità. Così anche per l’umanità di Cristo, il suo corpo non è stato una semplice fuggitiva immagine di una presenza che si è dissolta: in esso Gesù ha impresso la sua storia e ora, glorificato, partecipa della vita divina, perché «in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9).

Se nell’Eucaristia Cristo dà il suo corpo, è se stesso che dà, con la sua storia e con tutta l’umanità che ha vissuto in questo nostro mondo. La offre attraendoci in un vincolo che unisce la nostra povertà alla sua grandezza. Abbracciati e assimilati a Lui è possibile anche per noi imparare ad essere come Lui. Come? L’interesse esclusivo di Gesù fu quello di fare la volontà del Padre, che implicava da una parte il vivere la vita non tenendola tra le mani proprie, ma ricevendola istante per istante dal Padre; e da un’altra, esigeva il mettere questa vita a disposizione del prossimo, come il Padre gli chiedeva, fino all’immolazione sulla croce. Vivere l’Eucaristia implica allora non un atteggiamento “devozionale”, ma un paziente cammino di sequela nel quale si abbia ad imprimere alla nostra umanità la stessa dinamica vissuta da Gesù nella sua umanità. Ultimamente, significa imparare a vivere la vita come offerta e come relazione con l’altro da sé.

Viene così in luce il profilo di verità della nostra umanità. Quel profilo che è stato offuscato con il peccato d’origine, quando l’uomo si è illuso di poter esistere senza la relazione con il Padre, in piena autonomia; ed ha finito per non riuscire più a entrare in rapporto con se stesso, con i fratelli e con le sorelle. Illusione adolescenziale che ogni generazione deve superare in se stessa, reimparando il percorso di verità della propria umanità.

Orbene, quando diciamo che Gesù ha dato «il suo corpo per noi», diciamo precisamente che è posto nella nostra storia il principio di liberazione per la nostra umanità. Perché la sua Persona si pone nella storia come inizio di libertà nell’amore. Infatti, la nostra umanità diventa se stessa in un processo di auto-dedizione e di dialogo. Se ci si rinchiude su di sé, ci si consuma. Cibandoci dell’Eucaristia, assimiliamo osmoticamente il paradigma dell’umanità autentica, perché l’Eucaristia è comunione con «Cristo che vive in noi» (Gal 2,20). La nostra personalità porta a compimento il proprio potenziale di vita alla sola condizione di trascendersi nel dono concreto di sé e nella relazione con il fratello o con la sorella, poiché l’offrire se stesso per amore è l’atto proprio dell’umanizzazione della persona.

Nell’Eucaristia, dunque, attraverso il processo di assimilazione spirituale con Gesù, veniamo, a nostra volta, lentamente condotti a stare in questo mondo secondo l’umanità di Gesù. Diventiamo capaci cioè di dedicare noi stessi agli altri per amore e di entrare in dialogo con i fratelli e le sorelle. Lo diventiamo non tanto per uno sforzo ascetico di volontà, ma per una grazia che ci conquista e ci mostra la gioia dell’uscire da sé e rapportarsi con l’altro/a. L’Eucaristia, cioè il Gesù della storia che nel sacramento raggiunge la nostra umanità, agisce in noi come principio operativo (o seme) che, nel dono del suo santo Spirito, affina la nostra sensibilità secondo la forma di Gesù, forma pienamente umana. Non si tratta evidentemente di un’operazione magica o miracolistica, ma di un cambiamento che non disdegna la lunghezza del tempo ed avviene per una osmosi intrinseca della grazia, che opera senza forzare la libertà della persona.

 

Sangue versato in remissione dei peccati

Il corpo di Cristo che è dato nell’Eucaristia è un “corpo sacrificato”. Il riferimento dell’Eucaristia alla croce di Gesù è sostanziale e intrinseco. Di fronte all’Eucaristia non siamo di fronte a una semplice simbologia tratta dall’universo dei simboli umani, che pure rispecchiano intuizioni vere dell’umanità che cerca di comprendere la propria esistenza. Nell’Eucaristia non viene semplicemente riportato alla memoria quello che già è presente nel cuore umano: e cioè che la vita, per essere vissuta in pienezza, deve essere sacrificata per amore. Naturalmente, in ciò vi è qualcosa di esatto, ma come in un secondo ordine di senso, che acquisisce significato soltanto quando diventa chiaro ciò che è primo ed originario.

