n. 01
gennaio 2006

 

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OBBEDIENZA NELL'ORIZZONTE RELIGIOSO

di Carlo Molari*

 

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Nell’orizzonte religioso, l’obbedienza può acquistare una modulazione teologale. Diventa cioè un ossequio a Dio ed è un esercizio di fede. Si possono cioè affrontare gli eventi dell’esistenza, incontrare le persone, attraversare le esperienze di ogni giorno con atteggiamento di obbedienza a Dio. Per questo motivo può esprimersi anche come voto. In questa prospettiva obbedire è un atto teologale, non è solo un atto morale come nell’ambito civile.

Ma occorre precisare bene l’oggetto della obbedienza. Si potrebbe correre il rischio, infatti, di identificare la volontà di Dio con gli eventi, con le persone che ci comandano, con la Scrittura, che ci trasmette gli eventi di salvezza.

Vorrei indicare gli atteggiamenti che possono rendere le nostre azioni atti di obbedienza a Dio. Vorrei quindi mostrare come sia possibile vivere l’obbedienza senza cadere nella passività, agire seguendo le prescrizioni dei superiori senza favorire la forma mondana del potere, “abitare” tutte le situazioni anche quelle insensate, in modo da consentire allo Spirito di dar loro una forma salvifica.

Per noi credo sia necessario partire dall’esperienza di Gesù. Per i cristiani, infatti, il criterio fondamentale di vita è avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5) o, detto altrimenti, è tenere fisso «lo sguardo su Gesù autore e consumatore della nostra fede» (Eb 12,2).

 

L’obbedienza di Gesù

L’obbedienza di Gesù è l’accoglienza continua della Parola del Padre che in lui diventava carne, cioè suo pensiero, desiderio, attività. L’incarnazione, infatti, non si realizza in un istante ma attraversa tutta l’esistenza storica di Gesù fino al compimento della Pasqua, quando è «costituito figlio di Dio con potenza per opera dello Spirito nella risurrezione dai morti» (Rm 1,4). L’obbedienza costituiva, quindi, l’ambito del processo dell’Incarnazione; è l’esercizio della sua fede. In lui la fede/obbedienza è stata vissuta in modo esemplare al punto da diventare modello per noi.

Questa connessione non veniva valorizzata dalla teologia scolastica, perché essa attribuiva a Gesù la visione beatifica fin dall’inizio della sua esistenza. Anche l’obbedienza perciò non comprendeva in Gesù quella fase di discernimento, di preghiera e di sofferta decisione, che costituisce l’ambito della nostra obbedienza. Il tipo di vita umana che – secondo l’opinione tradizionale – Gesù avrebbe condotto, nell’ipotesi che egli fin dall’inizio vedesse tutto in Dio, era molto diverso dal nostro. La sua attività, pur coinvolgendo in profondità tutte le facoltà umane, si sarebbe svolta come la recita di un copione già scritto. Come un attore che entra nella sua parte in modo integrale e fedele, Gesù si sarebbe continuamente riferito alla volontà del Padre, conosciuta perfettamente e avrebbe con totale fedeltà seguito la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di significato molti racconti evangelici e li caricava di messaggi aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano completamente trascurate dai biblisti e dai teologi. Maritain parlava di una “parodia di umanità”1.

La fede è la prima incidenza dell’azione divina nella vita degli uomini. Sarebbe insensato pensare che l’azione di Dio in Gesù non abbia suscitato l’atteggiamento di accoglienza e di ascolto che è appunto la fede. Jon Sobrino ha osservato che nella scolastica si era giunti in modo sorprendente a negare che la fede fosse costitutiva della condizione umana, dato che la si negava in Cristo. Se non si attribuisce la fede a Gesù, egli scrive: «Lo si potrà chiamare uno di noi, ma nel profondo della realtà umana non è come noi. Si potrà far risaltare l’umanità di Gesù a vari livelli, personale-esistenziale, anche sociale e persino politico, ma se non si accetta la sua fede, Gesù resta infinitamente distante da noi e – paradossalmente per la teologia – significherebbe dire che la fede non è essenziale per definire la realtà umana»2.

Anche la conoscenza di Dio in Gesù è stata progressiva. Egli ha imparato a pregare, a leggere le Scritture, a conoscere la tradizione del suo popolo. Attraverso questo percorso egli è diventato «la figura riuscita del perfetto credente»3. La fede e quindi l’obbedienza a Dio ha raggiunto in Gesù una ricchezza tale da consentire l’acquisizione definitiva del “Nome”. «In questa prospettiva la fede di Gesù diventa il principio stesso della modalità rivelativa e storica dell’incarnazione; e al tempo stesso il fondamento di quella relazione che attua il regno nella sua persona»4.

