Premessa
**"Passione per Cristo,
passione per l’umanità”. È questo il titolo del Congresso sulla
Vita Consacrata che si è svolto a Roma (novembre 2004) per iniziativa
delle due Unioni dei Superiori Generali, maschili e femminili.
Al Congresso hanno
partecipato 847 consacrati/e di tutti i continenti, di ogni
congregazione e di ogni età.
Le due icone proposte
dal documento di lavoro erano: il buon samaritano e la donna samaritana.
Non vi è dubbio che
oggi la globalizzazione si presenti a tutti come un tempo di
interrogazione e di cambiamento, di grandi speranze ma anche di
drammatiche minacce. È una dimensione cui non possiamo sottrarci ma alla
quale è possibile reagire in forme diverse. Abitare la globalizzazione
pone ai cristiani l’istanza di una estensione della solidarietà e
della giustizia su scala planetaria.
Ma pone anche
l’esigenza di un nuovo stile di “cattolicità ecumenica” che sia
capace di far vivere in modo originale la dialettica tra località e
universalità.
Il cristiano è chiamato
ad abitare la storia con un atteggiamento di speranza, anche nei suoi
momenti più difficili e di svolta, come appare appunto l’epoca della
globalizzazione. Per prendere il largo e annunciare il Vangelo della
speranza, il cristiano è invitato a spezzare le catene della paura e a
liberarsi dalla “legge del timore” (Pacem in terris, 67).
Stando alle etimologie,
anche se fantasiose e creative del Vescovo Isidoro di Siviglia, la
parola “spes” (speranza) deriverebbe da “pes” (piede) a dimostrazione
dello stretto legame che unisce la speranza al cammino. Come a dire
soltanto colui che sa “abitare camminando” nella storia può dirsi
animato dal dinamismo di una grande speranza. Se il cristiano fa muovere
la storia è perché sa dare piedi alla speranza che è in lui1.
Come nel nostro tempo
viene a suggerirci la suggestiva immagine di Charles Peguy: la virtù
bambina della speranza che, tenendole per mano, trascina dietro di sé le
altre due virtù della fede e della carità.
1. Cinque atteggiamenti già esistenti nei
confronti della globalizzazione
Il più delle volte
trascuriamo di dare importanza all’atteggiamento con cui l’uomo vive
all’interno dei processi storici. È invece da sottolineare che il
giudizio che diamo sulla storia dipende non poco dalla disponibilità
interiore con cui la abitiamo. Ad esempio, nei confronti della
globalizzazione è possibile oggi fare una ricognizione di almeno cinque
atteggiamenti che sono già stati espressi:
a) Global: è stato ed è ancora l’atteggiamento prevalente, quello
del pensiero unico, secondo cui è bene che le cose procedano così,
perché in fondo ci guadagnano tutti. L’economia deve essere liberata da
ogni regola (deregulation) per poter meglio perseguire lo scopo
suo proprio, cioè la produzione del profitto. Giustizia e solidarietà
vengono invece completamente espunte dal lessico economico. Siamo
dinanzi a un’economia a “etica zero” e a “politica muta”2.
b) No global: è l’atteggiamento che ha ispirato e ispira ancora il
movimento emerso in particolare con le manifestazioni di Seattle (1999),
poi confluito nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre, almeno nella
fase iniziale. La sua caratteristica è l’antagonismo e l’opposizione
frontale verso la globalizzazione come espressione del neoliberismo
capitalista3.
c) New global: per comprendere correttamente il passaggio dal no
global al new global bisogna partire dalla svolta che si è registrata
durante il secondo Porto Alegre con il titolo “Un mondo
diverso è in costruzione”. È infatti aumentata la consapevolezza che
proprio utilizzando gli aspetti positivi della globalizzazione sia
possibile ridurre quelli negativi. Non si tratta di rifiutare la
globalizzazione ma di creare una nuova globalizzazione dal basso,
quella della solidarietà, della democrazia, dei diritti umani, ecc. Lo
stesso Giovanni Paolo II ebbe a dire: «La globalizzazione, a priori, non
è né buona né cattiva, sarà ciò che le persone ne faranno» (discorso del
27 aprile 2001 alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali)4.
d) Postglobal: nel volume Postglobal (2004) di
Mario Deaglio si afferma che l’ottimismo suscitato dalla globalizzazione
è ormai tramontato ed essa appare oggi come un sogno infranto e svanito.
Siamo dinanzi ad una esperienza conclusa, a un giro di boa. Una lettura
postglobal non presuppone un giudizio di valore ma indica un ventaglio
di problemi e prospettive in cui la sola cosa certa è la fine di
tempi relativamente facili. A molti osservatori appare chiaro che
siamo dinanzi a una nuova fase identificata come “globalizzazione-arcipelago”.
Dentro alle isole regionali dell’arcipelago bisogna sottolineare
l’ascesa della Cina come la più dirompente. Si può quindi
argomentare con forza in favore di una globalizzazione diversa e occorre
chiedersi se il livello di vita dei Paesi ricchi sia ancora un obiettivo
effettivamente raggiungibile, o anche solo desiderabile, per l’intera
umanità5.
e) De-globalizzazione: quest’ultimo atteggiamento è
particolarmente sviluppato dall’economista filippino Walden Bello, per
il quale lo smantellamento (decostruzione) della vecchia globalizzazione
richiede però di essere accompagnato da uno sforzo di ricostruzione.
Scrive Walden Bello: «il contesto per discutere la deglobalizzazione è
fornito dalla crescente presenza non solo di povertà, disuguaglianza e
stagnazione che hanno accompagnato la diffusione dei sistemi di
produzione globalizzati, ma anche dalla loro insostenibilità e fragilità
(…). Deglobalizzazione non significa ritirarsi dall’economia
internazionale. Significa riorientare le economie dall’enfasi sulla
produzione per l’esportazione alla produzione per il mercato locale». In
tal senso la deglobalizzazione può aver successo soltanto se avviene
all’interno di un sistema alternativo di governo economico globale6.
