n. 3
marzo 2005

 

Altri articoli disponibili

 

English


Dalla minoranza alla minorità
di  Graziella Curti *

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Navigando su Internet attraverso un motore di ricerca, si trova che il termine minorità, nella sola lingua italiana, compare 283 volte. Per la maggior parte si riferisce allo stile di vita francescano, ma ci sono testi prodotti anche da altre realtà religiose e appare sempre più frequentemente, soprattutto dopo il congresso mondiale sulla vita consacrata. La realtà, che viene indicata da tale termine è molto diversa dal senso di minoranza, che significa quasi sempre un livello inferiore, un limite, un confronto perdente per numero o per forze.

Oggi, dato il calo delle vocazioni, le richieste sempre più impegnative che vengono fatte ai/lle religiosi/e, si sarebbe, forse, più propensi a viverle nell’atteggiamento di minoranza. Invece il Vangelo, attraverso le Beatitudini, ci insegna a fare della povertà, della crisi, del venir meno di tradizionali garanzie, un’opportunità inedita.

 

 Vivere il presente

Tutte le sfide sono nel presente e solo nella fedeltà a questo presente si possono affrontare. E’ tipico del povero, del minore, di chi ha qualche difficoltà non riuscire a pensare se non al presente.

In particolare, per noi sorelle italiane, quello presente è un tempo di transizione. Un tempo silenzioso, perché si descrive solo nel ritmo della quotidianità. E’ un tempo doloroso, lungo, perché ci sono state separazioni, lutti. La parabola dei nostri Istituti, in Italia, risente della trasformazione sociale, in qualche misura la rispecchia: dalla piccolezza intraprendente, con tanto impegno si sono edificate case e realizzate opere che hanno alimentato l’idea della grandezza. Oggi siamo private, volenti o nolenti, di certe sicurezze istituzionali: la garanzia della cura dell’anzianità, il rispetto, il sostegno del numero per le giovani, la stima sociale.

Veniamo destabilizzate, quasi costrette dalla realtà a un riconoscimento evangelico: non siamo autosufficienti, non siamo capaci di dare le risposte giuste. Abbiamo bisogno degli altri, dei giovani, della gente. Torniamo alla condizione del seme, del fermento. Non per annullare l’esperienza, ma per ricomprenderla nell’oggi.

E questo non vale solo per noi religiose, ma per tutta la società civile, che è ferita dalle migrazioni, da un’economia in crisi, dalla mancanza di lavoro e quant’altro.

Che cosa comporta, dunque, il vivere questo tempo nell’ottica della minorità?

Come risposta ricordo un fatto vero capitato a una giovane sorella vietnamita della mia comunità. Noi siamo solite andare, il sabato, a servire i poveri della mensa di S. Egidio in Trastevere. A questa suora è capitato di dover servire due amici a cui ha portato, per sbaglio, due secondi piatti differenti: pesce e carne. Uno degli ospiti, appena ha visto il pesce, ha detto che lui non lo mangiava. Si trattava di cambiare il piatto, ma subito l’amico ferma la suora e le dice: «Sorella, lo dia a me. Sono povero e prendo tutto quanto mi danno, non scelgo». La sorella vietnamita, tornando a casa, ha detto: «oggi ho imparato come dovrei vivere il voto di povertà».

 

Pazienza come passione

L’atteggiamento del povero è quello della pazienza, in alternativa al possesso. La pazienza s’impara. Non in una scuola, ma dalla vita stessa. E’ uno stile veramente diverso rispetto a quello della società contemporanea del tutto e subito, di chi non sa più aspettare, di chi s’impone con arroganza e arrivismo, di chi ha mille sicurezze. Accettare di non capire immediatamente. Accettare di stare ferme perché per vivere la transizione l’importante è restare.

Nell’ultimo raduno nazionale dell’USMI, le superiore d’Italia hanno guardato in faccia al fenomeno dell’invecchiamento abbinato alla crisi vocazionale, ma hanno saputo trovarvi un richiamo ad essere “ segno” in una società che esorcizza la vecchiaia, un’opportunità di “purificazione”.

E’ stato detto che nello stare fiorisce la massima dinamicità. Chi sa fermarsi sa essere pensosa.

Chi sa fermarsi è capace di riflettere, pazientare, andare alla radice delle cose, non lasciar scivolare via le esperienze dell’esistenza. Tenere la lampada in fronte come quella dei minatori.

La sfida trasversale che oggi ci insidia è quella della violenza. E non soltanto la violenza assurda della guerra preventiva, ma quella presente nelle biotecnologie, nel lavoro, nello sport, nell’informazione, nell’economia liberista, nella famiglia e nelle religioni.

Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano ora in Italia, tempo fa, dopo essere stato ospite di una comunità di religiose, come ringraziamento ha scritto una lettera che ci provoca. Lui che è uno dei più famosi operatori di pace, chiede: «Fateci conoscere quali metodi non violenti usate che vi permettono di vivere un’esistenza riconciliata, fateci sapere come disinnescate la spirale di violenza dentro di voi e tra di voi. E’ importante per noi che viviamo in un mondo violento. Fateci dono delle vie che voi usate per uscire da quella spirale violenta che porta ognuno, le nostre famiglie, le nostre comunità, le nostre nazioni, nel baratro della violenza apocalittica».

