In un contesto di parole “leggere”, a noi
credenti è chiesto di custodire e ridare peso alle parole che narrano di
Dio e del suo svelarsi alla nostra umanità. Fra le parole di Gesù,
quelle sull’Eucaristia hanno maggiormente bisogno di essere protette
dall’abitudine. Occorre sottrarle al degrado di una ripetizione svuotata
di senso e di gusto, per rilanciarle e farle risuonare dentro alle
anime. Quelle parole, infatti, sono state lasciate alla Chiesa con
l’imperativo: Fate questo in memoria di me. E’ dunque un comando
che deve risuonare come memoria, e quindi, nell’atto di essere ripetute,
devono lasciar trasparire la Presenza a cui rimandano.
Sorge pertanto la domanda: come può essere
vissuta l’Eucaristia in epoca di concentrazione antropologica? In
un tempo, cioè, in cui il dogma può venir apprezzato per il suo
riferimento alla condizione storica dell’uomo? Come possiamo
testimoniare il dono prezioso dell’Eucaristia nelle nostre comunità
consacrate? Sviluppiamo allora qualche riflessione sull’intima natura
dell’Eucaristia ed il suo nesso con la nostra umanità.
Con-corporei con Cristo
Uno dei temi a cui il nostro tempo è
maggiormente sensibile è quello della relazione interpersonale. L’uomo
vive della relazione che positivamente stabilisce con l’altro. Le
profonde insoddisfazioni della personalità umana dipendono in gran parte
dalla delusione di rapporti ritenuti importanti, che si sono infranti.
Ed ecco che l’Eucaristia ci porta all’interno di una relazione
personalissima con Gesù Crocifisso Risorto che permane nella vita della
sua Chiesa per il bene dell’uomo. Come per i discepoli di Emmaus egli
viene, lungo i percorsi della storia, in cerca della nostra umanità,
stabilendo quel rapporto che ci lega in un’amicizia senza confini. Come
osservava sant’Agostino, Dio ha sentito nostalgia dell’uomo: per questo
si è immerso nella sua creatura e continua a cercarla per ricreare con
essa quel vincolo che il peccato aveva tentato e tenta di dissolvere
unilateralmente. L’Eucaristia è il vincolo di un’amicizia, che strappa
da ogni solitudine.
Nel dopo concilio è stata giustamente
sottolineata la dimensione comunitaria dell’Eucaristia, e sta bene; ma
occorre coniugarla con un aspetto altrettanto importante che è la
dimensione personale dell’Eucaristia. Un giorno ebbi la fortuna di
concelebrare l’Eucaristia con l’abbé Pierre, l’amico dei poveri e dei
diseredati. Mi sorprese il gesto che egli compì dopo la consacrazione.
Prima di alzare verso l’assemblea l’ostia consacrata la baciò con
trasporto. Nel gesto intuii la profonda relazione che esisteva tra lui e
quel sacramento che celebrava. L’Eucaristia possiede questa dimensione
profondamente umana della relazione amicale. Con essa entriamo in quel
rapporto con il nostro destino che ci definisce e rende lieta la nostra
umanità.
A scanso di equivoci, va detto che
l’Eucaristia è Gesù, non un “altro” Gesù, accanto a quello della storia.
L’Eucaristia ci mette in contatto con il Gesù che si è incarnato, è
morto ed è risorto. E grazie all’Eucaristia, ogni credente è attratto in
Gesù, assimilandosi e conformandosi a Lui, in modo che il rapporto con
Lui non resta relegato in un passato lontano, ma diventa un evento
attivo e vitalizzante nel presente. E’ nell’Eucaristia che Gesù realizza
la promessa: «Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt
28,20), in una intimità che ha scandalizzato e continua a scandalizzare.
La gente, e primi fra tutti gli intellettuali
del tempo, si scandalizzarono quando Gesù disse che questo rapporto con
Lui, mediante il “mangiare la sua carne” era la fonte della vita. E
suscitò scalpore quando Pascasio Radberto1 coniò la felice
espressione con cui esprimeva che nell’assumere l’Eucaristia il credente
è reso “con-corporeo” con Cristo. Questo comunque è il
significato antropologico più immediato del sacramento eucaristico: con
esso il credente viene assimilato a Cristo secondo la dinamica espressa
dal segno sacramentale del pane offerto e mangiato. Il credente nel
cibarsi dell’Eucarista fa tutt’uno con Gesù: viene alimentato,
sorretto, guarito in quanto è stretto con un legame vitale a Lui. «Come
il Padre, il Vivente, ha mandato me ed io vivo per il Padre, così chi
mangia di me vivrà per me» (cfr. Gv 6,58). E’ la promessa della vita
eterna, quella vita che realizza la pienezza di rapporto con il proprio
destino, e dunque la riempie di significato e di gusto.