Dei vari atteggiamenti
che abbiamo finora richiamato quello che noi incoraggiamo è soprattutto
un atteggiamento critico verso la globalizzazione che non va demonizzata
né santificata. Un atteggiamento che sia attento a mettere in evidenza
luci ed ombre, vantaggi e svantaggi, aspetti positivi e negativi.
Tuttavia, se la globalizzazione non rispetta la dignità umana e le
regole dell’etica, non c’è dubbio che essa si configuri come una
nuova forma di colonialismo.
2. Gli effetti collaterali della
globalizzazione
Dopo aver visto gli
atteggiamenti, passiamo ora all’analisi degli “effetti collaterali” (per
usare un’espressione di Bauman) della globalizzazione sulle persone,
sulle culture, sulle religioni, sulle istituzioni politiche (in
particolare lo Stato nazionale), sui luoghi e sull’ambiente naturale. In
questo modo il nostro esame diventa più concreto.
2.1. Sulle persone
È sulle persone e sulle
famiglie che ricade la prima conseguenza della globalizzazione. Oggi,
infatti, cresce la solitudine del cittadino, proprio mentre si sviluppa
la società reticolare. È questa una realtà paradossale che genera tanta
sofferenza. Aumenta negli individui il bisogno di comunità, ma poi si
finisce per restare soli con se stessi. Non c’è da farsi illusioni:
nelle nostre “società individualizzate” le persone che stanno male e che
soffrono per mancanza di relazioni umane e comunitarie sono sempre più
numerose. La solitudine diventa così la prima forma di povertà. Bisogna
allora evitare che le persone si sentano abbandonate prendendosi cura di
loro, assicurando la nostra compagnia.
È soprattutto Bauman
che mette in evidenza la frattura individuo/comunità. Nel libro La
solitudine del cittadino globale (2000) egli mostra come si
allentano i legami sociali e vengono meno i vincoli di appartenza alla
comunità. La globalizzazione produce – secondo Bauman – un effetto di
desocializzazione (cfr. Modernità liquida, 2000) e fa
emergere “l’uomo modulare” (componibile, mutevole, proteiforme).
La globalizzazione
oltre il senso di solitudine, aumenta il clima di incomunicabilità, il
sentimento di paura e un generale indebolimento dell’identità7.
2.2. Sulle culture
Un secondo effetto
collaterale della globalizzazione riguarda la cultura, sia nel senso di
“mentalità” sia nel senso di “culture locali”. Dice
Giovanni Paolo II: «ciò che più preoccupa la Chiesa è che il mercato
si è trasformato in cultura e che proprio per questo le persone
“pensano e agiscono” secondo la logica di mercato» (discorso del 27
aprile 2001 alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali). Ossia il
mercato non è più soltanto una realtà economica e finanziaria, ma una
realtà spirituale, culturale, liofilizzata, ideale, “una logica”
appunto, che ha permeato le teste delle persone. Questo vuol dire che
il neoliberismo oggi non è più soltanto una dottrina economica ma è già
diventato una dottrina antropologica.
Ma la globalizzazione
si riflette anche sulle culture locali delle popolazioni, producendo
effetti di omologazione e di de-culturazione e deprivando i più
poveri della loro unica ricchezza: la cultura e la tradizione. Anche nei
Paesi del Sud del mondo i mass media promuovono una monocultura
globale di stile occidentale. Questo si vede nell’alimentazione, nel
modo di vestire, nei divertimenti, nella musica e nello sport, imponendo
non soltanto quello che la gente deve mangiare, bere e indossare, ma
perfino che cosa deve sentire, desiderare e pensare.
In questo modo invece
che un pluralismo culturale viene a diffondersi un pericoloso
pensiero unico globale. Ignacio Ramonet nel suo libro La tirannia
della comunicazione8 denuncia
il fenomeno inquietante di tanta gente che smette di pensare con la
propria testa e assume un pensiero replicante. A questo si aggiunga che
la televisione propone e diffonde modelli di stupidità, spesso
demenziali, e dà luogo alla forma di clonazione più pericolosa, quella
dei cervelli. Siamo dinanzi alle conseguenze devastanti di una morbida
dittatura mediatica: la videocultura.
2.3. Sulle religioni
In un interessante
studio dal titolo “religioni e globalizzazione”9,
il sociologo Enzo Pace afferma che per le grandi religioni storiche, di
respiro mondiale, (dal Cristianesimo all’Islam, dall’Induismo al
Buddismo) la globalizzazione pone alcune sfide. La più importante di
queste è l’aumento del grado di pluralismo religioso in molte società,
non solo in quelle occidentali: persone di fedi un tempo percepite come
lontane, diventano i vicini della porta accanto.
Tutto ciò può avere
effetti contrastanti. Le persone imparano – non senza conflitti – a
convivere prima tollerandosi e, dopo alcune generazioni, mescolandosi
insieme (con i matrimoni misti), sviluppando la curiosità o il rispetto
reciproco nei confronti delle feste religiose, celebrate dall’uno o
dall’altro, con la diffusione di usi e costumi alimentari o di
abbigliamento attraverso il mercato dei beni etichettati come etnici. Le
religioni nella società globalizzata possono correre il rischio di
esaltare eccessivamente la loro funzione di essere depositarie delle
memorie collettive di popoli interi, una garanzia offerta al sentimento
d’appartenza a un comune destino. Le religioni diventano, in tal caso,
l’ultima certezza dell’identità collettiva in un tempo in cui il senso
di sradicamento delle persone aumenta sempre di più. Le religioni
possono svolgere una funzione educativa molto importante come in alcuni
casi hanno già dimostrato di sapere e poter fare10.