E il punto originario è che il sacramento ci mette in contatto, attualizzandola nel nostro tempo, con la morte di Gesù sacrificata per amore. La sua vita nessuno gliela rapisce, egli la dà da sé, liberamente (cfr. Gv 10,17-18). Gesù non manda avanti gli altri sulla strada della Passione. Lui stesso in prima persona vi si espone per gli altri: «Chi cercate? … Se cercate me lasciate andare costoro»(Gv 18,8). Perché dare la vita e non trattenerla? Perché offrirla in sacrificio per altri e non semplicemente viverla nel tentativo di salvarla per sé? Perché non sfuggire al dolore e invece sottomettersi ad esso? Se Gesù e il Padre si fossero opposti a quella morte, ci sarebbe stata preclusa la rivelazione più intima della natura di Dio. Se il Figlio ha vissuto per amore in una dedizione che non si ferma di fronte alla morte, sfuggendo alla tentazione ostentatamente richiesta di esibire la propria potenza (cfr. Lc 23,35-39), e il Padre non si ferma di fronte al dolore del Figlio, significa che Padre e Figlio vivono solo di amore. E, quindi, che l’essenza della natura divina è l’amore che non trattiene nulla per sé, ma lo mette pienamente a disposizione. Come? Condividendo l’umano e scendendo in quella nudità in cui il peccato ha cacciato il cuore dell’uomo, in quella solitudine tombale che mortifica l’esistenza. Nel suo corpo martoriato, Gesù attira su di sé tutte le forme di violenza umana, e le fa come esplodere in sé lasciandosi torturare per evitare che ogni altro uomo venga umiliato e ferito. In tutto ciò è detta la suprema rivelazione di chi sia Dio. E in ciò è riscattato tutto il sospetto con cui l’uomo da sempre ha guardato a Dio, come a Colui che arretra nella tranquillità della sua divinità, lasciando l’uomo nella condanna del suo peccato. Invece no, l’amore sacrificato di Gesù scende nell’abisso dell’umana miseria per trasfigurarla nel proprio corpo glorificato, e così permettere il riscatto di ogni uomo.

L’Eucaristia ci mette a contatto con questo modo di agire e di essere di Dio, per diventare noi stessi capaci di condividere la sofferenza del fratello e della sorella.

In questo modo, nel passaggio dalla morte alla vita di Cristo, a cui si partecipa sacramentalmente nell’Eucaristia, è espresso anche l’autentico ordinamento che regge il mondo. L’ordine del mondo non risiede nel potere, ma nell’amore. Gesù è morto sulla croce mostrandoci che quel potere che intendeva farsi padrone della sua vita umana, illudendosi di cancellarla per sempre mediante la morte in croce, diventa perdente. Nella sua crocifissione non è il potere del mondo che vince, ma è l’amore di Dio che abbraccia l’uomo come suo figlio e lo attrae nella sua divinità. Per capire occorre ripercorrere la Passio Christi con gli occhi del bambino che si stupisce di ciò che accade. Il potere sfida Gesù: «Se sei Dio, scendi dalla croce e ti crederemo... Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso…» (cfr. Mc 15,29-32). Il miracolo, la cosa meravigliosa, è che Gesù non solo non scende dalla croce, ma proprio non vuole salvare se stesso. Fa esattamente il contrario di quello che ciascuno di noi avrebbe fatto. Mentre noi avremmo usato il potere per sottrarci all’umiliazione della croce, egli l’assume fino all’ultimo respiro: «Nelle tue mani affido la mia vita» (cfr. Lc 23,46), mostrando che nel tenace legame al Padre sta tutto il senso della nostra esistenza di figli.