Così nella quotidiana e paziente pedagogia
dell’incontro con il sacramento eucaristico anche la nostra sensibilità
umana tende a plasmarsi in un’autocoscienza il cui centro non è più la
solitudine del nostro Io, ma la relazione con il Signore. Vivere da
consacrati/e non può voler dire altro se non che la nostra autocoscienza
si esplicita in una chiarezza sempre più lucida nell’appartenere a Colui
di cui ci si ciba. Questa è la segreta sorgente della vita interiore,
intesa non come vaga interiorizzazione senza oggetto, e quindi come una
specie di ripiegamento “alla maniera orientaleggiante” su se stessi, ma
piuttosto la storia di un rapporto di affezione profonda con Gesù, che
si concede sempre più alla nostra umanità, fino al punto di dover dire,
nella verità di noi stessi: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che
vive in me» (Gal 2,20). Questo d’altra parte è il vertice della
richiesta di Gesù ai discepoli: «Rimanete in me!» (Gv 15,1-11),
ripetuto, quasi a perdifiato, numerose volte in pochissime righe, per
inculcare il metodo del dimorare in lui come condizione dell’agire
efficace del credente: «Senza di me, non potete fare nulla!»( Gv
15,5). Nel “rimanere in Gesù” c’è dunque anche la sorgente del servizio
e del proprio compito nel mondo. Che cosa, infatti, può sorreggere la
fatica con le sue molte delusione e le poche gioie, se non la calda
sicurezza di un’amicizia che accompagna ogni attività in un rapporto
d’amore che, nella misura della sua vivacità interiore, mette energia e
calore ai gesti, anche i più dolorosi e misconosciuti? Non c’è movimento
umano positivo se non si attinge al pozzo profondo della nostra
interiorità abitata dalla Presenza che riempie i vuoti e gli scacchi
della vita.
Un’amicizia, principio di una nuova
umanità
Quella che Cristo dà non è, dunque, una vita
deprivata dell’umano, in senso spiritualistico, come se la ricchezza di
vita donata da Lui debba essere distaccata dalla nostra corporeità, cioè
dai nostri interessi umani, dalla fatica e dalla gioia quotidiana, dal
gusto del rapporto con gli amici. In Gesù non c’è antitesi tra corpo e
spirito, tra umano e divino: come se per essere spirituali occorresse
sbarazzarsi del corpo. Anzi, si è incarnato proprio perché potessimo
riprendere contatto con il nostro corpo, ossia con la pienezza concreta
della nostra umanità, osservando, seguendo e imitando la sua
umanità in azione. I discepoli vedevano Gesù agire umanamente e
imparavano a gestire la loro umanità.
Nulla ci è proprio quanto il nostro corpo
umano. In esso, grazie ad una intima unità con il nostro spirito, si
esprime esteriormente la parte visibile della nostra personalità. Nella
nostra cultura vi è un’esaltazione del corpo “usato” come laboratorio di
soddisfazione, di godimento, di seduzione. E’ l’aspetto deviato di una
società narcisista. Ma vi è anche il recupero del corpo come
espressività e trasparenza della vita intima della persona, superando lo
stato di esilio e di condanna a cui nei secoli è stato sottoposto. Il
corpo è il volto espressivo della nostra interiorità. In esso confluisce
la nostra storia, che vi si iscrive costituendo la nostra personalità.
Così anche per l’umanità di Cristo, il suo corpo non è stato una
semplice fuggitiva immagine di una presenza che si è dissolta: in esso
Gesù ha impresso la sua storia e ora, glorificato, partecipa della vita
divina, perché «in Lui abita corporalmente tutta la pienezza
della divinità» (Col 2,9).
