n. 11
novembre 2005

 

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Il dominio di sé

di Anna Bissi *

 

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Il dominio di sé è forse oggi una virtù dimenticata. Raramente, infatti, ne sentiamo parlare, quasi che il praticarlo non sia importante per la crescita globale della persona. Anche il termine autocontrollo sembra non essere più così di moda e, benché i due termini non si equivalgano, i motivi per cui essi sono entrati in disuso si possono far risalire alle stesse cause, principalmente di ordine antropologico.

Il concetto di autocontrollo, infatti, presuppone implicitamente una visione dell’essere umano come persona che “deve”, “ha bisogno di” porsi dei limiti. Esso riconosce all’interno dell’individuo la presenza di tendenze istintive che necessitano un contenimento: le spinte contraddittorie, presenti nella nostra interiorità, non possono esprimersi liberamente, altrimenti l’individuo sarebbe incessantemente coinvolto in una lotta estenuante tra pulsioni contrastanti. Egli ha dunque bisogno di porre dei confini alle forze e ai dinamismi che lo abitano i quali, se non venissero controllati, finirebbero per trasformare il suo mondo interno in un caos o impedirgli di vivere relazioni interpersonali serene.

Le teorie psicoanalitiche mettono in risalto come il benessere della persona dipenda in gran parte dal raggiungimento di un equilibrio interiore; esso si acquisisce attraverso un saggio contenimento delle forze istintuali che, se incanalate verso scopi socialmente accettabili, permettono all’individuo di gratificare le proprie pulsioni, senza porre ostacoli a una sana convivenza civile. Così, per esempio, il soggetto aggressivo può indirizzare la sua collera verso attività che, nello stesso tempo, gli permettono di scaricare la tensione creata dalle sue tendenze istintive: potrà allora dedicarsi ad occupazioni quale quella del macellaio o addirittura del chirurgo, a mestieri o professioni con componenti aggressive, ma capaci di incanalarle in modo contemporaneamente controllato e socialmente utile.

Il presupposto antropologico di queste teorie ritiene che la persona trovi il proprio appagamento se è inserita in un ambiente in cui tutti fanno uno sforzo per contenere le proprie spinte interne a beneficio della collettività. L’autocontrollo, di conseguenza, è finalizzato a un benessere personale e sociale nello stesso tempo.

Nel contesto culturale attuale non risulta però così naturale coniugare simultaneamente benessere personale e benessere collettivo; al contrario, per paura che il secondo prevalga sul primo, la persona si sente in diritto di affermare la propria individualità, le sue esigenze, il diritto di essere ciò che è, senza curarsi degli altri. Per questo motivo, per esempio, quella stessa aggressività che un tempo si consigliava di sublimare, orientandola verso scopi socialmente accettabili, ora viene percepita come una forza da esprimere, da “scaricare”, così come è, nel momento in cui la si prova, senza preoccuparsi molto del suo effetto sugli altri. L’autocontrollo, di conseguenza, invece che strumento di crescita personale e mezzo di benessere individuale e collettivo, è da molti sentito come una gabbia, un contenitore paralizzante degli impulsi dell’individuo, una prigione per una psiche che, al contrario, ha il diritto di “sentire” ed “esprimere” in libertà.

 

Gettar fuori o sublimare?

Rispetto a queste due prospettive psicologiche, di cui la seconda sembra essere attualmente molto più di moda rispetto alla prima, qual è l’alternativa più “sana” per la persona desiderosa di vivere serenamente e in armonia con se stessa e con gli altri?

L’assenza di autocontrollo, oltre che tipicamente infantile, sembra, in ultima analisi, anche molto controproducente: essa rischia, infatti, di far prevalere le ragioni del più forte e di trasformare il mondo in cui si vive in una sorta di giungla, dove ha la meglio chi esprime nel modo più violento la propria istintualità. è quindi molto più proficuo imparare a contenere le pulsioni, orientandole verso un fine più valido e utile, che permetta alla persona di mantenere un certo benessere interiore, senza creare danno, ma arrecando invece dei vantaggi agli altri, oltre che a se stessi.

