n. 2-3
febbraio-marzo 2006

 

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ABITARE LA GLOBALIZZAZIONE:
OPPORTUNITÀ E SFIDE

di Antonio Nanni*

 

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Premessa

**"Passione per Cristo, passione per l’umanità”. È questo il titolo del Congresso sulla Vita Consacrata che si è svolto a Roma (novembre 2004) per iniziativa delle due Unioni dei Superiori Generali, maschili e femminili.

Al Congresso hanno partecipato 847 consacrati/e di tutti i continenti, di ogni congregazione e di ogni età.

Le due icone proposte dal documento di lavoro erano: il buon samaritano e la donna samaritana.

Non vi è dubbio che oggi la globalizzazione si presenti a tutti come un tempo di interrogazione e di cambiamento, di grandi speranze ma anche di drammatiche minacce. È una dimensione cui non possiamo sottrarci ma alla quale è possibile reagire in forme diverse. Abitare la globalizzazione pone ai cristiani l’istanza di una estensione della solidarietà e della giustizia su scala planetaria.

Ma pone anche l’esigenza di un nuovo stile di “cattolicità ecumenica” che sia capace di far vivere in modo originale la dialettica tra località e universalità.

Il cristiano è chiamato ad abitare la storia con un atteggiamento di speranza, anche nei suoi momenti più difficili e di svolta, come appare appunto l’epoca della globalizzazione. Per prendere il largo e annunciare il Vangelo della speranza, il cristiano è invitato a spezzare le catene della paura e a liberarsi dalla “legge del timore” (Pacem in terris, 67).

Stando alle etimologie, anche se fantasiose e creative del Vescovo Isidoro di Siviglia, la parola “spes” (speranza) deriverebbe da “pes” (piede) a dimostrazione dello stretto legame che unisce la speranza al cammino. Come a dire soltanto colui che sa “abitare camminando” nella storia può dirsi animato dal dinamismo di una grande speranza. Se il cristiano fa muovere la storia è perché sa dare piedi alla speranza che è in lui1.

Come nel nostro tempo viene a suggerirci la suggestiva immagine di Charles Peguy: la virtù bambina della speranza che, tenendole per mano, trascina dietro di sé le altre due virtù della fede e della carità.

 

1. Cinque atteggiamenti già esistenti nei confronti della globalizzazione

Il più delle volte trascuriamo di dare importanza all’atteggiamento con cui l’uomo vive all’interno dei processi storici. È invece da sottolineare che il giudizio che diamo sulla storia dipende non poco dalla disponibilità interiore con cui la abitiamo. Ad esempio, nei confronti della globalizzazione è possibile oggi fare una ricognizione di almeno cinque atteggiamenti che sono già stati espressi:

a) Global: è stato ed è ancora l’atteggiamento prevalente, quello del pensiero unico, secondo cui è bene che le cose procedano così, perché in fondo ci guadagnano tutti. L’economia deve essere liberata da ogni regola (deregulation) per poter meglio perseguire lo scopo suo proprio, cioè la produzione del profitto. Giustizia e solidarietà vengono invece completamente espunte dal lessico economico. Siamo dinanzi a un’economia a “etica zero” e a “politica muta”2.

b) No global: è l’atteggiamento che ha ispirato e ispira ancora il movimento emerso in particolare con le manifestazioni di Seattle (1999), poi confluito nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre, almeno nella fase iniziale. La sua caratteristica è l’antagonismo e l’opposizione frontale verso la globalizzazione come espressione del neoliberismo capitalista3.

c) New global: per comprendere correttamente il passaggio dal no global al new global bisogna partire dalla svolta che si è registrata durante il secondo Porto Alegre con il titolo “Un mondo diverso è in costruzione”. È infatti aumentata la consapevolezza che proprio utilizzando gli aspetti positivi della globalizzazione sia possibile ridurre quelli negativi. Non si tratta di rifiutare la globalizzazione ma di creare una nuova globalizzazione dal basso, quella della solidarietà, della democrazia, dei diritti umani, ecc. Lo stesso Giovanni Paolo II ebbe a dire: «La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva, sarà ciò che le persone ne faranno» (discorso del 27 aprile 2001 alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali)4.