Se nell’Eucaristia Cristo dà il suo corpo, è
se stesso che dà, con la sua storia e con tutta l’umanità che ha vissuto
in questo nostro mondo. La offre attraendoci in un vincolo che unisce la
nostra povertà alla sua grandezza. Abbracciati e assimilati a Lui è
possibile anche per noi imparare ad essere come Lui. Come? L’interesse
esclusivo di Gesù fu quello di fare la volontà del Padre, che implicava
da una parte il vivere la vita non tenendola tra le mani proprie, ma
ricevendola istante per istante dal Padre; e da un’altra, esigeva il
mettere questa vita a disposizione del prossimo, come il Padre gli
chiedeva, fino all’immolazione sulla croce. Vivere l’Eucaristia implica
allora non un atteggiamento “devozionale”, ma un paziente cammino di
sequela nel quale si abbia ad imprimere alla nostra umanità la stessa
dinamica vissuta da Gesù nella sua umanità. Ultimamente, significa
imparare a vivere la vita come offerta e come relazione con l’altro da
sé.
Viene così in luce il profilo di verità della
nostra umanità. Quel profilo che è stato offuscato con il peccato
d’origine, quando l’uomo si è illuso di poter esistere senza la
relazione con il Padre, in piena autonomia; ed ha finito per non
riuscire più a entrare in rapporto con se stesso, con i fratelli e con
le sorelle. Illusione adolescenziale che ogni generazione deve superare
in se stessa, reimparando il percorso di verità della propria umanità.
Orbene, quando diciamo che Gesù ha dato «il
suo corpo per noi», diciamo precisamente che è posto nella nostra storia
il principio di liberazione per la nostra umanità. Perché la sua
Persona si pone nella storia come inizio di libertà nell’amore. Infatti,
la nostra umanità diventa se stessa in un processo di auto-dedizione e
di dialogo. Se ci si rinchiude su di sé, ci si consuma. Cibandoci
dell’Eucaristia, assimiliamo osmoticamente il paradigma dell’umanità
autentica, perché l’Eucaristia è comunione con «Cristo che vive in noi»
(Gal 2,20). La nostra personalità porta a compimento il proprio
potenziale di vita alla sola condizione di trascendersi nel dono
concreto di sé e nella relazione con il fratello o con la sorella,
poiché l’offrire se stesso per amore è l’atto proprio
dell’umanizzazione della persona.
Nell’Eucaristia, dunque, attraverso il
processo di assimilazione spirituale con Gesù, veniamo, a nostra volta,
lentamente condotti a stare in questo mondo secondo l’umanità di Gesù.
Diventiamo capaci cioè di dedicare noi stessi agli altri per amore e di
entrare in dialogo con i fratelli e le sorelle. Lo diventiamo non tanto
per uno sforzo ascetico di volontà, ma per una grazia che ci conquista e
ci mostra la gioia dell’uscire da sé e rapportarsi con l’altro/a.
L’Eucaristia, cioè il Gesù della storia che nel sacramento raggiunge la
nostra umanità, agisce in noi come principio operativo (o seme)
che, nel dono del suo santo Spirito, affina la nostra sensibilità
secondo la forma di Gesù, forma pienamente umana. Non si tratta
evidentemente di un’operazione magica o miracolistica, ma di un
cambiamento che non disdegna la lunghezza del tempo ed avviene per una
osmosi intrinseca della grazia, che opera senza forzare la libertà della
persona.
Sangue versato in remissione dei peccati
Il corpo di Cristo che è dato nell’Eucaristia
è un “corpo sacrificato”. Il riferimento dell’Eucaristia alla croce di
Gesù è sostanziale e intrinseco. Di fronte all’Eucaristia non siamo di
fronte a una semplice simbologia tratta dall’universo dei simboli umani,
che pure rispecchiano intuizioni vere dell’umanità che cerca di
comprendere la propria esistenza. Nell’Eucaristia non viene
semplicemente riportato alla memoria quello che già è presente nel cuore
umano: e cioè che la vita, per essere vissuta in pienezza, deve essere
sacrificata per amore. Naturalmente, in ciò vi è qualcosa di esatto, ma
come in un secondo ordine di senso, che acquisisce significato soltanto
quando diventa chiaro ciò che è primo ed originario.