è difficile però pensare che un individuo, guidato semplicemente da forze istintuali, trovi la forza, la disponibilità, il coraggio di contenere gli impulsi, per incanalarli verso una direzione più appropriata o un bene comunitario.

Per parlare di vero autocontrollo, quindi, è necessario ampliare la propria concezione dell’uomo. Un effettivo e maturo controllo di se stessi richiede, infatti, almeno due requisiti fondamentali: l’acquisizione della capacità di non lasciarsi guidare unicamente dagli interessi personali, quegli stessi interessi che rischiano di motivare il nostro agire, e il riconoscimento delle forze che, con un termine forse semplicistico, possiamo definire come “negative”, presenti all’interno del cuore umano.

Il dominio di sé presuppone, infatti, la disponibilità ad andare al di là di ciò che Freud definiva come il principio del piacere, la spinta a soddisfare gli impulsi psicologici in modo istantaneo, al fine di ottenere un benessere immediato. Questo comportamento, tipico del neonato e del bambino, deve essere sostituito da criteri più adeguati, capaci di prendere in considerazione non solo l’istintualità della persona, ma anche le necessità degli altri, della società. Al principio di piacere si sostituisce così il principio di realtà, che dilata l’orizzonte dell’individuo, facendogli considerare, accanto a ciò che è appetibile, anche quanto è utile e proficuo.

 

Controllo di sé e dominio di sé

Il passaggio dal principio del piacere, dalla spinta immediata a gratificare le pulsioni, al principio di realtà, che induce a prendere in considerazione criteri più oggettivi rispetto al puro benessere personale, non è tuttavia sufficiente per definire un controllo di sé maturo. Il motivo per cui una persona decide di soprassedere alla soddisfazione dei propri bisogni psicologici può, infatti, trascendere il solo criterio di utilità sociale o di maggior benessere individuale. Io divento capace di limitare la mia insaziabile voglia di dolci, perché capisco che sarebbero dannosi per la salute; nello stesso modo riesco a mordermi la lingua, per non rispondere in modo maleducato alla consorella quando mi accusa di disturbarla con il rumore del mio silenziosissimo computer, solo perché non sopporta che io abbia a disposizione uno strumento che lei non sa usare o non può utilizzare. Mi trattengo ai fini di una buona convivenza, per evitare un conflitto, per cercare di non crearmi inutili guai.

Esistono però in noi motivazioni più solide, capaci di indurci a un controllo dell’impulsività. Esse non si basano su criteri di opportunità o di utilità, ma su un orientamento profondo dell’essere umano; in questo caso la persona non si limita a prendere in considerazione ciò che più piace o più conviene, ma vuole invece lasciarsi guidare dai valori, in particolare da quell’unico valore in grado di sintetizzare tutte le possibili motivazioni dell’agire umano: la carità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle.

In questa linea si pone una sana psicologia, i cui presupposti antropologici non contraddicono ma, al contrario, confermano la visione dell’essere umano proposta dalla fede cristiana. Essa ci permette di dilatare lo sguardo e di considerare l’autocontrollo non solo come effetto positivo dell’impegno delle nostre forze psichiche, capaci di contenere un’impulsività eccessiva, ma anche come frutto di una sinergia. Questo termine, tanto caro ai Padri della Chiesa, indica una collaborazione, una cooperazione tra l’azione dello Spirito santo e quella delle forze umane, orientate in un’unica direzione: la trasformazione dell’uomo, perché diventi sempre più fatto a immagine di Dio, sul cui volto interiore si riflettono i lineamenti del Figlio.