2.4. Sulle istituzioni politiche
Un altro degli effetti
collaterali della globalizzazione riguarda gli Stati nazionali che
appaiono sempre più inadeguati ed obsoleti. Non è infatti possibile
affrontare problemi globali (come l’ecologia, le emigrazioni, la pace,
la fame, l’aids, ecc.) con politiche locali o nazionali. Emerge
chiaramente che l’intera architettura istituzionale nata dopo il
trattato di Westfalia (1648) è ormai insufficiente. Non basta più il
principio di indipendenza, né il principio di sovranità (superiorem
non recognoscens). Come afferma Giovanni Paolo II nel suo messaggio
per la Giornata mondiale della pace 2004, occorre un grado superiore
di ordinamento internazionale.
Ma il problema di fondo
che pone la globalizzazione è come conservare il rapporto tra sistema
politico e democrazia, come evitare che le istituzioni democratiche
subiscano una pericolosa crisi di delegittimazione, nel momento in cui i
processi economici globali provocano una riduzione dello stato sociale
(welfare) e i governi nazionali nulla possono rispetto ai poteri
che li sovrastano. Ha osservato Stefano Zamagni che: «tutti gli
strumenti politici dello Stato-nazione (tasse, organismi di controllo,
sicurezza militare, politica estera) sono legati a un territorio ben
definito. Le imprese, invece, possono produrre in un Paese, pagare le
tasse in un altro, in un terzo richiedere aiuti e contributi statali.
Una delle conseguenze più gravi consiste nell’aumento dell’instabilità
finanziaria. Fra tutti i beni che circolano liberamente nei mercati
mondiali quello che si muove con più libertà, rapidità e virulenza è la
finanza. In effetti, la “globalizzazione finanziaria” rappresenta il
fenomeno più impressionante del mondo contemporaneo»11.
Secondo il sociologo
tedesco Ulrich Beck12, con la
globalizzazione dei mercati siamo in quella che definisce l’era dello
“sguardo cosmopolitico”. Questo significa che i nostri comportamenti
quotidiani si riferiscono ormai, volendo o no, ad orizzonti
plurinazionali. Per questo la nostra identità individuale si riflette in
uno sguardo cosmopolitico che sintetizza ecletticamente insieme diverse
identità e tradizioni culturali.
2.5. Sui luoghi e sull’ambiente naturale
La globalizzazione ha
anche aggravato la frattura tra locale/globale rendendo evidente
la pluralità delle culture che si intrecciano sullo stesso territorio.
Non c’è più corrispondenza diretta tra luogo e cultura. In generale,
possiamo dire che nel tempo della globalizzazione il territorio si
dissolve ed evapora, oppure che tende a chiudersi, ad arroccarsi. Sicché
assistiamo a quei fenomeni che vengono chiamati di
de-territorializzazione, oppure alla diffusione dei “nonluoghi”
(Marc Augé), sia a forme di localismo come mostrano i fenomeni delle
leghe e del revival etnico13.
È dunque importante far
capire che la globalizzazione non abolisce i confini territoriali ma
certamente ridefinisce lo spazio. Diventa allora opportuno riscoprire il
radicamento nel proprio “luogo” attraverso una strategia di
ri-localizzazione. Serve una nuova antropologia dei luoghi e dunque
delle tradizioni. Delle comunità, dei valori locali. La prospettiva
“glocale” (Roland Robertson, 1999) che da alcuni anni si è venuta
affermando, ci offre la possibilità di valorizzare la dimensione locale
come nodo del globale. La sfida che dobbiamo intraprendere è quella di
vivere in modo glocale, ossia in modo da non perdere il luogo come
spazio in cui esprimiamo la nostra partecipazione, dal momento che tutto
il mondo diventa il nostro orizzonte di riferimento (terra-patria). Non
possiamo limitarci ad agire localmente e pensare globalmente, ma
dobbiamo pensare e agire sia a livello locale che globale avendo
presente la complessità in cui viviamo. Anche per gli effetti della
globalizzazione sull’ambiente naturale le analisi concordano: il
processo di globalizzazione è responsabile del degrado ecologico e
dell’inquinamento del pianeta. L’aria, l’acqua, il sole, il suolo, le
foreste e le varie forme di vita sono state messe in crisi dalla moderna
cultura industriale incapace di stabilire una relazione sostenibile con
l’ambiente naturale14. A causa
degli sprechi, che caratterizzano lo stite di vita dei ricchi in tutto
il mondo, l’esaurimento delle risorse e i danni sull’ambiente sono
diventati una minaccia per la vita delle generazioni sia presenti che
future.
3. Il cristiano non è uno spettatore passivo
dinanzi allo “spettacolo del mondo”
Sono tante ogni giorno
le immagini e le cifre del “dolore delle persone” che scorrono davanti
ai nostri occhi. I mass media ci mettono a contatto con le tragedie del
mondo e si corre il rischio che tutto si trasformi in un unico
spettacolo globale che ci rende spettatori informati ma passivi e
impotenti di fronte ad esso. Il cristiano non può accontentarsi di
sapere e di essere informato sulla povertà e le sofferenze che agitano
il mondo. Limitarsi a questo sarebbe una forma di deresponsabilizzazione.
3.1. I poveri del mondo non ci fanno dormire
Il cristiano è chiamato
a prendere parte, a scegliere e a intervenire. Proprio come fece il buon
samaritano lungo la strada che da Gerusalemme scendeva verso Gerico.
Il cristiano non può
accettare la logica del più forte, né l’idea che la presenza dei poveri
e degli emarginati nella società sia frutto dell’inesorabile fluire
della storia, una fatale circostanza. Ecco perché egli è tenuto
responsabilmente a discernere e giudicare ciò che la globalizzazione sta
operando nella società. Bisogna riconoscere, come ha osservato il
direttore de La Civiltà Cattolica, padre Salvini,
che non possono essere attribuite alla globalizzazione soltanto le cause
dell’impoverimento, perché questo non corrisponderebbe al vero. Ma non
v’è dubbio che la globalizzazione abbia avuto effetti gravemente nocivi
per i settori più poveri di gran parte delle società del Terzo Mondo.
Essa ha aumentato la produzione di quei beni che possono essere venduti
ai ricchi, non dei beni di cui hanno bisogno le masse dei più poveri.