E il punto originario è che il sacramento
ci mette in contatto, attualizzandola nel nostro tempo, con la
morte di Gesù sacrificata per amore. La sua vita nessuno gliela
rapisce, egli la dà da sé, liberamente (cfr. Gv 10,17-18). Gesù non
manda avanti gli altri sulla strada della Passione. Lui stesso in prima
persona vi si espone per gli altri: «Chi cercate? … Se cercate me
lasciate andare costoro»(Gv 18,8). Perché dare la vita e non
trattenerla? Perché offrirla in sacrificio per altri e non semplicemente
viverla nel tentativo di salvarla per sé? Perché non sfuggire al dolore
e invece sottomettersi ad esso? Se Gesù e il Padre si fossero opposti a
quella morte, ci sarebbe stata preclusa la rivelazione più intima della
natura di Dio. Se il Figlio ha vissuto per amore in una dedizione che
non si ferma di fronte alla morte, sfuggendo alla tentazione
ostentatamente richiesta di esibire la propria potenza (cfr. Lc
23,35-39), e il Padre non si ferma di fronte al dolore del Figlio,
significa che Padre e Figlio vivono solo di amore. E, quindi, che
l’essenza della natura divina è l’amore che non trattiene nulla per sé,
ma lo mette pienamente a disposizione. Come? Condividendo l’umano e
scendendo in quella nudità in cui il peccato ha cacciato il cuore
dell’uomo, in quella solitudine tombale che mortifica l’esistenza. Nel
suo corpo martoriato, Gesù attira su di sé tutte le forme di violenza
umana, e le fa come esplodere in sé lasciandosi torturare per evitare
che ogni altro uomo venga umiliato e ferito. In tutto ciò è detta la
suprema rivelazione di chi sia Dio. E in ciò è riscattato tutto il
sospetto con cui l’uomo da sempre ha guardato a Dio, come a Colui che
arretra nella tranquillità della sua divinità, lasciando l’uomo nella
condanna del suo peccato. Invece no, l’amore sacrificato di Gesù scende
nell’abisso dell’umana miseria per trasfigurarla nel proprio corpo
glorificato, e così permettere il riscatto di ogni uomo.
L’Eucaristia ci mette a contatto con questo
modo di agire e di essere di Dio, per diventare noi stessi capaci di
condividere la sofferenza del fratello e della sorella.
In questo modo, nel passaggio dalla morte
alla vita di Cristo, a cui si partecipa sacramentalmente
nell’Eucaristia, è espresso anche l’autentico ordinamento che regge il
mondo. L’ordine del mondo non risiede nel potere, ma nell’amore.
Gesù è morto sulla croce mostrandoci che quel potere che intendeva farsi
padrone della sua vita umana, illudendosi di cancellarla per sempre
mediante la morte in croce, diventa perdente. Nella sua crocifissione
non è il potere del mondo che vince, ma è l’amore di Dio che abbraccia
l’uomo come suo figlio e lo attrae nella sua divinità. Per capire
occorre ripercorrere la Passio Christi con gli occhi del bambino
che si stupisce di ciò che accade. Il potere sfida Gesù: «Se sei Dio,
scendi dalla croce e ti crederemo... Ha salvato gli altri, non può
salvare se stesso…» (cfr. Mc 15,29-32). Il miracolo, la cosa
meravigliosa, è che Gesù non solo non scende dalla croce, ma proprio non
vuole salvare se stesso. Fa esattamente il contrario di quello che
ciascuno di noi avrebbe fatto. Mentre noi avremmo usato il potere per
sottrarci all’umiliazione della croce, egli l’assume fino all’ultimo
respiro: «Nelle tue mani affido la mia vita» (cfr. Lc 23,46), mostrando
che nel tenace legame al Padre sta tutto il senso della nostra esistenza
di figli.
Nell’Eucaristia, memoriale della Passione del
Signore, è dunque espressa la vittoria di Cristo nella storia, perché
introduce la nostra umanità nell’ordo amoris, che è propriamente
la legge intima del Dio, Uno e Trino, rivelatasi nella totalità della
vita di Gesù di Nazareth. Ci introduce però non lasciandoci né un
semplice esempio, né dandoci una semplice istruzione di uso spirituale.
Quindi, lasciandoci per così dire ancora ai bordi della vita.
Nell’Eucaristia non c’è un insegnamento: c’è un Presenza. C’è Cristo.
