ell’orizzonte
religioso, l’obbedienza può acquistare una modulazione teologale.
Diventa cioè un ossequio a Dio ed è un esercizio di fede. Si possono
cioè affrontare gli eventi dell’esistenza, incontrare le persone,
attraversare le esperienze di ogni giorno con atteggiamento di
obbedienza a Dio. Per questo motivo può esprimersi anche come voto. In
questa prospettiva obbedire è un atto teologale, non è solo un atto
morale come nell’ambito civile.
Ma occorre precisare bene l’oggetto della
obbedienza. Si potrebbe correre il rischio, infatti, di identificare la
volontà di Dio con gli eventi, con le persone che ci comandano, con la
Scrittura, che ci trasmette gli eventi di salvezza.
Vorrei indicare gli atteggiamenti che possono
rendere le nostre azioni atti di obbedienza a Dio. Vorrei quindi
mostrare come sia possibile vivere l’obbedienza senza cadere nella
passività, agire seguendo le prescrizioni dei superiori senza favorire
la forma mondana del potere, “abitare” tutte le situazioni anche quelle
insensate, in modo da consentire allo Spirito di dar loro una forma
salvifica.
Per noi credo sia necessario partire
dall’esperienza di Gesù. Per i cristiani, infatti, il criterio
fondamentale di vita è avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo
Gesù» (Fil 2,5) o, detto altrimenti, è tenere fisso «lo sguardo su Gesù
autore e consumatore della nostra fede» (Eb 12,2).
L’obbedienza di Gesù
L’obbedienza di Gesù è l’accoglienza continua
della Parola del Padre che in lui diventava carne, cioè suo pensiero,
desiderio, attività. L’incarnazione, infatti, non si realizza in un
istante ma attraversa tutta l’esistenza storica di Gesù fino al
compimento della Pasqua, quando è «costituito figlio di Dio con potenza
per opera dello Spirito nella risurrezione dai morti» (Rm 1,4).
L’obbedienza costituiva, quindi, l’ambito del processo
dell’Incarnazione; è l’esercizio della sua fede. In lui la
fede/obbedienza è stata vissuta in modo esemplare al punto da diventare
modello per noi.
Questa connessione non veniva valorizzata
dalla teologia scolastica, perché essa attribuiva a Gesù la visione
beatifica fin dall’inizio della sua esistenza. Anche l’obbedienza perciò
non comprendeva in Gesù quella fase di discernimento, di preghiera e di
sofferta decisione, che costituisce l’ambito della nostra obbedienza. Il
tipo di vita umana che – secondo l’opinione tradizionale – Gesù avrebbe
condotto, nell’ipotesi che egli fin dall’inizio vedesse tutto in Dio,
era molto diverso dal nostro. La sua attività, pur coinvolgendo in
profondità tutte le facoltà umane, si sarebbe svolta come la recita di
un copione già scritto. Come un attore che entra nella sua parte in modo
integrale e fedele, Gesù si sarebbe continuamente riferito alla volontà
del Padre, conosciuta perfettamente e avrebbe con totale fedeltà seguito
la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di
significato molti racconti evangelici e li caricava di messaggi
aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di
Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle
scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera
per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano
completamente trascurate dai biblisti e dai teologi. Maritain parlava di
una “parodia di umanità”1.
La fede è la prima incidenza dell’azione
divina nella vita degli uomini. Sarebbe insensato pensare che l’azione
di Dio in Gesù non abbia suscitato l’atteggiamento di accoglienza e di
ascolto che è appunto la fede. Jon Sobrino ha osservato che nella
scolastica si era giunti in modo sorprendente a negare che la fede fosse
costitutiva della condizione umana, dato che la si negava in Cristo. Se
non si attribuisce la fede a Gesù, egli scrive: «Lo si potrà chiamare
uno di noi, ma nel profondo della realtà umana non è come noi. Si potrà
far risaltare l’umanità di Gesù a vari livelli, personale-esistenziale,
anche sociale e persino politico, ma se non si accetta la sua fede, Gesù
resta infinitamente distante da noi e – paradossalmente per la teologia
– significherebbe dire che la fede non è essenziale per definire la
realtà umana»2.