Come e a chi Gesù è stato obbediente. È stato obbediente al Padre nell’ascolto continuo della sua Parola. Tutta la sua esistenza è stata segnata dall’ascolto/accoglienza della parola/azione divina che in lui fioriva come amore fino alla manifestazione estrema della croce. In particolare, la passione e la morte vengono presentati, dall’inno cristologico riportato da Paolo nella lettera ai Filippesi, come i momenti supremi della sua obbedienza («obbediente fino alla morte e alla morte di croce», Fil 2,8).

Per determinare, però, quale era l’oggetto specifico della sua obbedienza nella morte occorre tenere presenti tre dati intrecciati. Il primo è che la morte di Gesù e le sofferenze che l’hanno preceduta erano contrarie al volere di Dio e, quindi, non potevano costituire l’oggetto della sua obbedienza. Le sofferenze e la morte di Gesù furono conseguenze del rifiuto di conversione e dei peccati, risultato di compromessi politici e ingiusta convergenza di interessi privati. La morte come tale era contraria al volere di Dio e Gesù non poteva desiderare di morire. Nella situazione nella quale si era venuto a trovare, in seguito al rifiuto opposto alla sua proposta di rinnovamento religioso, Gesù avvertiva la necessità di continuare a rivelare l’amore di Dio, ad esprimere la forza del bene, a mostrare che il Vangelo che egli aveva annunziato corrispondeva a verità ed era “salvifico”. Questa rivelazione corrispondeva alla volontà di Dio. Gesù, perciò, si è trovato nella situazione drammatica di compiere il volere di Dio, cioè di obbedire a Dio, in una situazione ingiusta, peccaminosa e, perciò, contraria alla sua volontà.

Quando Gesù ha iniziato la sua attività pubblica, lo ha fatto con la convinzione di poter avere successo e di ottenere un cambiamento nella vita religiosa del suo tempo. Poi progressivamente ha suscitato reazioni negative e resistenze profonde. Allora ha riflettuto sul da farsi, si è confrontato con la Scrittura, ha pregato a lungo e ha coinvolto i suoi nella preghiera (prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare, Lc 9,28). Infine ha deciso di continuare il cammino e di salire a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51). Si convinse che per mostrare la verità del Vangelo annunziato, non gli restava altra possibilità che viverlo fino in fondo e attendere da Dio il segno della sua fedeltà. Fu, quindi, una necessità di carattere storico a convincerlo di «amare sino alla fine» (cfr. Gv 13,1). Se non avesse consentito a Dio di mostrare la verità del Vangelo che egli aveva annunziato, tutto sarebbe finito con la sua condanna. Quale fosse poi il segno della conferma divina, Gesù l’aveva dedotto dalla tradizione sapienziale (cfr. Sap 2) e dagli scritti profetici, in particolare dai carmi del Servo, dove si parlava della luce che il Servo avrebbe visto, delle moltitudini che l’avrebbero riconosciuto.

In questo senso, Gesù non voleva la sua morte. Ma quando gli uomini l’hanno decisa, egli «doveva necessariamente continuare la sua missione». Egli voleva continuare ad amare, a sopportare l’odio e la violenza in modo mansueto, a introdurre dinamiche salvifiche, a rivelare la misericordia di Dio. Questo era l’oggetto particolare dell’obbedienza di Gesù al Padre, esercitata però in una situazione contraria al volere di Dio.

L’efficacia salvifica che apparve nella obbedienza di Gesù non è nell’ordine dell’efficienza mondana, bensì della efficacia salvifica. In questo senso il suo progetto subiva uno scacco temporaneo, che appariva come fallimento. In tale modo l’hanno vissuto i discepoli e Gesù stesso. Solo che Gesù ha vissuto il suo fallimento storico in un atteggiamento di totale abbandono fiducioso nelle mani del Padre, attendendo da Lui la realizzazione del progetto del Regno. La risurrezione è stata la risposta di Dio all’obbedienza di Gesù, per cui si dice che Dio lo ha risuscitato. Essa però è fiorita all’interno dell’azione storica di Gesù, per cui si può anche dire che Gesù è risuscitato dai morti. L’efficacia salvifica non riguarda il successo dei progetti storici anche se buoni e giusti, ma consente alla Vita di realizzare il suo progetto storico, anche attraverso situazioni di fallimento e di sconfitta. Il progetto della Vita è quella pienezza che conduce la persona alla identità definitiva e che può essere sempre raggiunta, anche nel fallimento dei nostri disegni e delle nostre prospettive.