In quest’ottica il controllo della propria persona, necessità imprescindibile dell’essere umano, si configura come dono da accogliere e non solo come impegno da assumere. Il dominio di sé, ci dice san Paolo, è un frutto dello Spirito (Gal 5,22) ed è dunque risultato dell’opera che un Altro compie dentro di noi. Di conseguenza deve essere prima di tutto desiderato, percepito come una necessità, come un bisogno impellente; per questo motivo esso esige la disponibilità a riconoscersi peccatori, a confessare la propria debolezza e la presenza di zone oscure, incontrollate, mal orientate, nelle profondità del nostro essere. Il dominio di sé non è quindi una questione di opportunità, una necessità nata dalla convivenza sociale, di cui potremmo fare a meno se coloro che ci vivono accanto fossero disposti ad accogliere le nostre intemperanze. Esso è, al contrario, una questione di felicità: l’essere umano, infatti, ha bisogno di mettere ordine nel suo mondo interiore, poiché la dispersione e la frammentazione gl’impediscono di diventare ciò che è chiamato ad essere, di realizzare quell’immagine che costituisce la sua vocazione unica e personale e il compimento di ogni sua aspirazione profonda.

 

Lo Spirito santo, creatore di armonia

Se il dominio di sé è un frutto dello Spirito santo, possiamo allora pensarlo come effetto di un agire armonioso e non come un contenimento, un’imposizione, tanto meno come un freno o una limitazione di forze positive. Lo Spirito, infatti, non ingabbia, ma armonizza. Nel primo capitolo della Genesi lo vediamo librarsi sulle acque, mentre il caos si trasforma in cosmo, in un’opera buona e bella, che il Creatore contempla con gioia e ammirazione. Questa stessa opera Egli la compie in noi, trasformando il “guazzabuglio” del nostro cuore in uno spazio ordinato, armonioso, affinché diventi quella dimora in cui la Trinità desidera abitare (cfr. Gv 14,23).

Perché questo avvenga, sono necessarie accoglienza e collaborazione da parte dell’uomo, il suo mettere a disposizione dello Spirito le proprie forze psichiche, perché Egli le indirizzi, le converta, le purifichi. Tutta la persona è allora coinvolta in questa “piccola creazione”, che si compie a livello individuale, in questa trasfigurazione il cui fine è di rendere trasparenti tutte le potenzialità della persona umana, capaci quindi di lasciar intravedere la presenza divina nascosta nelle profondità del nostro essere. Si tratta di permettere allo Spirito, nostro Liberatore, di svincolarci da tutte le difese che c’ingabbiano, di cancellare le opacità che ci rendono tenebrosi, di convertire gli istinti distruttivi, trasformandoli in forze buone, orientate alla crescita.

L’opera che dobbiamo lasciargli compiere in noi riguarderà pertanto ogni ambito della nostra persona, perché tutto, nel nostro mondo interiore, deve essere visitato dallo Spirito, il quale, come un perfetto Architetto, trasforma il nostro spazio caotico e disordinato in una perfetta dimora, chiamata ad accogliere il Re dei Re.

 

Che cosa controllare?

Quali sono gli ambiti in cui praticare il dominio di sé? Quali sono gli spazi del nostro mondo interiore in cui lo Spirito santo desidera esercitare il suo compito di creatore d’armonia?

Sono numerose le zone della nostra persona che necessitano l’azione dello Spirito santo; qui ci limiteremo ad accogliere alcuni suggerimenti proposti dalle scienze umane, in cui ritroviamo però una profonda sintonia con quanto l’ascesi tradizionale ha sempre suggerito.

Paradossalmente, proprio il bisogno di controllare costituisce uno degli aspetti su cui è importante esercitare una forma di autodisciplina. Il dominio di sé comporta, infatti, la capacità di porre un limite al bisogno di padroneggiare la realtà, alla tentazione, che costantemente ci abita, di “pilotare” gli avvenimenti della nostra vita e tenere in pugno il destino personale. La capacità di controllo, infatti, esprime una dimensione molto ambivalente della persona: essa manifesta innanzi tutto una vocazione a cui l’uomo è chiamato. Nel giardino dell’Eden Dio ha affidato all’essere umano il dominio sul creato, perché potesse esprimere la sua signoria sulle cose e sugli esseri animati, quella signoria che fa di lui il vertice della creazione, il mediatore tra Dio e il cosmo. Con il peccato, però, questo dominio sulla realtà si è deformato: l’uomo non l’ha più usato unicamente per compiere ciò a cui Dio lo aveva chiamato, ma l’ha utilizzato in forma autoprotettiva, per i propri fini personali ed egocentrici. Divenuto mortale e schiavo del peccato, ha utilizzato la sua capacità di controllo per proteggersi, difendersi e salvaguardare la propria persona. La sua mente, allora, è diventata una fucina di pensieri, aventi lo scopo preciso di preservarlo dai pericoli, di non incorrere in situazioni dannose, dolorose, frustranti. A tal fine egli ha imparato ad anticipare il futuro, prevedendo fatti, situazioni, possibilità, in modo da essere pronto ad affrontarle in caso di pericolo.