Anche la conoscenza di Dio in Gesù è stata
progressiva. Egli ha imparato a pregare, a leggere le Scritture, a
conoscere la tradizione del suo popolo. Attraverso questo percorso egli
è diventato «la figura riuscita del perfetto credente»3.
La fede e quindi l’obbedienza a Dio ha raggiunto in Gesù una ricchezza
tale da consentire l’acquisizione definitiva del “Nome”. «In questa
prospettiva la fede di Gesù diventa il principio stesso della modalità
rivelativa e storica dell’incarnazione; e al tempo stesso il fondamento
di quella relazione che attua il regno nella sua persona»4.
Come e a chi
Gesù è stato obbediente. È stato obbediente al Padre nell’ascolto
continuo della sua Parola. Tutta la sua esistenza è stata segnata
dall’ascolto/accoglienza della parola/azione divina che in lui fioriva
come amore fino alla manifestazione estrema della croce. In particolare,
la passione e la morte vengono presentati, dall’inno cristologico
riportato da Paolo nella lettera ai Filippesi, come i momenti supremi
della sua obbedienza («obbediente fino alla morte e alla morte di
croce», Fil 2,8).
Per determinare, però, quale era l’oggetto
specifico della sua obbedienza nella morte occorre tenere presenti
tre dati intrecciati. Il primo è che la morte di Gesù e le sofferenze
che l’hanno preceduta erano contrarie al volere di Dio e, quindi, non
potevano costituire l’oggetto della sua obbedienza. Le sofferenze e la
morte di Gesù furono conseguenze del rifiuto di conversione e dei
peccati, risultato di compromessi politici e ingiusta convergenza di
interessi privati. La morte come tale era contraria al volere di Dio e
Gesù non poteva desiderare di morire. Nella situazione nella
quale si era venuto a trovare, in seguito al rifiuto opposto alla sua
proposta di rinnovamento religioso, Gesù avvertiva la necessità di
continuare a rivelare l’amore di Dio, ad esprimere la
forza del bene, a mostrare che il Vangelo che egli aveva
annunziato corrispondeva a verità ed era “salvifico”. Questa rivelazione
corrispondeva alla volontà di Dio. Gesù, perciò, si è trovato nella
situazione drammatica di compiere il volere di Dio, cioè di obbedire a
Dio, in una situazione ingiusta, peccaminosa e, perciò, contraria alla
sua volontà.
Quando Gesù ha iniziato la sua attività
pubblica, lo ha fatto con la convinzione di poter avere successo e di
ottenere un cambiamento nella vita religiosa del suo tempo. Poi
progressivamente ha suscitato reazioni negative e resistenze profonde.
Allora ha riflettuto sul da farsi, si è confrontato con la Scrittura, ha
pregato a lungo e ha coinvolto i suoi nella preghiera (prese con sé
Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare, Lc 9,28). Infine
ha deciso di continuare il cammino e di salire a Gerusalemme (cfr. Lc
9,51). Si convinse che per mostrare la verità del Vangelo annunziato,
non gli restava altra possibilità che viverlo fino in fondo e attendere
da Dio il segno della sua fedeltà. Fu, quindi, una necessità di
carattere storico a convincerlo di «amare sino alla fine» (cfr. Gv
13,1). Se non avesse consentito a Dio di mostrare la verità del Vangelo
che egli aveva annunziato, tutto sarebbe finito con la sua condanna.
Quale fosse poi il segno della conferma divina, Gesù l’aveva dedotto
dalla tradizione sapienziale (cfr. Sap 2) e dagli scritti profetici, in
particolare dai carmi del Servo, dove si parlava della luce che il Servo
avrebbe visto, delle moltitudini che l’avrebbero riconosciuto.
In questo senso, Gesù non voleva la sua
morte. Ma quando gli uomini l’hanno decisa, egli «doveva
necessariamente continuare la sua missione». Egli voleva continuare
ad amare, a sopportare l’odio e la violenza in modo mansueto, a
introdurre dinamiche salvifiche, a rivelare la misericordia di Dio.
Questo era l’oggetto particolare dell’obbedienza di Gesù al Padre,
esercitata però in una situazione contraria al volere di Dio.