Certo, nella modalità sacramentale, poiché la nostra condizione storica
non ha altro modo di attingere il divino se non nella via dell’efficacia
misteriosa del sacramento, ma non per questo meno reale. Esattamente
così come non è meno reale l’affetto per una persona che non si vede,
eppure vivente nell’amore nutrito per lei. Nell’Eucaristia, in forza
dello Spirito dell’Amore, avviene la nostra assimilazione a Cristo,
partecipando della sua Passione e, quindi, restando coinvolti nel suo
amore. Un amore che crea vicinanza e unità anche fra cose e situazione
estreme. Nell’ordine dell’amore non si desidera meno di questo:
assimilarsi, senza confusione certo, ma in una reciprocità senza
riserve, diventando una “sola cosa” con l’essere amato.
Da simile unità scaturisce il nostro agire
come servizio d’amore per il fratello e la sorella. Come consacrati e
consacrate dovremmo ricordarci che siamo appartenenti a un Dio
crocifisso, e che perciò non possiamo aspettarci granché come risultato
mondano, tuttavia in noi si può sviluppare in maniera inaudita la
capacità di amare la sorella e il fratello, in qualunque forma ci si
presenti. A nostre spese, evidentemente. Ed è in questo che si attua il
nostro discepolato di un Signore crocifisso. E come Lui anche noi,
allora, possiamo interpretare la nostra esistenza come un cingerci il
grembiule della carità (Gv 13,1-17) per servirlo nei poveri e negli
afflitti.
Fare “corpo” con Cristo nella Chiesa
Vi è un altro aspetto. L’Eucaristia unendo il
credente a Cristo, lo unisce anche agli altri fratelli e sorelle
credenti. Di conseguenza, assimilati sacramentalmente a Lui, coloro che
partecipano della medesima azione sacramentale entrano in unità tra
loro. La Chiesa nasce così: non dal basso, come società organizzata
dall’uomo, ma dall’alto, mediante la fede e i sacramenti della fede. La
Chiesa si costruisce in forza del corpo di Cristo, nel senso che riceve
attraverso l’Eucaristia la sua realtà propria di essere Chiesa della
carità.
Qui siamo di fronte a un altro guadagno
antropologico che l’Eucaristia ci propone: il guadagno di poterci
scoprire in quell’unità tra fratelli e sorelle che il cuore sente come
urgenza e la pratica esperimenta come difficoltà tale da sfiorare lo
scetticismo circa la sua attuabilità. E’ esperienza comune il bisogno di
unità. Le comunità consacrate ne sentono l’esigenza: la esprimono come
desiderio e aspirazione e ne provano l’amara problematicità. Il mondo
civile, pur avvolto da una globalizzazione generale, si trova immerso,
nella vita concreta degli uomini del nostro tempo, in una solitudine a
volte abissale, tale da essere, a giudizio di molti, all’origine di
tanti mali dell’epoca. In quale modo allora sarà possibile tradurre
questa esigenza del cuore nel concreto quotidiano? L’Eucaristia ce ne
mostra la via.
Vivere l’Eucaristia implica, infatti, anche
l’assunzione del mistero di comunione che essa instaura nel cuore umano.
L’Eucaristia, essendo il sacramento del sacrificio redentore di Cristo,
per sua natura è risanatrice di tutte le divisioni del cuore umano. La
sua forza interiore è la forza dello Spirito del Risorto. E lo Spirito
d’amore è sempre energia unificante. Risana i rapporti. Rinforza il
desiderio di relazione con l’altro/a. Abbatte le barriere che la nostra
paura tende a costruire, per difenderci dall’atavico timore che
l’altro/a possa essere un invasore.