Tale atteggiamento, però, ha fatto sì che il suo mondo interiore, invece che uno spazio accogliente, capace di ospitare Dio e i fratelli di cui era chiamato a prendersi cura, è diventato un luogo affollato di pensieri, di preoccupazioni, di ipotesi e previsioni, spesso in vista di qualcosa che… non accadrà mai. Abbiamo imparato a ruminare e, invece di meditare e conservare nel cuore le grandi cose che Dio opera nella nostra vita, rischiamo di essere costantemente protesi verso il futuro, domandandoci che cosa fare e come reagire qualora dovesse verificarsi un evento prospettato solo dalla nostra fantasia, ma soprattutto dalla nostra ansia.

Tale atteggiamento ci allontana dalla nostra vocazione fondamentale, dalla chiamata ad essere figli di Dio. Il figlio, lo sappiamo, non si preoccupa, perché il suo atteggiamento qualificante è una totale dipendenza dal Padre, il quale sa di quali cose abbiamo bisogno (MT 6,8). Il figlio non anticipa, ma si abbandona, in un atteggiamento di totale e assoluta fiducia nei confronti del Padre. Non ha bisogno di prevedere, ma vive il momento presente, convinto che in esso troverà tutta la grazia di cui ha bisogno, istante dopo istante.

Quando questa necessità di controllare è mal orientata, provoca conseguenze molto pericolose per le persone; in particolare, per quanto riguarda la dimensione psicologica, essa acuisce la naturale inquietudine dell’essere umano e talvolta favorisce perfino lo sviluppo di patologie. Non sono rari i film, comparsi in questi ultimi anni, i cui personaggi principali presentano sintomi indicatori di un eccessivo bisogno di controllare la realtà: pensiamo al protagonista di A beautiful mind, il quale riesce a scoprire il mistero nascosto nei codici segreti che lui solo sa decifrare, ma viene travolto dalle sue paure fino a precipitare nella più grave pazzia, o al Jack Nikolson di Qualcosa è cambiato, che controlla le sue nevrosi attraverso una quantità infinita di gesti e atti rituali. Anche la persona più normale, però, sperimenta l’effetto negativo del suo bisogno di controllare, quando esso si esprime in pensieri continui, in preoccupazioni che occupano la mente, influiscono sull’umore, rendono distratti, meno efficienti, inquieti. Il credente, poi, se è attento alla sua vita spirituale, si rende conto di come il continuo rimuginare non solo crea ostacoli a livello psicologico, ma occupa anche la mente, lasciando poco spazio per Dio, per orientare il proprio agire verso di Lui, pensare a Lui, vivere in e per Lui.

Consapevole di questa mancanza di controllo, che paradossalmente risiede proprio nel suo eccesso, l’ascesi tradizionale ha proposto l’arte della purificazione del cuore, attraverso la quale il cristiano apprende a liberarsi dai pensieri, dalle fantasie, dalle immaginazioni che distolgono la sua attenzione da Dio e lo rendono schiavo e non figlio, ripiegato su di sé invece che rivolto verso il Padre.