L’efficacia salvifica che apparve nella
obbedienza di Gesù non è nell’ordine dell’efficienza mondana, bensì
della efficacia salvifica. In questo senso il suo progetto subiva uno
scacco temporaneo, che appariva come fallimento. In tale modo l’hanno
vissuto i discepoli e Gesù stesso. Solo che Gesù ha vissuto il suo
fallimento storico in un atteggiamento di totale abbandono fiducioso
nelle mani del Padre, attendendo da Lui la realizzazione del progetto
del Regno. La risurrezione è stata la risposta di Dio all’obbedienza di
Gesù, per cui si dice che Dio lo ha risuscitato. Essa però è fiorita
all’interno dell’azione storica di Gesù, per cui si può anche dire che
Gesù è risuscitato dai morti. L’efficacia salvifica non riguarda
il successo dei progetti storici anche se buoni e giusti, ma consente
alla Vita di realizzare il suo progetto storico, anche attraverso
situazioni di fallimento e di sconfitta. Il progetto della Vita è quella
pienezza che conduce la persona alla identità definitiva e che può
essere sempre raggiunta, anche nel fallimento dei nostri disegni e delle
nostre prospettive.
L’obbedienza dei
discepoli di Gesù
Nella valutazione dell’obbedienza a Dio è
necessario tenere sempre ben presente che il livello, in cui si realizza
l’adesione all’azione di Dio, non è mai quello in cui si svolgono i
fenomeni, ossia non c’è mai una situazione che corrisponda pienamente al
volere di Dio. Ogni evento storico, però, può essere vissuto in modo
funzionale alla crescita dei figli di Dio. Si può dire che nell’atto di
obbedienza non è in gioco solo la persona e gli altri (le circostanze,
la legge, il/la superiore/a, l’oppressore, ecc.), ma è sempre presente
una componente trascendente: il dono di Dio. L’evento storico non
realizza mai pienamente il bene, la verità, la giustizia, la vita,
perché tutte le creature sono sempre limitate e imperfette. La volontà
di Dio riguarda il “termine”, il “compimento”, la “perfezione”, a cui
tutte le situazioni storiche sono funzionali. Per questo l’adesione
di chi obbedisce è sempre provvisoria e tende al superamento della
situazione; il che implica un “distacco interiore”. È questo lo spazio
dove si inserisce la profezia, che è l’obbedienza alla dinamica
trascendente esistente all’interno della storia.
Quando a un cristiano è chiesto di vivere
l’obbedienza di fronte a Dio, non gli è chiesto di ritenere che la
situazione nella quale si viene a trovare corrisponda al volere di Dio o
che la decisione dei superiori si identifichi con il progetto divino.
Questo giudizio non è una componente dell’obbedienza. Ci possono essere
situazioni, infatti, che seri motivi inducono a ritenere
ingiuste e decisioni della cui opportunità è doveroso dubitare ma
nelle quali, tuttavia, obbedire resta necessario. L’obbedienza implica
l’impegno di compiere la volontà di Dio in tutte le situazioni nelle
quali ci è dato vivere, siano esse giuste o ingiuste, perfette o
imperfette. Compiere la volontà di Dio significa rivelare la forza del
bene, esprimere la potenza dell’amore, portare le ingiustizie in modo da
svuotarne le dinamiche negative con spinte opposte. E tutto questo nelle
situazioni che non possiamo eludere, perché di fatto costituiscono il
nostro ambiente di vita, fissate dalle circostanze a volte casuali o
dalle decisioni dei superiori. In tale modo si vive positivamente ogni
esperienza, si ubbidisce cioè a Dio, pur sapendo che le situazioni non
sono ottimali.
L’obbedienza, inoltre, implica la convinzione
che anche il modo come noi operiamo è sempre inadeguato e imperfetto,
tuttavia è sufficiente a condurci “oltre” la nostra azione e a
raggiungere nel tempo quella perfezione personale che ha il compimento
nell’acquisizione del “nome scritto nei cieli” (cfr. Lc 10,20), il nome
di figlio/figlia.