I discepoli, quand’erano soli, facilmente si
dividevano ed entravano in conflitto: con la presenza del Maestro
ritrovavano l’unità tra loro. Nella Pentecoste, lo Spirito del Risorto
li plasmerà in modo da rendere il sentimento dell’unità come connaturato
nel loro animo. Questa stessa dinamica si riproduce nelle nostre
comunità. L’unificazione di storie, caratteri, sentimenti diversi non
può avvenire semplicemente attraverso sforzi di concordia pur necessari,
ma mediante un’operazione di tipo spirituale. Man mano che un gruppo di
persone cammina nel rapporto con Cristo eucaristico, in questo gruppo è
reso più facile il rapporto tra loro. A riguardo, ricordo un piccolo
episodio della mia giovinezza. Ero studente in filosofia e non
sopportavo un mio compagno per il suo modo arrogante di porsi. Un
sottile rancore annebbiava i miei sentimenti nei suoi confronti. Ne
parlai con il padre spirituale, il quale mi esortò ad iniziare un
cammino di conversione. Facevo sforzi sovrumani per contenermi in un
atteggiamento dignitoso con lui, ma la sensibilità irritata non
accennava a placarsi. Dopo parecchi mesi, la cosa cominciò a preoccupare
il padre spirituale, il quale improvvisamente cambiò rotta. Mi disse:
domani osserva se il tuo compagno fa la comunione. Non mi sembrava vero.
La richiesta del padre spirituale mi aveva ringalluzzito, poiché mi
veniva affidato come un potere di sorveglianza su colui che mi appariva
così insopportabile. La mattina successiva osservai e subito potei
recarmi dal padre spirituale portando l’esito dell’osservazione. Ebbene,
sì, anche lui aveva fatto la comunione. Al che, il padre spirituale mi
fece una semplice osservazione. Quel Gesù che tu ami, al quale vuoi
consegnare la tua esistenza, che hai ricevuto nell’Eucaristia, è diverso
da quello che il tuo compagno ha accolto questa mattina? Rimasi di
stucco. Non potei che rispondere nella verità. E quella verità nei
giorni successivi continuò a rimbalzare nel mio animo, per cui mi trovai
nella condizione o di negare l’impatto di Cristo in me o di cambiare
l’atteggiamento verso quel compagno. In breve tutto si risolse. E questo
non per uno sforzo, ma semplicemente per un rinnovato atto di fede verso
quel Signore di cui ogni mattina io e il mio compagno ci cibavamo.
La presenza di Cristo nell’Eucaristia può
realmente rappresentare uno scossone vitale alle nostre comunità di
consacrati e consacrate. Può risvegliare in esse quella fraternità e
sororità stentata che a volte le rende noiose. La condizione è di
rendere maggiormente vigile la coscienza su questa sua Presenza. Poiché
Egli è realmente tra noi. L’Eucaristia è precisamente questo stare con
noi e in noi della sua persona amata. Vicinissima oltre ogni
aspettativa. Ma noi dobbiamo dimorare presso di lui, perché troppo
sovente la nostra coscienza è intorpidita e ha bisogno di essere
ridestata a una fede più semplice e sincera. Il Signore ha voluto
lasciarsi proprio toccare, perché la nostra umanità concreta fosse
avvolta dalla sua forza di redenzione, secondo le parole di Agostino nel
commento al Vangelo: «Non si va a Cristo camminando, ma credendo. Non si
raggiunge Cristo spostandoci col corpo, ma con la libera decisione del
cuore. Così quella donna che toccò un lembo della veste del Signore,
toccò più che tutta la folla che lo schiacciava, tanto che il Signore
domandò: Chi mi ha toccato? I discepoli stupiti, esclamarono:
La folla ti preme d’ogni parte, e tu dici: chi mi ha toccato? Ma
egli riprese: Qualcuno mi ha toccato (Lc 8,45-46). La
donna lo tocca, la folla preme. Che significa toccare se non
credere? Per questo, a quella donna che dopo la risurrezione si voleva
gettare ai suoi piedi, disse: Non mi toccare: non sono ancora asceso
al Padre (Gv 20,17). Come a dire: Tu credi che io sia
soltanto ciò che vedi: non mi toccare. Che vuol dire? Vuol dire: tu
credi che io sia solo ciò che appaio, non credere più così. Questo è il
significato delle parole: Non mi toccare: non sono ancora asceso al
Padre; cioè per te non sono ancora asceso, in quanto io non mi sono
mai allontanato da lui. Se non poteva toccarlo mentre stava in terra,
come avrebbe potuto toccarlo quando fosse asceso al Padre? In tal modo,
con tale spirito vuole che lo si tocchi; e così lo toccano coloro che lo
toccano con fede, ora che egli è asceso al Padre, ora che sta alla
destra del Padre, essendo uguale al Padre»2.
L’Eucaristia ci rimanda a questo mistero sorprendente della vicinanza di
Cristo alla nostra vita.