 

L’obbedienza dei discepoli di Gesù

Nella valutazione dell’obbedienza a Dio è necessario tenere sempre ben presente che il livello, in cui si realizza l’adesione all’azione di Dio, non è mai quello in cui si svolgono i fenomeni, ossia non c’è mai una situazione che corrisponda pienamente al volere di Dio. Ogni evento storico, però, può essere vissuto in modo funzionale alla crescita dei figli di Dio. Si può dire che nell’atto di obbedienza non è in gioco solo la persona e gli altri (le circostanze, la legge, il/la superiore/a, l’oppressore, ecc.), ma è sempre presente una componente trascendente: il dono di Dio. L’evento storico non realizza mai pienamente il bene, la verità, la giustizia, la vita, perché tutte le creature sono sempre limitate e imperfette. La volontà di Dio riguarda il “termine”, il “compimento”, la “perfezione”, a cui tutte le situazioni storiche sono funzionali. Per questo l’adesione di chi obbedisce è sempre provvisoria e tende al superamento della situazione; il che implica un “distacco interiore”. È questo lo spazio dove si inserisce la profezia, che è l’obbedienza alla dinamica trascendente esistente all’interno della storia.

Quando a un cristiano è chiesto di vivere l’obbedienza di fronte a Dio, non gli è chiesto di ritenere che la situazione nella quale si viene a trovare corrisponda al volere di Dio o che la decisione dei superiori si identifichi con il progetto divino. Questo giudizio non è una componente dell’obbedienza. Ci possono essere situazioni, infatti, che seri motivi inducono a ritenere ingiuste e decisioni della cui opportunità è doveroso dubitare ma nelle quali, tuttavia, obbedire resta necessario. L’obbedienza implica l’impegno di compiere la volontà di Dio in tutte le situazioni nelle quali ci è dato vivere, siano esse giuste o ingiuste, perfette o imperfette. Compiere la volontà di Dio significa rivelare la forza del bene, esprimere la potenza dell’amore, portare le ingiustizie in modo da svuotarne le dinamiche negative con spinte opposte. E tutto questo nelle situazioni che non possiamo eludere, perché di fatto costituiscono il nostro ambiente di vita, fissate dalle circostanze a volte casuali o dalle decisioni dei superiori. In tale modo si vive positivamente ogni esperienza, si ubbidisce cioè a Dio, pur sapendo che le situazioni non sono ottimali.

L’obbedienza, inoltre, implica la convinzione che anche il modo come noi operiamo è sempre inadeguato e imperfetto, tuttavia è sufficiente a condurci “oltre” la nostra azione e a raggiungere nel tempo quella perfezione personale che ha il compimento nell’acquisizione del “nome scritto nei cieli” (cfr. Lc 10,20), il nome di figlio/figlia.

Vivere nella fede gli eventi non significa, quindi, ri­tenere che essi siano voluti da Dio, o che corrispondano a un suo piano nei nostri confronti. Bensì che, abitandoli, possiamo, in ogni caso, “compiere la volontà di Dio”, cioè rivelare il suo amore e diffondere le dinamiche del regno. Nella istituzione ecclesiale, obbedire non significa ritenere che la decisione dei vescovi o, in genere, dei superiori corrisponda perfettamente alla volontà di Dio. È possibile, infatti, che alcune loro decisioni siano influenzate da fattori culturali, da tendenze personali o da pregiudizi, ecc. e che, quindi, non corrispondano pienamente alla volontà di Dio. Tuttavia, anche in queste situazioni imperfette e, come tali non corrispondenti al volere assoluto di Dio, è possibile obbedire a Dio, compiere, cioè, la sua volontà. Poiché quando si esegue con impegno e animo sereno ciò che è stato stabilito, si resta nelle regole della vita comunitaria, si persegue il bene comune, e in questo senso si compie la volontà di Dio. Il bene che si attua, con l’accettazione delle decisioni comunitarie, è abitualmente superiore all’eventuale imperfezione che la loro decisione ed esecuzione com­porta. In tale modo, pur non facendo la cosa più perfetta in as­soluto, si è in grado di rivelare l’amore di Dio e la sua perfe­zione.