Nell’Eucaristia, memoriale della Passione del Signore, è dunque espressa la vittoria di Cristo nella storia, perché introduce la nostra umanità nell’ordo amoris, che è propriamente la legge intima del Dio, Uno e Trino, rivelatasi nella totalità della vita di Gesù di Nazareth. Ci introduce però non lasciandoci né un semplice esempio, né dandoci una semplice istruzione di uso spirituale. Quindi, lasciandoci per così dire ancora ai bordi della vita. Nell’Eucaristia non c’è un insegnamento: c’è un Presenza. C’è Cristo. Certo, nella modalità sacramentale, poiché la nostra condizione storica non ha altro modo di attingere il divino se non nella via dell’efficacia misteriosa del sacramento, ma non per questo meno reale. Esattamente così come non è meno reale l’affetto per una persona che non si vede, eppure vivente nell’amore nutrito per lei. Nell’Eucaristia, in forza dello Spirito dell’Amore, avviene la nostra assimilazione a Cristo, partecipando della sua Passione e, quindi, restando coinvolti nel suo amore. Un amore che crea vicinanza e unità anche fra cose e situazione estreme. Nell’ordine dell’amore non si desidera meno di questo: assimilarsi, senza confusione certo, ma in una reciprocità senza riserve, diventando una “sola cosa” con l’essere amato.

Da simile unità scaturisce il nostro agire come servizio d’amore per il fratello e la sorella. Come consacrati e consacrate dovremmo ricordarci che siamo appartenenti a un Dio crocifisso, e che perciò non possiamo aspettarci granché come risultato mondano, tuttavia in noi si può sviluppare in maniera inaudita la capacità di amare la sorella e il fratello, in qualunque forma ci si presenti. A nostre spese, evidentemente. Ed è in questo che si attua il nostro discepolato di un Signore crocifisso. E come Lui anche noi, allora, possiamo interpretare la nostra esistenza come un cingerci il grembiule della carità (Gv 13,1-17) per servirlo nei poveri e negli afflitti.

 

Fare “corpo” con Cristo nella Chiesa

Vi è un altro aspetto. L’Eucaristia unendo il credente a Cristo, lo unisce anche agli altri fratelli e sorelle credenti. Di conseguenza, assimilati sacramentalmente a Lui, coloro che partecipano della medesima azione sacramentale entrano in unità tra loro. La Chiesa nasce così: non dal basso, come società organizzata dall’uomo, ma dall’alto, mediante la fede e i sacramenti della fede. La Chiesa si costruisce in forza del corpo di Cristo, nel senso che riceve attraverso l’Eucaristia la sua realtà propria di essere Chiesa della carità.

Qui siamo di fronte a un altro guadagno antropologico che l’Eucaristia ci propone: il guadagno di poterci scoprire in quell’unità tra fratelli e sorelle che il cuore sente come urgenza e la pratica esperimenta come difficoltà tale da sfiorare lo scetticismo circa la sua attuabilità. E’ esperienza comune il bisogno di unità. Le comunità consacrate ne sentono l’esigenza: la esprimono come desiderio e aspirazione e ne provano l’amara problematicità. Il mondo civile, pur avvolto da una globalizzazione generale, si trova immerso, nella vita concreta degli uomini del nostro tempo, in una solitudine a volte abissale, tale da essere, a giudizio di molti, all’origine di tanti mali dell’epoca. In quale modo allora sarà possibile tradurre questa esigenza del cuore nel concreto quotidiano? L’Eucaristia ce ne mostra la via.

Vivere l’Eucaristia implica, infatti, anche l’assunzione del mistero di comunione che essa instaura nel cuore umano. L’Eucaristia, essendo il sacramento del sacrificio redentore di Cristo, per sua natura è risanatrice di tutte le divisioni del cuore umano. La sua forza interiore è la forza dello Spirito del Risorto. E lo Spirito d’amore è sempre energia unificante. Risana i rapporti. Rinforza il desiderio di relazione con l’altro/a. Abbatte le barriere che la nostra paura tende a costruire, per difenderci dall’atavico timore che l’altro/a possa essere un invasore.