Vivere nella fede gli eventi non significa,
quindi, ritenere che essi siano voluti da Dio, o che corrispondano a un
suo piano nei nostri confronti. Bensì che, abitandoli, possiamo, in ogni
caso, “compiere la volontà di Dio”, cioè rivelare il suo amore e
diffondere le dinamiche del regno. Nella istituzione ecclesiale,
obbedire non significa ritenere che la decisione dei vescovi o, in
genere, dei superiori corrisponda perfettamente alla volontà di Dio. È
possibile, infatti, che alcune loro decisioni siano influenzate da
fattori culturali, da tendenze personali o da pregiudizi, ecc. e che,
quindi, non corrispondano pienamente alla volontà di Dio. Tuttavia,
anche in queste situazioni imperfette e, come tali non corrispondenti al
volere assoluto di Dio, è possibile obbedire a Dio, compiere, cioè, la
sua volontà. Poiché quando si esegue con impegno e animo sereno ciò che
è stato stabilito, si resta nelle regole della vita comunitaria, si
persegue il bene comune, e in questo senso si compie la volontà di Dio.
Il bene che si attua, con l’accettazione delle decisioni comunitarie, è
abitualmente superiore all’eventuale imperfezione che la loro decisione
ed esecuzione comporta. In tale modo, pur non facendo la cosa più
perfetta in assoluto, si è in grado di rivelare l’amore di Dio e la sua
perfezione.
Atteggiamenti
interiori richiesti
Ora possiamo delineare alcuni atteggiamenti
spirituali necessari per vivere l’obbedienza a Dio così delineata.
Possiamo indicarne quattro.
1. L’ascolto continuo della Parola che
risuona all’interno della storia. L’obbedienza a Dio non consiste
nel compiere delle azioni, bensì nell’ascoltare la sua Parola mentre si
compiono gli atti che ci vengono chiesti. L’atteggiamento di ascolto
deriva dalla convinzione che ogni situazione è espressione di una realtà
più ricca e profonda, che essa cioè ha una componente trascendente che
può essere riconosciuta e accolta. Ne deriva la convinzione che
l’esperienza in atto non è l’espressione ultima del bene e della
giustizia, non è la perfezione compiuta, non è il bene assoluto, non è
la verità ma contiene solo piccoli frammenti di verità, di bene, di
giustizia, di vita. L’atteggiamento è molto più fruttuoso quando viene
vissuto insieme da superiori e sudditi.
2. Per questo l’obbedienza deve essere
costantemente avvolta dalla preghiera, perché la preghiera è
l’esercizio dell’ascolto, l’allenamento all’accoglienza. Siccome
l’ascolto deve essere continuo, in quanto si realizza in tutte le
situazioni concrete, e siccome le esperienze quotidiane portano spesso
alla distrazione, perché contengono interferenze e disturbi, è
necessario avere momenti specifici di allenamento all’ascolto per
restare sempre in sintonia. La preghiera è appunto l’allenamento per
restare costantemente in sintonia con la forza creatrice, con la parola
che risuona all’interno degli eventi.
3. Coinvolgimento pieno nella situazione,
perché se non c’è un pieno coinvolgimento non si è in grado di farne
emergere quel frammento di vita, di bene, di verità che essa contiene.
Se, per esempio, si obbedisce a un superiore
con riserve interiori, con distanza, pensando “lo faccio perché me l’hai
detto, tanto so che non conduce da nessuna parte”, certamente questo non
condurrà da nessuna parte; manca quel coinvolgimento che consente al
frammento del bene, del vero, del giusto di emergere, di essere vissuto,
quindi di apparire nella sua efficienza, di raggiungere la sua
efficacia.
4. L’intenzione fondamentale deve essere
sempre il “regno di Dio”, che a livello personale è lo sviluppo
della dimensione spirituale della persona, e a livello sociale la
diffusione di stili nuovi, fraterni e giusti. È urgente non considerare
come “criterio” la realizzazione del proprio progetto e neppure ciò che
ha deciso il superiore, o la superiora, o ciò che in se stesso l’evento
implica. L’oggetto dell’obbedienza è la vita che fluisce, il bene che
cerca nuove strade, la verità che vuole esprimersi: cioè quel qualcosa
di più grande che è sempre in gioco nella nostra vita. Pertanto il dato
costitutivo dell’obbedienza è proprio l’attenzione a questo “di più”
che costantemente cerca di esprimersi e per il quale ci viene
chiesta l’obbedienza.