Inoltre, la globalizzazione ha favorito la commercializzazione della
maggior parte dei servizi e degli aspetti della vita: istruzione e
sanità in particolare.
La povertà è uno dei
più grandi problemi del nostro tempo. Dei 6 miliardi di persone nel
mondo, 2,8 miliardi vivono con meno di 2 dollari al giorno, mentre 1,2
miliardi non dispongono nemmeno di un dollaro al giorno. Otto bambini su
100 non arrivano ai 5 anni. Nove ragazzi e 14 ragazze su 100 non vanno a
scuola. Queste sono solo alcune delle disastrose conseguenze della
povertà. Scrive l’economista Stefano Zamagni: «La globalizzazione è un
processo che aumenta bensì la ricchezza complessiva (e dunque
rappresenta un gioco a somma positiva), ma determina al tempo stesso
vincitori e vinti. In altre parole la globalizzazione riduce la povertà
in senso assoluto mentre aumenta la povertà in senso relativo. Paesi
come quelli del Sudest asiatico e alcuni Paesi dell’America Latina sono
usciti dallo stato di povertà assoluta – stato nel quale versavano da
secoli – solo a seguito dell’intervenuta liberalizzazione dei mercati.
Chi versa in condizioni tragiche è oggi il continente africano. Ma ciò è
accaduto proprio perché tale continente è rimasto tagliato fuori dal
processo della globalizzazione».
Come spiega il Nobel
per l’economia Amarthya Sen: «il mondo in cui viviamo è allo stesso
tempo, notevolmente comodo e assolutamente povero. Il nostro mondo,
assai più ricco di quanto sia mai stato, sperimenta una prosperità senza
precedenti. I nostri antenati avrebbero perfino faticato ad immaginare
la gestione su larga scala delle risorse, la conoscenza e la tecnologia
che oggi diamo per acquisite. Ma
il nostro è anche un mondo di estreme privazioni e disuguaglianze
sconvolgenti. È impressionante il numero di bambini malnutriti,
analfabeti, e condannati a morire, ogni settimana a milioni, di malattie
che potrebbero essere completamente debellate o alle quali, se non
altro, potrebbe essere impedito di uccidere persone abbandonate a se
stesse»15.
L’ingiustizia
internazionale ci deve far pensare al divario economico e al divario
digitale, allo squilibrio cioè sia dell’economia Nord-Sud, sia a quello
dell’informazione e della comunicazione.
Wolfgang Sachs
dell’Istituto tedesco di Wuppertal si è posto questa domanda: «quanti
sono i cittadini del mondo che posseggono i seguenti tre beni messi
insieme: una automobile privata, un computer dentro casa e un conto in
banca?». La risposta è stata solo l’8% della popolazione mondiale
possiede tutte queste tre cose insieme. L’Africa ha 700 milioni di
abitanti ma solo l’1% degli africani ha il telefono. Come è possibile,
in queste condizioni, pensare all’uso di Internet?
Secondo un recente
rapporto ONU un miliardo di persone non è in grado di soddisfare i
bisogni più elementari. Dei 4,5 miliardi di abitanti dei Paesi in via di
sviluppo, tre quinti non dispongono di qualche infrastruttura
essenziale: un terzo di acqua potabile; un quarto di alloggi degni; un
quinto di assistenza medica e sanitaria. Un bambino su cinque frequenta
la scuola per meno di un quinquennio; un bambino su cinque è
sottoalimentato in modo permanente. In 70-80 dei circa cento Paesi “in
via di sviluppo” il reddito medio pro capite è oggi più basso di dieci e
perfino trent’anni fa. All’estremo opposto, tre degli uomini più ricchi
del mondo hanno redditi personali superiori al prodotto interno lordo
complessivo dei 48 Paesi più poveri (ossia di 600 milioni di cittadini)
e le fortune delle 15 persone più ricche superano il prodotto
dell’intera Africa subsahariana.
In un saggio intitolato
Povertà e disuguaglianze in un mondo in via di globalizzazione
il sociologo ebreo polacco Zygmunt Bauman afferma che la globalizzazione
incontrollata ha conseguenze raccapriccianti. Milioni di persone sono
colpite direttamente con la perdita dei mezzi di sussistenza, della
dignità personale e del benessere, fino alla caduta nell’indigenza; il
divario tra ricchi e poveri, vincitori e vinti è più ampio che mai. In
conclusione, non è possibile ignorare quanto ci ricorda Stiglitz: «la
globalizzazione, oggi, non funziona per molti poveri del mondo. Non
funziona per gran parte dell’ambiente. Non funziona per la stabilità
dell’economia globale (…). Per alcuni la risposta è semplice:
abbandonare la globalizzazione. Questo però non è fattibile, né
auspicabile (...) il problema non è la globalizzazione ma come è stata
gestita»16.
3.2. Per una globalizzazione “equa” (Rapporto
OIL)
Oggi chi riflette sulla
globalizzazione non può prescindere dal rapporto 200417
presentato dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) con il
titolo A fair globalization. Creating opportunities for all (una
globalizzazione equa: creare opportunità per tutti).
Questo studio della
Commissione mondiale sulla dimensione sociale della globalizzazione, che
è stata istituita dall’OIL, ha visto impegnati per due anni 24
autorevoli rappresentanti del mondo politico, economico, lavorativo,
accademico e sociale dell’intero pianeta. In generale il Rapporto mette
in evidenza che sono ancora troppe le persone che non partecipano ai
benefici della ricchezza creata. Vista attraverso gli occhi della grande
maggioranza delle donne e degli uomini la globalizzazione non è venuta
incontro alle elementari e legittime aspirazioni a un posto di lavoro
dignitoso e a un futuro migliore per i propri figli.