d) Postglobal: nel volume Postglobal (2004) di Mario Deaglio si afferma che l’ottimismo suscitato dalla globalizzazione è ormai tramontato ed essa appare oggi come un sogno infranto e svanito. Siamo dinanzi ad una esperienza conclusa, a un giro di boa. Una lettura postglobal non presuppone un giudizio di valore ma indica un ventaglio di problemi e prospettive in cui la sola cosa certa è la fine di tempi relativamente facili. A molti osservatori appare chiaro che siamo dinanzi a una nuova fase identificata come “globalizzazione-arcipelago”. Dentro alle isole regionali dell’arcipelago bisogna sottolineare l’ascesa della Cina come la più dirompente. Si può quindi argomentare con forza in favore di una globalizzazione diversa e occorre chiedersi se il livello di vita dei Paesi ricchi sia ancora un obiettivo effettivamente raggiungibile, o anche solo desiderabile, per l’intera umanità5.

e) De-globalizzazione: quest’ultimo atteggiamento è particolarmente sviluppato dall’economista filippino Walden Bello, per il quale lo smantellamento (decostruzione) della vecchia globalizzazione richiede però di essere accompagnato da uno sforzo di ricostruzione. Scrive Walden Bello: «il contesto per discutere la deglobalizzazione è fornito dalla crescente presenza non solo di povertà, disuguaglianza e stagnazione che hanno accompagnato la diffusione dei sistemi di produzione globalizzati, ma anche dalla loro insostenibilità e fragilità (…). Deglobalizzazione non significa ritirarsi dall’economia internazionale. Significa riorientare le economie dall’enfasi sulla produzione per l’esportazione alla produzione per il mercato locale». In tal senso la deglobalizzazione può aver successo soltanto se avviene all’interno di un sistema alternativo di governo economico globale6.

Dei vari atteggiamenti che abbiamo finora richiamato quello che noi incoraggiamo è soprattutto un atteggiamento critico verso la globalizzazione che non va demonizzata né santificata. Un atteggiamento che sia attento a mettere in evidenza luci ed ombre, vantaggi e svantaggi, aspetti positivi e negativi. Tuttavia, se la globalizzazione non rispetta la dignità umana e le regole dell’etica, non c’è dubbio che essa si configuri come una nuova forma di colonialismo.

 

2. Gli effetti collaterali della globalizzazione

Dopo aver visto gli atteggiamenti, passiamo ora all’analisi degli “effetti collaterali” (per usare un’espressione di Bauman) della globalizzazione sulle persone, sulle culture, sulle religioni, sulle istituzioni politiche (in particolare lo Stato nazionale), sui luoghi e sull’ambiente naturale. In questo modo il nostro esame diventa più concreto.

2.1. Sulle persone

È sulle persone e sulle famiglie che ricade la prima conseguenza della globalizzazione. Oggi, infatti, cresce la solitudine del cittadino, proprio mentre si sviluppa la società reticolare. È questa una realtà paradossale che genera tanta sofferenza. Aumenta negli individui il bisogno di comunità, ma poi si finisce per restare soli con se stessi. Non c’è da farsi illusioni: nelle nostre “società individualizzate” le persone che stanno male e che soffrono per mancanza di relazioni umane e comunitarie sono sempre più numerose. La solitudine diventa così la prima forma di povertà. Bisogna allora evitare che le persone si sentano abbandonate prendendosi cura di loro, assicurando la nostra compagnia.

È soprattutto Bauman che mette in evidenza la frattura individuo/comunità. Nel libro La solitudine del cittadino globale (2000) egli mostra come si allentano i legami sociali e vengono meno i vincoli di appartenza alla comunità. La globalizzazione produce – secondo Bauman – un effetto di desocializzazione (cfr. Modernità liquida, 2000) e fa emergere “l’uomo modulare” (componibile, mutevole, proteiforme).

La globalizzazione oltre il senso di solitudine, aumenta il clima di incomunicabilità, il sentimento di paura e un generale indebolimento dell’identità7.

2.2. Sulle culture

Un secondo effetto collaterale della globalizzazione riguarda la cultura, sia nel senso di “mentalità” sia nel senso di “culture locali”. Dice Giovanni Paolo II: «ciò che più preoccupa la Chiesa è che il mercato si è trasformato in cultura e che proprio per questo le persone “pensano e agiscono” secondo la logica di mercato» (discorso del 27 aprile 2001 alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali). Ossia il mercato non è più soltanto una realtà economica e finanziaria, ma una realtà spirituale, culturale, liofilizzata, ideale, “una logica” appunto, che ha permeato le teste delle persone. Questo vuol dire che il neoliberismo oggi non è più soltanto una dottrina economica ma è già diventato una dottrina antropologica.