Quando nei monasteri, nelle comunità
religiose o ecclesiali si vivono questi atteggiamenti, si è in grado di
superare quella tentazione di autoreferenzialità, che caratterizza il
narcisismo, ma anche l’atteggiamento passivo di assoggettamento, che
impedisce alla vita di inventare le sue forme nuove nelle diverse
situazioni storiche.
L’obbedienza religiosa quindi richiede
l’orizzonte teologale, è cioè “atto di fede”, abbandono fiducioso a
Dio, accoglienza del dono di vita per mezzo del quale possiamo crescere
come figli e figlie.
Le ragioni che si possono portare per
eseguire l’ordine o rifiutare l’obbedienza riguardano generalmente il
piano superficiale: essere più o meno adatti a un determinato compito,
potere inserirsi in modo armonico nella comunità, ecc. Ragioni valide ma
non sufficienti per una obbedienza religiosa. Queste non sono “le”
ragioni per cui si deve obbedire se si vuole compiere un atto
teologale. La “ragione” dell’ubbidienza è che in quella
situazione sei chiamata ad accogliere un dono di vita, per cui cresci
come figlia/o di Dio; sei in grado, cioè, di interiorizzare un dono
divino che alimenta la tua struttura filiale.
“Oggetto” dell’ubbidienza non è la situazione
che ti viene indicata, ma il dono che essa ti consente di accogliere. Di
per sè la situazione che ti è indicata dall’obbedienza non è detto che
sia la migliore o la più adatta. Obbedire vuol dire quindi: in questa
situazione, che non dipende da me, perché legata a decisioni di altri o
a circostanze casuali, mi impegno ad ascoltare e ad accogliere la parola
di Dio per testimoniare il suo amore e crescere come figlia/o di Dio.
Per educare all’obbedienza, perciò,
occorre educare all’ascolto della Parola, alla consapevolezza della
presenza operante di Dio nella propria vita.
Obiezione di
coscienza
La riflessione sull’obbedienza non è completa
se non si confronta con la possibile obiezione di coscienza. L’obiezione
di coscienza è l’espressione della obbedienza a Dio, quando essa entra
in conflitto con la volontà degli uomini, è la rivendicazione della
libertà dei figli, e delle figlie, nei confronti della legge che va
contro la propria coscienza. S. Pietro di fronte al Sinedrio ne esprime
in modo efficace il principio: «bisogna ubbidire a Dio piuttosto che
agli uomini» (At 5,2).
Durante la storia della Chiesa, soprattutto
nei primi secoli, vi sono state diverse forme di obiezione di coscienza,
anche nella modalità suprema del martirio. Man mano però che la Chiesa
acquistava strutture di potere o ne diventava alleata, l’obiezione di
coscienza è diventata più rara e più difficile. Negli ultimi secoli la
morale cristiana ha avuto difficoltà ad ammettere come legittime alcune
forme di obiezione di coscienza che sembravano imporsi come doverose.
Pio XII, in un discorso che ebbe una certa risonanza, perché
pronunciato ai tempi delle prime forme, fra i cattolici, di obiezione di
coscienza al servizio militare, diceva: «Se dunque una rappresentanza
popolare e un governo… in estremo bisogno, coi legittimi mezzi di
politica estera ed interna, stabiliscono provvedimenti di difesa ed
eseguiscono le disposizioni a loro giudizio necessarie, essi si
comportano egualmente in maniera non immorale, di guisa che un cittadino
cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di
prestare i servizi e adempiere i doveri fissati dalla legge»5.
Neppure dieci anni dopo il discorso di Pio XII, il Concilio ha dato
indicazioni chiare circa la legittimità della obiezione di coscienza al
servizio militare, invitando i governi a fissare delle leggi
corrispondenti: «Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi
provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza,
ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra
forma di servizio della comunità umana»6.
Oggi questo è diventato un atteggiamento ufficiale nella Chiesa, al
punto che Vescovi e Movimenti ecclesiali ufficiali non hanno difficoltà
a proporre, ad es., l’obiezione fiscale contro le spese militari.
L’obiezione di coscienza, però, è legittima
solo quando esprime una fedeltà al futuro del Regno. Altrimenti è
espressione di interessi privati e di egoismi, che sono forme di
fedeltà al passato. La vera obiezione di coscienza non è, quindi,
semplicemente un rifiuto, ma è una profezia e l’indicazione di un
cammino.