Complessivamente, il
Rapporto mette in evidenza come questo scenario sia “eticamente
inaccettabile e politicamente insostenibile” e sia riconducibile a uno
squilibrio tra economia, società e politica: la dimensione globale
dell’economia non ha portato con sé altrettanta globalizzazione delle
istituzioni sociali e politiche. Pertanto, il dibattito sulla
globalizzazione deve diventare un dibattito sulla democrazia e sulla
giustizia sociale e occorre urgentemente compiere scelte per rinnovare
le istituzioni e le politiche.
Oggi quasi tutto è
globalizzato, non lo sono però né i valori nè le dimensioni etiche. Il
Rapporto si conclude quindi con la speranza che sia possibile un’altra
globalizzazione. Il richiamo a condividere un approccio etico comune si
concretizza in un appello a perseguire i seguenti obiettivi:
a) il rispetto della
dignità della persona umana, dei diritti umani, dell’uguaglianza tra
uomini e donne;
b) il rispetto per
le diversità culturali, religiose, politiche. In particolare, la
globalizzazione potrebbe condurre ad una diversità multiculturale, che
non sia omogeneizzazione, integrazione indesiderata o statica
conservazione. Essa deve essere un processo di creativa ridefinizione
nel quale le tradizioni locali e globali e gli stili di vita si uniscono
per ricreare nuove forme a tutti i livelli;
c) l’equità,
chiaramente riconosciuta dalle persone di tutti i Paesi come uno
standard di giustizia. Si tratta di garantire, mediante regole
economiche globali, le stesse opportunità e gli stessi benefici a tutti
i Paesi, tenendo conto delle differenze nazionali per quanto riguarda le
capacità ed i bisogni di sviluppo;
d) la
globalizzazione solidale, affinché siano superate le disuguaglianze
sia all’interno di ogni Paese, sia tra Paesi diversi e si contribuisca a
un reale superamento della povertà. La solidarietà è basata sul
riconoscimento che, in un mondo interdipendente, la povertà o
l’oppressione, in qualsiasi luogo, sono una minaccia alla prosperità e
alla stabilità dovunque;
e) il rispetto per
la natura, in base al quale la globalizzazione deve essere
ecologicamente sostenibile, cioè rispettare la naturale diversità delle
forme di vita presenti sulla terra e la vitalità dell’ecosistema,
assicurando l’equità tra le generazioni presenti e quelle future.
A questo punto, oltre
al Rapporto OIL, è opportuno richiamare la Dichiarazione del
Millennio, sottoscritta nel 2000 da 189 capi di Stato e di governo
contro la povertà e per un mondo più equo e più giusto entro il 2015,
con otto obiettivi principali contro la povertà a livello mondiale:
1. eliminare l’estrema povertà e la
malnutrizione;
2. garantire ai bambini
l’istruzione primaria;
3. promuovere l’uguaglianza di
genere e combattere le discriminazioni;
4. ridurre di due terzi la
mortalità infantile;
5. migliorare la salute
riproduttiva;
6. combattere l’AIDS, la malaria e
altre malattie;
7. assicurare la sostenibilità
ambientale;
8. creare una partnership globale a
favore dello sviluppo.
3.3. Globalizzazione e processi migratori:
giustizia e dialogo
Oggi, tuttavia, il
servizio ai poveri deve fare i conti non solo con il processo di
globalizzazione ma anche con i flussi migratori che ad esso sono
collegati. Ecco allora il motivo per cui ci sembra opportuno richiamare
il documento del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti
Erga Migrantes caritas Chisti (maggio 2004).
Secondo questo
documento il fenomeno delle migrazioni che interessa sul piano mondiale
circa 200 milioni di uomini e donne non è solo un fatto sociologico ma
un vero kairòs, un tempo favorevole per chi legge la storia con
gli occhi della fede.
I cristiani devono
farsi promotori di una cultura dell’accoglienza che sappia apprezzare i
valori autenticamente umani degli altri. Di qui la necessità di una
formazione alla “mondialità”, cioè ad una nuova visione della comunità
umana, considerata come famiglia di popoli, a cui finalmente sono
destinati i beni della terra nella prospettiva del bene comune
universale. Il passaggio da società monoculturali a società
multiculturali può rivelarsi segno della viva presenza di Dio nella
storia perché offre un’opportunità provvidenziale per realizzare il
piano di Dio di una comunione universale. I cristiani sono chiamati
perciò a testimoniare e praticare, oltre allo spirito di tolleranza –
che pure è un’importante acquisizione politica e culturale – il rispetto
dell’identità altrui, avviando dove è possibile e conveniente, percorsi
di condivisione con persone di origine e cultura differenti, in vista
anche di un rispettoso annuncio delle propria fede.
Con il pontificato di
Benedetto XVI si apre oggi una nuova pagina nella storia della Chiesa
che, pur confermando la prospettiva di ecumenismo e di dialogo tra
credenti e non credenti, assegna un risalto particolare alla
testimonianza del distintivo cristiano, come si potrebbe dire
riprendendo una felice espressione di Romano Guardini, uno dei maestri
dell’attuale pontefice. Questa formula appare oggi utile per comunicare
in modo sintetico la visione cristiana dell’uomo, della vita del mondo,
in una società delle differenze o forse, ancor più dell’indifferenza.
Oggi diventa importante
questo richiamo al distintivo cristiano perché viviamo nella dittatura
del relativismo, nel trionfo del pensiero debole e di un nichilismo
morbido e silente. In questa nostra società invertebrata, dove tutto
tende a diventare cartilaginoso e mellifluo, si sente di nuovo il
bisogno di tracciare dei confini e di andare oltre il relativismo. Il
paradigma del distintivo cristiano rimette al centro sia la cultura
della resistenza, sia la prospettiva dell’identità assertiva e del
“civile cattolico” fino alla riaffermazionie di valori “non
negoziabili”.
Una simile presenza,
che per taluni osservatori rimane comunque improponibile nel contesto
attuale, è invece quella di cui appare portatore Benedetto XVI.