 

Atteggiamenti interiori richiesti

Ora possiamo delineare alcuni atteggiamenti spirituali necessari per vivere l’obbedienza a Dio così delineata. Possiamo indicarne quattro.

1. L’ascolto continuo della Parola che risuona all’interno della storia. L’obbedienza a Dio non consiste nel compiere delle azioni, bensì nell’ascoltare la sua Parola mentre si compiono gli atti che ci vengono chiesti. L’atteggiamento di ascolto deriva dalla convinzione che ogni situazione è espressione di una realtà più ricca e profonda, che essa cioè ha una componente trascendente che può essere riconosciuta e accolta. Ne deriva la convinzione che l’esperienza in atto non è l’espressione ultima del bene e della giustizia, non è la perfezione compiuta, non è il bene assoluto, non è la verità ma contiene solo piccoli frammenti di verità, di bene, di giustizia, di vita. L’atteggiamento è molto più fruttuoso quando viene vissuto insieme da superiori e sudditi.

2. Per questo l’obbedienza deve essere costantemente avvolta dalla preghiera, perché la preghiera è l’esercizio dell’ascolto, l’allenamento all’accoglienza. Siccome l’ascolto deve essere continuo, in quanto si realizza in tutte le situazioni concrete, e siccome le esperienze quotidiane portano spesso alla distrazione, perché contengono interferenze e disturbi, è necessario avere momenti specifici di allenamento all’ascolto per restare sempre in sintonia. La preghiera è appunto l’allenamento per restare costantemente in sintonia con la forza creatrice, con la parola che risuona all’interno degli eventi.

3. Coinvolgimento pieno nella situazione, perché se non c’è un pieno coinvolgimento non si è in grado di farne emergere quel frammento di vita, di bene, di verità che essa contiene.

Se, per esempio, si obbedisce a un superiore con riserve interiori, con distanza, pensando “lo faccio perché me l’hai detto, tanto so che non conduce da nessuna parte”, certamente questo non condurrà da nessuna parte; manca quel coinvolgimento che consente al frammento del bene, del vero, del giusto di emergere, di essere vissuto, quindi di apparire nella sua efficienza, di raggiungere la sua efficacia.

4. L’intenzione fondamentale deve essere sempre il “regno di Dio”, che a livello personale è lo sviluppo della dimensione spirituale della persona, e a livello sociale la diffusione di stili nuovi, fraterni e giusti. È urgente non considerare come “criterio” la realizzazione del proprio progetto e neppure ciò che ha deciso il superiore, o la superiora, o ciò che in se stesso l’evento implica. L’oggetto dell’obbedienza è la vita che fluisce, il bene che cerca nuove strade, la verità che vuole esprimersi: cioè quel qualcosa di più grande che è sempre in gioco nella nostra vita. Pertanto il dato costitutivo dell’obbedienza è proprio l’attenzione a questo “di più” che costantemente cerca di esprimersi e per il quale ci viene chiesta l’obbedienza.

Quando nei monasteri, nelle comunità religiose o ecclesiali si vivono questi atteggiamenti, si è in grado di superare quella tentazione di autoreferenzialità, che caratterizza il narcisismo, ma anche l’atteggiamento passivo di assoggettamento, che impedisce alla vita di inventare le sue forme nuove nelle diverse situazioni storiche.

L’obbedienza religiosa quindi richiede l’orizzonte teologale, è cioè “atto di fede”, abbandono fiducioso a Dio, accoglienza del dono di vita per mezzo del quale possiamo crescere come figli e figlie.

Le ragioni che si possono portare per eseguire l’ordine o rifiutare l’obbedienza riguardano generalmente il piano super­ficiale: essere più o meno adatti a un determinato compito, potere inserirsi in modo armonico nella comunità, ecc. Ragioni valide ma non sufficienti per una obbedienza religiosa. Queste non sono “le” ragioni per cui si deve obbedire se si vuole compiere un atto teologale. La “ragione” dell’ubbidienza è che in quella situazione sei chiamata ad accogliere un dono di vita, per cui cresci come figlia/o di Dio; sei in grado, cioè, di interiorizzare un dono divino che alimenta la tua struttura filiale.

“Oggetto” dell’ubbidienza non è la situazione che ti viene indicata, ma il dono che essa ti consente di accogliere. Di per sè la situazione che ti è indicata dall’obbedienza non è detto che sia la migliore o la più adatta. Obbedire vuol dire quindi: in questa situazione, che non dipende da me, perché legata a decisioni di altri o a circostanze casuali, mi impegno ad ascoltare e ad accogliere la parola di Dio per testimoniare il suo amore e crescere come figlia/o di Dio.