 

Purificazione del cuore

Sappiamo che il cuore per la tradizione ebraica, e in seguito anche per quella patristica, non costituisce la sede delle emozioni, come noi occidentali siamo portati a ritenere. Esso è invece lo sguardo interiore, il modo in cui si pensa, si reagisce, si ragiona e si giudica. Non è quindi difficile intuire il nesso profondo che esiste tra quest’arte ascetica, sviluppatasi soprattutto presso i Padri del deserto, e il dominio di sé. La capacità di controllare il proprio agire, la possibilità di dominare se stessi evitando il vizio e praticando la virtù, nasce infatti dall’interno, da quel centro intimo dove formuliamo giudizi e operiamo scelte, un centro che può essere quieto e sereno, come un calmo lago alpino, o caotico e trafficato, talvolta simile alla stazione metropolitana di una grande città, nell’ora di punta.

Il dominio di sé, quindi, non è prima di tutto una questione di controllo della volontà, frutto di irrigidimento, o una sorta di “alpinismo spirituale”, che induce la persona a una continua auto-osservazione perché venga eliminato tutto ciò che potrebbe distoglierla da Dio. Indubbiamente, anche se consiste prima di tutto in un dono, esso esige la partecipazione costante dell’individuo; si tratta però di una collaborazione che non è mai frutto di una forzatura, ma effetto di una pacificazione, la cui origine si colloca all’interno, nel cuore. è infatti impossibile controllare o, ancora meglio, orientare nella direzione voluta il proprio agire, se manca l’attenzione ai pensieri, alle immaginazioni, preoccupazioni, fantasie che ci abitano e sono capaci di condizionare non solo il sentire ma anche l’operare.

Il dominio di sé esige la purificazione interiore, perché l’agire è frutto dello sguardo del cuore. Prendiamo in esame, per esempio, uno degli ambiti che possiamo giustamente considerare come una tra le maggiori cause di tensione all’interno della vita consacrata: i conflitti comunitari, le difficoltà di relazione fra sorelle. Essi hanno spesso origine in ciò che i Padri e i maestri spirituali chiamano ira e la psicologia contemporanea definisce come bisogno di aggressività. Questa propensione dell’animo umano a vedere l’altro come un nemico, a vivere rapporti competitivi, sentimenti di gelosia, invidia, rivalità, rende spesso complicata, talvolta anche fonte di sofferenza, la convivenza fraterna. Invece di diventare stimolo per la crescita e occasione per esercitare la carità, la vita comune è intessuta di manifestazioni di ostilità: diventa difficile dominare la lingua, i gesti, i segni di avversione, gli sgarbi; talvolta si rischia la perdita di controllo, in cui si dicono parole che mai si sarebbero volute pronunciare o si compiono azioni impulsive, solo perché non si è riusciti a contenere l’istinto del momento.

Quest’assenza di dominio di sé, però, non è solo il frutto di un’impulsività non educata, che si scontra con il desiderio di vivere la carità; essa nasce da una dimensione più profonda, da una mancata vigilanza del cuore e di ciò che lo abita. Dietro alle nostre durezze e aggressività verso le sorelle non troviamo forse sempre giudizi negativi conservati a lungo nel cuore, confronti, immaginazioni, osservazioni accurate dei loro limiti? Se c’è manifestazione esterna, possiamo essere certi di trovare all’interno tutta una serie di “pensieri contro”, pensieri che non abbiamo mai osato portare allo scoperto, per riconoscerli e vagliarli; l’individuarli, infatti, ci avrebbe costretti ad ammettere, con molta franchezza, che il nostro cuore è abitato da tante piccinerie, grettezze e meschinità, il cui potere, quando sono custodite interiormente, è di condizionare la percezione e l’azione.

Se vogliamo esercitare il dominio su noi stessi, quindi, dobbiamo avere il coraggio di inabissarci nelle profondità del nostro Io, anche quando ci sembra oscuro e fangoso, per scoprire ciò che lo abita e portare alla luce quanto è contrario all’amore. Nello stesso tempo, non dobbiamo temere di chiudere le porte in faccia a tutto ciò che allontana la nostra persona dai valori per i quali vuole vivere. Se con tanta libertà “accarezziamo” e “coccoliamo” pensieri critici, ostili o addirittura offensivi nei confronti delle sorelle, non dobbiamo stupirci se, prima o poi, questi troveranno un canale esterno di espressione, attraverso le nostre parole e azioni. Per questo motivo, è importante saper vietare l’accesso a quanto d’interiore e immaginario ha il potere di allontanarci da ciò che per noi è essenziale.