Essere attente, cioè pazienti nel leggere gli eventi, diventa un atto che ci trasforma da spettatrici in protagoniste.

Se siamo educatrici, o comunque donne di Dio, siamo chiamate a un nuovo magistero, a non camminare nella storia distratte, a interpretare, come Maria, gli eventi, facendoci aiutare anche dai laici, studiando.

E’ tipico di chi è povero chiedere aiuto, prima di tutto a Dio e poi alla comunità.

Ogni evento è un’annunciazione e non possiamo lasciarlo passare invano nella nostra vita.

Qualche tempo fa, a un gruppo di nuove superiore, chiedevo di fermarsi con la comunità sui fatti della vita, valutarli, approfondirli e accennavo al mercato delle armi, alla bioetica, alla tratta delle donne, ecc. Qualcuna ha obiettato che c’è poca preparazione nelle sorelle, che non possiamo pretendere la loro attenzione su tematiche che le superano. Certo, non è facile indagare in certi ambiti, perché comporta una dose di conoscenza scientifica, ma è proprio qui che la comunità dovrebbe funzionare come facilitatrice di comprensione e riflessione. Minorità non vuol dire ignoranza. Sottintende il reciproco potenziamento, il procedere insieme.

Minorità vuol dire, però, anche cambiare il proprio immaginario. Un tempo c’era un po’ troppo protagonismo nella vita religiosa. Il grande numero delle sorelle, le opere significative, le forze giovani, le grandi strutture. Ora è il tempo della potatura, della precarietà anche economica, per qualcuna, del non poter fare progetti a lungo termine. E’ proprio qui che si gioca il nostro voler essere vicine ai poveri, senza garanzie, per entrare a pieno titolo nella linea delle Beatitudini.

C’è un fatto vero che mi incanta e che concretizza lo stato di piccolezza a cui dovremmo tendere.

Qualche anno fa, alle paraolimpiadi di Seattle, nove atleti, tutti mentalmente o fisicamente disabili, erano pronti sulla linea di partenza dei 100 metri. Allo sparo della pistola, iniziarono la gara. Mentre correvano, un ragazzino cadde sull’asfalto e cominciò a piangere. Gli altri otto si fermarono e tornarono indietro. Una ragazza con la sindrome di Down si sedette accanto a lui e cominciò a baciarlo e a dire: «Adesso stai meglio?». Allora, tutti e nove si abbracciarono e camminarono verso la linea del traguardo. Tutti nello stadio si alzarono, e gli applausi andarono avanti per parecchi minuti. Persone che erano presenti raccontano ancora la storia.

 

Dalla facilità alla semplicità 

Accanto alla sfida della violenza, che esige da noi, come abbiamo detto, una pazienza attiva, c’è un altro idolo che affascina maggiormente le giovani generazioni: la facilità. Uno scrittore, che per fortuna dei suoi alunni continua a fare l’insegnante, Marco Lodoli, ha lanciato recentemente un grido d’allarme del tutto condivisibile: «Da troppo tempo viviamo sotto l’influsso di una divinità tanto ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave, ma che ha un becco così sottile e feroce da mangiarci il cervello. La Facilità è la dea che divora i nostri pensieri, e di conseguenza l’intera nostra vita».

Per chi lavora tra i giovani, a cominciare dai bimbi della scuola materna e non escludendo gli stessi membri della comunità religiosa e gli adulti, diventa necessario contrapporsi a questo idolo con lo stile della semplicità, che s’identifica con la minorità e, a detta dello stesso autore, è «una complessità risolta, è il miele prodotto dall’alveare, è il vino squisito che dietro di sé ha la fatica della vigna». Tutte immagini che richiamano attenzione, laboriosità, fedeltà quotidiana. E Marco Lodoli continua nel raccomandare: «La semplicità è l’obiettivo finale di ogni nostro sforzo: noi dovremmo sempre impegnarci affinché pensieri e gesti siano semplici, e dunque armoniosi e giusti».

La semplicità deve connotare tutta la nostra vita: dai progetti personali e comunitari alla preghiera; dall’organizzazione ai rapporti.

La pazienza come passione e la semplicità come sguardo trasparente, frutto di pensosità e impegno, sono le due categorie mentali che si possono tradurre in atteggiamenti, in gesti di vita.

 

Quale comunità?

Una delle risorse più significative e specifiche della vita religiosa è la comunità. E’ lì dove siamo chiamate a vivere il nostro quotidiano, dove il presente diventa tessuto di relazioni e risorsa per le sfide che incombono. Ma la comunità va guardata in faccia, va aggiornata l’idea che ce ne siamo fatta nel tempo, va vissuta nell’ottica della minorità.

Il cambio epocale ha toccato anche questa realtà. Certamente la caratteristica inscritta nella denominazione di comunità rimane salda, come dice pure Massimo Cacciari: «Non è infatti concepibile una comunità che si basi soltanto sul dare per avere, sulla remunerazione, in cui scompaia il munus (da comunità = cum-munus. ndr) e resti solo il remunerabile».