Per educare all’obbedienza, perciò, occorre educare all’ascolto della Parola, alla consapevolezza della presenza operante di Dio nella propria vita.

 

Obiezione di coscienza

La riflessione sull’obbedienza non è completa se non si confronta con la possibile obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza è l’espressione della obbedienza a Dio, quando essa entra in conflitto con la volontà degli uomini, è la rivendicazione della libertà dei figli, e delle figlie, nei confronti della legge che va contro la propria coscienza. S. Pietro di fronte al Sinedrio ne esprime in modo efficace il principio: «bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,2).

Durante la storia della Chiesa, soprat­tutto nei primi secoli, vi sono state diverse forme di obiezione di coscienza, anche nella modalità suprema del martirio. Man mano però che la Chiesa acquistava strutture di potere o ne diventava alleata, l’obiezione di coscienza è diventata più rara e più dif­ficile. Negli ultimi secoli la morale cristiana ha avuto diffi­coltà ad ammettere come legittime alcune forme di obiezione di coscienza che sembravano imporsi come doverose. Pio XII, in un di­scorso che ebbe una certa risonanza, perché pronunciato ai tempi delle prime forme, fra i cattolici, di obiezione di coscienza al servizio militare, diceva: «Se dunque una rappresentanza popola­re e un governo… in estremo bisogno, coi legittimi mezzi di poli­tica estera ed interna, stabiliscono provvedimenti di difesa ed eseguiscono le disposizioni a loro giudizio necessarie, essi si comportano egualmente in maniera non immorale, di guisa che un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati dal­la legge»5. Neppure dieci anni dopo il discorso di Pio XII, il Concilio ha dato indicazioni chiare circa la legittimità della obiezione di coscienza al servizio militare, invitando i governi a fissare delle leggi corrispondenti: «Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tutta­via accettano qualche altra forma di servizio della comunità uma­na»6. Oggi questo è diventato un atteggiamento ufficiale nella Chiesa, al punto che Vescovi e Movimenti ecclesiali ufficiali non hanno difficoltà a proporre, ad es., l’obiezione fiscale contro le spese militari.

L’obiezione di coscienza, però, è legittima solo quando e­sprime una fedeltà al futuro del Regno. Altrimenti è espressione di inte­ressi privati e di egoismi, che sono forme di fedeltà al passato. La vera obiezione di coscienza non è, quindi, semplicemente un rifiuto, ma è una profezia e l’indicazione di un cammino.

 

Note

* Teologo [Torna al testo]

1. Maritain J., Della grazia e della umanità di Gesù, Morcelliana, Brescia 1971, p. 18. [Torna al testo]

2. Sobrino J., Gesù Cristo Liberatore, Cittadella ed., Assisi 1995, p. 270. [Torna al testo]

3. Sequeri P.A., Fede di Gesù e filiazione divina, in Aa.Vv. (cur. G.Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 200, p. 17. [Torna al testo]

4. Sequeri P.A. Fede di Gesù e filiazione divina, op. cit., p. 16. [Torna al testo]

5. Discorso del 10 nov. 1956 [Torna al testo]

6. Gsp 79 EV 1, 1595. Tuttavia ancora nel 1966, P. Messineo in La Civiltà Cattolica, pur citando la Costituzione pastorale del Concilio, concludeva: “Nulla dunque sostanzialmente è cambiato nell’insegnamento ufficiale della Chiesa al riguardo”. Civiltà Cattolica, 117, 1966, I, p. 267. Nella 4° ed. di un noto Dizionario di teologia morale (1968), dopo aver ricordato che “non manca anche nel campo cattolico qualcuno che sostenga la legittimità dell’obiezione di coscienza…”. P. Palazzini (poi Cardinale) conclude: “più che l’eco del pensiero e della tradizione cattolica questi autori sono gli esponenti inconsci di un umanitario pacifista. Comunemente da parte cattolica, viene respinta la tesi degli obiettori di coscienza e la loro resistenza passiva viene considerata almeno come una violazione ai doveri civili di giustizia legale” (Obiezione di coscienza, Dizionario di teologia morale, Studium, Roma 1988a).  La Gaudium et spes viene interpretata nel senso di una raccomandazione ai governi di provvedere umanamente ai casi di obiettori di coscienza in buona fede. [Torna al testo]

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