4. Che fare? Tre strategie di cambiamento per
umanizzare la globalizzazione
Ogni cristiano ha il
compito storico di umanizzare la realtà sociale attraverso
l’intelligenza della fede, bevendo al proprio pozzo, come fece la donna
samaritana al pozzo di Sicar e diffondendo anticorpi cognitivi
per contrastare gli aspetti inaccettabili del pensiero dominante e
promuovere una nuova cultura. La lotta contro le ingiustizie della
globalizzazione richiede una spiritualità che implica un forte impegno
per i valori del regno, cioè l’opzione per la liberazione degli
oppressi. Questa scelta comprende una visione di giustizia per tutta
l’umanità e per l’ambiente naturale, proponendo valori, relazioni e
strutture alternative.
Le beatitudini
sono per i cristiani la magna charta della cittadinanza evangelica
che è la cittadinanza del regno (Mt 5,1-12), presenza profetica dentro
la storia.
Gesù inizia il discorso
della montagna non con concetti astratti, ragionamenti teorici,
definizioni incontestabili, ma con un linguaggio di bellezza, con una
serie di beatitudini, cioè di “rallegramenti” che non segnano il limite
del minimo indispensabile, ma tracciano l’ideale del massimo possibile.
Nelle beatitudini non viene definito ciò che è giusto e doveroso, ma ciò
che al Signore piace, ciò che costituisce la gioia di Dio e la felicità
dell’uomo. Non vengono elogiate le virtù in astratto ma ci si congratula
con le persone: i poveri, gli umili, i puri di cuore, gli afflitti, i
misericordiosi, gli operatori di pace. Non ci troviamo di fronte ad un
elenco di precetti o di comandamenti, ma alla proposta di un modello di
santità e di vita.
Le beatitudini
evangeliche rappresentano l’identikit del discepolo/a di Gesù,
una carta d’identità del singolo cristiano e quasi una costituzione
per il popolo della nuova alleanza che Gesù è venuto a fondare.
In queste ultime pagine
verranno presentate le strategie, cioè le direttrici per
l’azione, che riteniamo più efficaci per non subire la globalizzazione
ma trasformarla dall’interno in una prospettiva di umanizzazione.
4.1. La via (culturale) delle idee per
rinnovare il pensiero a partire dall’intelligenza della fede.
La prima via di
cambiamento è quella culturale, che fa leva sulle idee, sulla
“metànoia” perché sia possibile una nuova ecologia della mente, una
riforma del pensiero. Ogni cristiano ha il compito storico di
valorizzare l’intelligenza della fede per non condannarla a una
sterilità culturale. Per poter fecondare ogni cultura il cristiano deve
dare voce al ricco patrimonio della dottrina sociale impegnandosi a
“decolonizzare l’immaginario” e a liberarsi dalla forza seduttiva
della narrazione economica dominante. In particolare il cristiano deve
sentirsi impegnato a contrastare il pensiero unico con un pensiero
divergente, non omologato, non conformista, che gli consenta di proporsi
nella società come “riserva profetica” e “luogo di contropotere”.
Decolonizzare il nostro immaginario
Il lavoro deve
cominciare da noi stessi. Il nemico non è soltanto fuori di noi ma è già
dentro di noi, nella nostra testa. Il nostro immaginario è già
colonizzato. Tutti abbiamo la necessità di una catarsi, di una
disintossicazione. Dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario dai miti
del progresso, della scienza e della tecnica. L’economista Serge
Latouche propone di abbandonare, ad esempio, il concetto di “sviluppo”
perché è una parola tossica, e puntare invece sull’idea di decrescita.
Non abbiamo altre alternative che disintossicarci. L’accesso all’epoca
del postsviluppo è simile ad un processo di disapprendimento. A livello
economico decrescita significa innanzi tutto riduzione dei flussi di
produzione e di consumo. La decrescita chiede a ciascuno di noi di
modificare il proprio stile di vita, rinunciare alla credenza che “di
più” possa significare “meglio”. Una persona felice non consuma
antidepressivi, non consulta psicoanalisti, non tenta di suicidarsi, non
è vittima di quel consumismo compulsivo che ti fa acquistare ogni giorno
oggetti tanto costosi quanto inutili. Una decrescita consapevole e ben
equilibrata non impone alcuna limitazione al dispiegarsi di una vita
realizzata e felice.
Impariamo dal Mauss: la cultura del dono
contro l’ideologia del mercato
Parlando di anticorpi
cognitivi in campo economico possiamo portare l’esempio del Mauss, il
movimento antiutilitarista nelle scienze sociali, nato agli inizi degli
anni ’80 in Francia – a cui appartengono studiosi come Alain Caillé,
Jacques Godbout, Serge Latouche, Angelo Salsano, ecc. – che
promuove la cultura del “dono” in contrasto con lo strapotere del
“mercato”. Il dono è un gesto unilaterale asimmetrico, che esprime la
gratuità e in questo modo viene a contraddire la legge del mercato come
scambio equivalente. Ciò che il dono genera è una nuova socialità che
prima non c’era. Ma oltre a testimoniare la cultura del dono,
(attraverso le varie forme del volontariato e dell’economia civile)
bisogna impegnarsi a contrastare la trasformazione del mercato in
cultura (come si vede nell’ospedale-azienda e nell’ingresso del
linguaggio economico per definire i processi educativi nella scuola:
offerta formativa, debiti-crediti, portfolio, consiglio di
amministrazione, dirigente manager, ecc.). Insomma, bisogna denunciare
il primato dell’economia che ha preso il posto dell’etica e della
politica. La realtà viene infatti codificata a partire da una mentalità
mercantilista. L’economia diventa la matrice, il serbatoio da cui si
attinge per ribattezzare quelle realtà che economiche non sono, come
abbiamo appena richiamato.
Scegliere l’intercultura come civiltà del
con-vivere
Un nuovo principio
educativo per una società interculturale non può limitarsi ad affermare
i tradizionali valori della tolleranza e della convivenza, o anche, i
nuovi valori del riconoscimento delle identità e del rispetto delle
differenze. Occorre fare di più: scegliere la via obbligata dell’interculturalità.