I discepoli, quand’erano soli, facilmente si dividevano ed entravano in conflitto: con la presenza del Maestro ritrovavano l’unità tra loro. Nella Pentecoste, lo Spirito del Risorto li plasmerà in modo da rendere il sentimento dell’unità come connaturato nel loro animo. Questa stessa dinamica si riproduce nelle nostre comunità. L’unificazione di storie, caratteri, sentimenti diversi non può avvenire semplicemente attraverso sforzi di concordia pur necessari, ma mediante un’operazione di tipo spirituale. Man mano che un gruppo di persone cammina nel rapporto con Cristo eucaristico, in questo gruppo è reso più facile il rapporto tra loro. A riguardo, ricordo un piccolo episodio della mia giovinezza. Ero studente in filosofia e non sopportavo un mio compagno per il suo modo arrogante di porsi. Un sottile rancore annebbiava i miei sentimenti nei suoi confronti. Ne parlai con il padre spirituale, il quale mi esortò ad iniziare un cammino di conversione. Facevo sforzi sovrumani per contenermi in un atteggiamento dignitoso con lui, ma la sensibilità irritata non accennava a placarsi. Dopo parecchi mesi, la cosa cominciò a preoccupare il padre spirituale, il quale improvvisamente cambiò rotta. Mi disse: domani osserva se il tuo compagno fa la comunione. Non mi sembrava vero. La richiesta del padre spirituale mi aveva ringalluzzito, poiché mi veniva affidato come un potere di sorveglianza su colui che mi appariva così insopportabile. La mattina successiva osservai e subito potei recarmi dal padre spirituale portando l’esito dell’osservazione. Ebbene, sì, anche lui aveva fatto la comunione. Al che, il padre spirituale mi fece una semplice osservazione. Quel Gesù che tu ami, al quale vuoi consegnare la tua esistenza, che hai ricevuto nell’Eucaristia, è diverso da quello che il tuo compagno ha accolto questa mattina? Rimasi di stucco. Non potei che rispondere nella verità. E quella verità nei giorni successivi continuò a rimbalzare nel mio animo, per cui mi trovai nella condizione o di negare l’impatto di Cristo in me o di cambiare l’atteggiamento verso quel compagno. In breve tutto si risolse. E questo non per uno sforzo, ma semplicemente per un rinnovato atto di fede verso quel Signore di cui ogni mattina io e il mio compagno ci cibavamo.

La presenza di Cristo nell’Eucaristia può realmente rappresentare uno scossone vitale alle nostre comunità di consacrati e consacrate. Può risvegliare in esse quella fraternità e sororità stentata che a volte le rende noiose. La condizione è di rendere maggiormente vigile la coscienza su questa sua Presenza. Poiché Egli è realmente tra noi. L’Eucaristia è precisamente questo stare con noi e in noi della sua persona amata. Vicinissima oltre ogni aspettativa. Ma noi dobbiamo dimorare presso di lui, perché troppo sovente la nostra coscienza è intorpidita e ha bisogno di essere ridestata a una fede più semplice e sincera. Il Signore ha voluto lasciarsi proprio toccare, perché la nostra umanità concreta fosse avvolta dalla sua forza di redenzione, secondo le parole di Agostino nel commento al Vangelo: «Non si va a Cristo camminando, ma credendo. Non si raggiunge Cristo spostandoci col corpo, ma con la libera decisione del cuore. Così quella donna che toccò un lembo della veste del Signore, toccò più che tutta la folla che lo schiacciava, tanto che il Signore domandò: Chi mi ha toccato? I discepoli stupiti, esclamarono: La folla ti preme d’ogni parte, e tu dici: chi mi ha toccato? Ma egli riprese: Qualcuno mi ha toccato (Lc 8,45-46). La donna lo tocca, la folla preme. Che significa toccare se non credere? Per questo, a quella donna che dopo la risurrezione si voleva gettare ai suoi piedi, disse: Non mi toccare: non sono ancora asceso al Padre (Gv 20,17). Come a dire: Tu credi che io sia soltanto ciò che vedi: non mi toccare. Che vuol dire? Vuol dire: tu credi che io sia solo ciò che appaio, non credere più così. Questo è il significato delle parole: Non mi toccare: non sono ancora asceso al Padre; cioè per te non sono ancora asceso, in quanto io non mi sono mai allontanato da lui. Se non poteva toccarlo mentre stava in terra, come avrebbe potuto toccarlo quando fosse asceso al Padre? In tal modo, con tale spirito vuole che lo si tocchi; e così lo toccano coloro che lo toccano con fede, ora che egli è asceso al Padre, ora che sta alla destra del Padre, essendo uguale al Padre»2. L’Eucaristia ci rimanda a questo mistero sorprendente della vicinanza di Cristo alla nostra vita.

 

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