 

Dominio di sé e unificazione interiore

Il dominio di sé non può essere considerato unicamente come effetto dell’eliminazione di quanto in noi crea ostacolo alla comunione con Dio e con il prossimo. Se esso è il frutto di un’interiorità pacificata, può essere favorito anche dalla ricerca di unificazione interiore. è dunque importante coltivare alcuni atteggiamenti atti a favorire questa capacità di trovare un centro nella propria vita, un’unità da cui prende forma il pensare e l’agire.

Un aspetto importante cui prestare attenzione è l’impegno a proteggersi dal dilagare di banalità, superficialità, esteriorità da cui ogni giorno siamo bombardati e che, passando dai sensi, viene a prendere dimora nel nostro cuore. La sobrietà, virtù tipicamente monastica, che invita ad evitare le curiosità inutili, le distrazioni, il fermarsi in superficie e permette a tutte le nostre forze spirituali di convergere in un’unica direzione, è nello stesso tempo conseguenza e origine di un sano controllo su se stessi. Essa è indubbiamente frutto del dominio di sé, che pone dei limiti agli interessi inutili, all’attenzione della vista e dell’udito rivolta a realtà vane, accessorie, superficiali, anche se a volte seducenti. Nello stesso tempo, però, essa sfocia nella capacità di autocontrollo: un clima comunitario serenamente austero, in cui trovano posto lunghi spazi di silenzio e dove il parlare non si limita al solo chiacchiericcio sterile o alla critica e al pettegolezzo, aiuta i membri della fraternità a evitare l’immediatezza, l’eccesso di spontaneità, l’agire in base all’impulso: tutti sintomi di difficoltà, se non addirittura d’incapacità, a dominare se stessi.

Altro aspetto fondamentale per l’unificazione interiore è la tensione a ritrovare sempre il proprio centro, a vivere un’esistenza informata dalla ricerca di Dio, dalla tensione verso di Lui. L’importanza del dominare se stessi in un’epoca in cui, come già si è accennato, tende a prevalere lo spontaneismo e l’affermazione dei propri diritti, acquista significato solo se è in funzione di un ideale capace di dare senso all’esistenza. è dunque fondamentale ritornare sempre ai valori essenziali della vita consacrata, in particolare alla centralità della persona di Cristo. Purtroppo, corriamo sovente il rischio di vivere la nostra scelta con uno stile simile a quello di molti sposati, che si vogliono bene ma, presi da mille preoccupazioni – talvolta anche legittime –, si dimenticano di dimostrarselo. Lavorare per la famiglia e provvedere ai figli sembrano modi sufficienti per comunicarsi l’amore reciproco. Così, poco per volta, senza nemmeno accorgersene, ci si lascia andare e il legame matrimoniale diventa un’abitudine, in alcuni momenti anche un peso.

Lo stesso avviene, forse anche di frequente, all’interno delle comunità religiose: il fatto di servire il Signore, di spendersi, magari anche con molti sacrifici e rinunce, per il Suo Regno, pare essere un modo sufficiente per esprimere quell’amore che aveva spinto la persona in comunità. Così, senza nemmeno rendersene conto, la religiosa si “lascia andare”. Nelle relazioni comunitarie tende a prevalere l’ira, nei rapporti con gli altri il bisogno d’affetto e la preghiera diventa spesso più un desiderio, anche se sincero, o una nostalgia, che una realtà vissuta. Una relazione non nutrita lascia così il posto all’accidia, alla rilassatezza, a quella mancanza di autocontrollo che rischia di rendere insipida una forma di vita chiamata invece, in modo del tutto particolare, ad essere sale della terra e luce del mondo (cfr. Mt 5, 13-14).

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