Nel messaggio del Papa
per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato (24 novembre 2004)
si ribadisce la scelta per l’integrazione interculturale. Si sollecitano
i cristiani a non accontentarsi della semplice tolleranza ma a “giungere
alla simpatia”. Dice esplicitamente Giovanni Paolo II: «Si dovrebbe
promuovere una fecondazione reciproca delle culture. Ciò suppone la
conoscenza e l’apertura delle culture tra loro». Per questo «occorre
coniugare il principio del rispetto, delle differenze culturali con
quello della tutela dei valori comuni irrinunciabili, perché fondati sui
diritti umani universali. Scaturisce di qui quel clima di ragionevolezza
civica che consente una convivenza amichevole e serena». Se è compito
dei cristiani vivere nel mondo come “sentinelle del mattino” allora
spetta ad essi per primi «scorgere la presenza di Dio nella storia,
anche quando tutto sembra avvolto dalle tenebre».
Un maestro dell’interculturalità
come Raimon Panikkar afferma coraggiosamente che: «l’apertura all’interculturalità
è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni
profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in
discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo, e quindi il nostro
stesso mondo non è l’unico»18.
Alcune delle direttrici
più importanti le troviamo esplicitate nel documento Le persone
consacrate e la loro missione nella scuola (novembre 2002) della
Congregazione per l’educazione cattolica, ai numeri 65-67, dove si
afferma tra l’altro che: «la prospettiva interculturale comporta un vero
cambiamento di paradigma a livello pedagogico. Si passa
dall’integrazione alla ricerca della convivialità delle differenze. Si
tratta di un modello non semplice né di facile attuazione» (n. 67).
4.2. La via (pragmatica) delle azioni, dei
comportamenti e di nuovi stili di vita.
Insieme alla via delle
idee c’è la via delle azioni, ossia della testimonianza, della pedagogia
dei gesti e della cittadinanza attiva: infatti le idee da sole non
bastano, ci vuole l’esempio concreto a partire dalla propria vita. Anche
nella Bibbia dopo la “buona notizia” dei Vangeli viene la “praxis” ossia
il libro degli Atti degli Apostoli. Gesù stesso ha rivelato il Padre
all’umanità con “le parole e con i gesti” (Verba gestaque). Ecco
allora l’importanza crescente degli stili di vita.
Oggi è soprattutto la
scelta di uno stile di vita improntato alla sobrietà come virtù civile
che può consentire ad ogni cittadino e ad ogni cristiano di dare il
proprio contributo per la costruzione di un mondo più equo e più giusto.
La sobrietà appare come la virtù sociale del futuro, il nuovo nome della
temperanza.
La sobrietà come stile di vita
Tutta l’economia, dice
Giovanni Paolo II è da ripensare. Il passaggio dalla società dello
spreco a quella sostenibile non significa produrre di meno ma anche
produrre diversamente. Meno prodotti superflui, più prodotti
fondamentali; meno consumi privati, più consumi pubblici; meno energia
da combustibili fossili, più energia da risorse rinnovabili; meno
prodotti usa e getta, più prodotti riciclabili e duraturi; meno
importanza alla quantità, più essenzialità e qualità della vita.
L’etica del limite e la
cultura della sobrietà sono scelte obbligate per costruire fin da oggi
una società sostenibile. La sobrietà è guardare il mondo con lo sguardo
dei poveri e dalla parte dei poveri. La sobrietà è chiamata ad essere
vissuta contemporaneamente come una scelta etica ed ecologica, economica
e politica. Ma uno stile di vita non si improvvisa, non è fatto di
episodi. Lo stile è lo specchio visibile di un’etica personale, di
un’antropologia, è la saldatura di tre elementi complementari: una
spiritualità (come sorgente di senso); un’opzione fondamentale (come
finalità che orienta); una prassi quotidiana (come concretezza di
azioni). Ecco perché è sostenibile solo uno stile di vita che promuove
rapporti democratici tra le persone, favorendo pari opportunità di
sviluppo e non consentendo a nessuno di arricchirsi alle spalle degli
altri. Lo stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo
quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico, che nasce dallo
stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose
visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create (Centesimus
annus, n. 37).
La sobrietà deve
portare non solo all’etica del limite, della misura e dell’equilibrio,
ma anche alla cultura dell’armonia della bellezza e della qualità. Per
questo, come afferma Wolfagang Sachs, dovremmo iniziare anche a parlare
di un’estetica della sobrietà (il gusto, la forma) e di una eleganza
della semplicità.
La strategia dei comportamenti
Oggi la Chiesa appare
molto sensibile alla scelta di nuovi stili di vita, si pensi a
comportamenti alternativi come il consumo critico, i bilanci di
giustizia, il commercio equo e solidale, la banca etica, le banche del
tempo, l’economia di comunione, l’impegno per la Tobin Tax, ecc.
Le Conferenze
Episcopali di tutta Europa sono impegnate a riflettere sulla
salvaguardia del creato. La ricerca di un modello di sviluppo
sostenibile deve essere inseparabilmente legata sia all’ambiente che
alla giustizia sociale. Il legame sempre più profondo tra vita
quotidiana (locale) e agenda mondiale (globale), pone in evidenza
l’importanza di considerare il nostro stile di vita non solo come scelta
strettamente personale, ma come “gesto politico” che incide sul contesto
globale. D’altra parte, senza “piccoli passi” non esiste neanche un
grande cammino.
4.3. La via della partecipazione democratica
alle reti della “società civile globale”.
Insieme alla via delle
idee (un nuovo pensiero sociale) e degli stili di vita (nuovi
comportamenti economici, ecologici, nonviolenti, ecc.), c’è poi una
terza via che offre la possibilità di rendere più efficace politicamente
quello che si fa e di orientare il pensiero e la prassi per una comune
scelta etico-politica. È la profezia dell’insieme, la costruzione
delle reti che agiscono dal basso. È il passaggio dalla strategia
della “fionda di Davide” (che da solo, isolatamente, combatte contro
Golia), alla Rete lillipuziana che dimostra come a Lilliput tutti
insieme si impara a lottare contro Gulliver (immagine della
globalizzazione). È questo il significato politico della Rete Lilliput.