Ma ci sono anche novità che vanno considerate per essere realisti. Ci aiuta ad aprire gli occhi un gruppo di laici che scrive: «La comunità che desideriamo per i nostri polmoni non è più la comunità dei nostri padri. Ci separa una distanza incolmabile dal nostro passato prossimo. Un tempo la comunità era l’appartenenza a un mondo omogeneo, a un sistema di valori e richiami che si traduceva in una lingua utile a riconoscersi e a proteggersi… Ora non c’è più nulla di scontato, non c’è più alcun automatismo che ci tenga insieme. Oggi la comunità è intrinsecamente plurale e richiede scelte personali e consapevoli da parte di tutti i suoi partecipanti. Apriti cuore e be kind, sii gentile: bisogna ridirselo ogni mattina, appena si mette il piede giù dal letto. Altrimenti la comunità non ci sarà».

Questa visione laica non è lontana da quanto ci stiamo proponendo per vivere la spiritualità di comunione, per vivere la minorità evangelica che ci fa accettare l’altro per quello che è, come dono. Oggi le differenze sono molteplici perché ci si trova dinanzi a un salto generazionale fortissimo. Tutto è più accelerato e tutto è più multiculturale, soprattutto se pensiamo alla parrocchia, al quartiere in cui siamo inserite. Ma pure le nostre comunità presentano diversità al loro interno.

Scrive Maria Rossi, una religiosa psicologa: «Nelle nostre comunità non esiste l’omogeneità. Le suore che le compongono provengono da ceti sociali diversi, non possiedono gli stessi livelli di istruzione, hanno ruoli e si dedicano a professioni diverse, hanno forze, età, modi di vedere e di fare diversi. In mezzo alle diversità che formano la nostra ricchezza, i pregiudizi nascono e si ingrandiscono, creando malessere, difficoltà d’intesa e bloccando molte energie vitali. Riguardo al titolo di studio, per le une, quelle che hanno studiato non capiscono niente di cose pratiche, per le altre, non è possibile intendersi su alcuni argomenti. Riguardo all’età, un’anziana può pensare che una giovane non sia in grado di capire le cose essenziali della vita e, una giovane può pensare che un’anziana non possa capire i suoi atteggiamenti e tanto meno quelli dei giovani».

Un primo passo per giungere a superare i pregiudizi è ammettere a se stessi di averne. Un secondo passo è quello di far entrare il dubbio circa i nostri schemi mentali, a volte rigidi e legati esclusivamente al nostro modo di essere. La comunità è un sistema ecologico: vive e produce frutti attraverso l’armonia degli apporti diversi e lo scambio delle risorse. Non basta parlare di relazioni positive, è necessario progettare e costruire insieme tale ecosistema comunitario, anche tramite una buona e trasparente comunicazione. Solo chi conosce può partecipare. Solo chi conosce ama…

E’ proprio la comunità dove possiamo vivere il momento in amore. La comunità è la nostra sigla, la nostra parabola.

Anche lo strumento di lavoro della recente assemblea mondiale sulla vita consacrata si è attardato nella considerazione della comunità e l’ha vista come segno quando «si rispettano e promuovono le differenze di genere, di età, di cultura, di sensibilità. Essa stessa riesce in questo modo a cogliere meglio il pluralismo della società, a difenderlo e illuminarlo con saggezza evangelica».

 

Il profumo della gioia

Ritorno, a questo punto, sull’espressione iniziale: vivere il presente.

Ci sono due elementi in questa sintesi vitale. C’è l’attenzione al tempo, che è una delle categorie più rivoluzionate nella contemporaneità, dove tutto è fatto e visto in diretta. Il tempo corre troppo veloce.

Se invece gli riserviamo attenzione, non ci saranno buchi neri, spazi vuoti nella nostra giornata, momenti stressati o altro.

Un altro elemento importante è quello di viverlo in amore. Quando si è innamorate tutto si trasfigura, si tocca l’incanto, il profumo della vita, anche nelle situazioni più difficili. Nel congresso sulla vita consacrata ci hanno ripetuto che ci vuole passione in tutto quello che facciamo e siamo. Riporto, a questo proposito, una delle espressioni finali della relazione di Dolores Aleixandre: «La vita che avete abbracciato non è un modello etico, né un racconto fondatore, ma una passione, un’avventura, un rischio, un itinerario da percorrere con gli occhi e le orecchie aperti e in cui l’unica bussola che guida alla meta è quella della misericordia e della tenerezza».

Da qui nasce la gioia, che è il segnale del Regno. Il profumo che attira i giovani alla sequela del Signore Gesù. Enzo Bianchi cita un padre del quarto secolo, il quale dice che i giovani sono come i cani che vanno a caccia. Se i cani fiutano la lepre, allora continuano a cacciare fino alla fine. Se non sentono l’odore della lepre, allora si stancano e smettono. Se i giovani colgono in noi il profumo della gioia del Regno, allora continueranno fino in fondo.

* Figlia di Maria Ausiliatrice, esperta in comunicazione, spiritualità e formazione.

Torna indietro