In questa direzione, un
segnale positivo è la diffusione di quella che da più parti è stata
definita la “società civile globale”, gruppi auto-organizzati che
agiscono direttamente a livello locale e fuori delle tradizionali
istituzioni democratiche, ma che sono in grado di garantire fondamenti
etici capaci di attraversare i confini nazionali e culturali.
Bisogna cercare di
capire le ragioni per cui si distingue nettamente tra “government”
(governo) e “governance” soprattutto globale. Con il termine
inglese governance, di difficile traduzione, ci riferiamo al
“sistema allargato di governo”, dove allargato indica con chiarezza il
coinvolgimento di attori e processi non sempre e automaticamente
implicati nella nozione tradizionale di governo. È il tema della
democrazia partecipativa.
A nostro avviso tutti,
anche le Suore, dopo un attento discernimento, devono chiedersi se
aderire e partecipare. Ci riferiamo alle strategie dei gruppi di azione;
alle campagne, alle reti, ai social forum, ecc. Questo è importante
perché l’obiettivo del cambiamento non è solo “interiore”, ma anche
“esteriore”; strutturale, istituzionale: occorre cambiare i
meccanismi perversi e le strutture di peccato, come si
esprimeva nel 1987 la Sollicitudo rei socialis.
La Suora stessa è
chiamata oggi a prender parte non solo al servizio ai poveri, ma anche
alle lotte contro la povertà e per nuove istituzioni di giustizia.
Di fronte allo
strapotere della megamacchina economica i cui rappresentanti si chiamano
G8, Club di Parigi, il complesso FMI/Banca mondiale/WTO, Forum di Davos,
ossia il cosiddetto “Washington Consensus”, ecc., è urgente costruire
luoghi di resistenza, contropoteri, imporre regole, trovare
compromessi.
Alcune proposte per la riforma dell’ONU
a) L’allargamento del
Consiglio di Sicurezza e l’eliminazione del sistema di veto;
b) l’istituzione di una
seconda assemblea (la cosiddetta ONU due) in cui siedano i
rappresentanti della società civile transnazionale (Ong, Chiese,
movimenti) e dei vari popoli (sul modello del Parlamento europeo);
c) la creazione di un
Consiglio di Sicurezza Economico e Sociale, dotato di specifici
poteri; ma dal momento della sua ideazione (1995) il Consiglio di
Sicurezza Economica non ha ottenuto il sostegno necessario né dei paesi
sviluppati né da quelli in via di sviluppo. Ha scritto Walden Bello:
«Nell’ambito dei cambiamenti sociali, in realtà non si possono
effettivamente costruire dei nuovi sistemi senza indebolire l’influenza
di quelli vecchi, i quali non sono facilmente disposti ad accettare
sfide alla propria egemonia (...). La visione di un nuovo mondo può
essere incantevole, ma resterà una visione se non sarà accompagnata da
una solida strategia di realizzazione, e parte della strategia consiste
nel deliberato smantellamento di quella vecchia.
d) C’è chi come Johan
Galtung propone di creare un parlamento mondiale in sede ONU che preveda
un rappresentante per ogni milione di cittadini: in questo modo
avremmo un’assemblea con 1250 cinesi, 1000 indiani, 275 americani, 190
russi, 9 svedesi, ecc. La presenza degli occidentali in un parlamento
siffatto si ridurrebbe al 22% e la maggioranza andrebbe, come vuole la
demografia, al Sud del mondo.
Una celebrazione simbolica: ogni 12 settembre
la “Giornata dell’Interdipendenza”
Bisogna credere alla
forza dei simboli. Per questo riteniamo importante diffondere la
proposta del politologo statunitense Benjamin Barber, dell’Università
del Maryland: non celebrare più soltanto l’Indipendence Day (il
14 luglio per la Francia, il 4 luglio gli USA, ecc.), ma celebrare in
tutto il mondo la “Giornata dell’Interdipendenza” e farlo il primo
giorno dopo l’11 settembre una data che ormai appartiene al calendario
cosmopolita. La prima Giornata si è tenuta a Filadelfia (2003), la
seconda Giornata a Roma (2004), la terza Giornata a San Paolo (2005) e
le altre si vedrà. A questa iniziativa hanno già aderito moltissimi
organismi tra cui, per l’Italia, la Comunità di Sant’Egidio, i Focolari,
le Acli, ecc.
Il Manifesto di Porto Alegre
Dopo cinque Forum
sociali mondiali che si sono svolti a Porto Alegre, l’anno prossimo, nel
2006, il Forum si svolgerà in quattro città di quattro continenti
diversi e, nel 2007, sarà in Africa.
Ecco alcune delle
proposte fondamentali del Manifesto di Porto Alegre:
1. cancellazione del
debito estero dei Paesi del Sud del mondo;
2. smantellamento
progressivo di tutte le forme di paradisi fiscali, giuridici e bancari;
3. promuovere tutte le
forme del commercio giusto, rifiutando le regole del libero scambio
dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Escludere del tutto
l’istruzione, la sanità, i servizi sociali e la cultura dal campo delle
applicazioni dell’Accordo generale sul commercio e i servizi (Gats)
dell’Omc;
4. assicurare il
diritto di ogni Paese alla sovranità e alla sicurezza alimentare,
attraverso la promozione della cultura contadina;
5. promuovere politiche
pubbliche contro ogni forma di discriminazione, xenofobia, antisemitismo
e razzismo;
6. garantire per legge
il diritto all’informazione e il diritto di informare;
7. riformare e
democratizzare profondamente le organizzazioni internazionali, tra cui
l’Onu, e far prevalere i diritti umani, economici, sociali e culturali
contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Note