Ma la globalizzazione si riflette anche sulle culture locali delle popolazioni, producendo effetti di omologazione e di de-culturazione e deprivando i più poveri della loro unica ricchezza: la cultura e la tradizione. Anche nei Paesi del Sud del mondo i mass media promuovono una monocultura globale di stile occidentale. Questo si vede nell’alimentazione, nel modo di vestire, nei divertimenti, nella musica e nello sport, imponendo non soltanto quello che la gente deve mangiare, bere e indossare, ma perfino che cosa deve sentire, desiderare e pensare.

In questo modo invece che un pluralismo culturale viene a diffondersi un pericoloso pensiero unico globale. Ignacio Ramonet nel suo libro La tirannia della comunicazione8 denuncia il fenomeno inquietante di tanta gente che smette di pensare con la propria testa e assume un pensiero replicante. A questo si aggiunga che la televisione propone e diffonde modelli di stupidità, spesso demenziali, e dà luogo alla forma di clonazione più pericolosa, quella dei cervelli. Siamo dinanzi alle conseguenze devastanti di una morbida dittatura mediatica: la videocultura.

2.3. Sulle religioni

In un interessante studio dal titolo “religioni e globalizzazione”9, il sociologo Enzo Pace afferma che per le grandi religioni storiche, di respiro mondiale, (dal Cristianesimo all’Islam, dall’Induismo al Buddismo) la globalizzazione pone alcune sfide. La più importante di queste è l’aumento del grado di pluralismo religioso in molte società, non solo in quelle occidentali: persone di fedi un tempo percepite come lontane, diventano i vicini della porta accanto.

Tutto ciò può avere effetti contrastanti. Le persone imparano – non senza conflitti – a convivere prima tollerandosi e, dopo alcune generazioni, mescolandosi insieme (con i matrimoni misti), sviluppando la curiosità o il rispetto reciproco nei confronti delle feste religiose, celebrate dall’uno o dall’altro, con la diffusione di usi e costumi alimentari o di abbigliamento attraverso il mercato dei beni etichettati come etnici. Le religioni nella società globalizzata possono correre il rischio di esaltare eccessivamente la loro funzione di essere depositarie delle memorie collettive di popoli interi, una garanzia offerta al sentimento d’appartenza a un comune destino. Le religioni diventano, in tal caso, l’ultima certezza dell’identità collettiva in un tempo in cui il senso di sradicamento delle persone aumenta sempre di più. Le religioni possono svolgere una funzione educativa molto importante come in alcuni casi hanno già dimostrato di sapere e poter fare10.

2.4. Sulle istituzioni politiche

Un altro degli effetti collaterali della globalizzazione riguarda gli Stati nazionali che appaiono sempre più inadeguati ed obsoleti. Non è infatti possibile affrontare problemi globali (come l’ecologia, le emigrazioni, la pace, la fame, l’aids, ecc.) con politiche locali o nazionali. Emerge chiaramente che l’intera architettura istituzionale nata dopo il trattato di Westfalia (1648) è ormai insufficiente. Non basta più il principio di indipendenza, né il principio di sovranità (superiorem non recognoscens). Come afferma Giovanni Paolo II nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2004, occorre un grado superiore di ordinamento internazionale.

Ma il problema di fondo che pone la globalizzazione è come conservare il rapporto tra sistema politico e democrazia, come evitare che le istituzioni democratiche subiscano una pericolosa crisi di delegittimazione, nel momento in cui i processi economici globali provocano una riduzione dello stato sociale (welfare) e i governi nazionali nulla possono rispetto ai poteri che li sovrastano. Ha osservato Stefano Zamagni che: «tutti gli strumenti politici dello Stato-nazione (tasse, organismi di controllo, sicurezza militare, politica estera) sono legati a un territorio ben definito. Le imprese, invece, possono produrre in un Paese, pagare le tasse in un altro, in un terzo richiedere aiuti e contributi statali. Una delle conseguenze più gravi consiste nell’aumento dell’instabilità finanziaria. Fra tutti i beni che circolano liberamente nei mercati mondiali quello che si muove con più libertà, rapidità e virulenza è la finanza. In effetti, la “globalizzazione finanziaria” rappresenta il fenomeno più impressionante del mondo contemporaneo»11.

Secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck12, con la globalizzazione dei mercati siamo in quella che definisce l’era dello “sguardo cosmopolitico”. Questo significa che i nostri comportamenti quotidiani si riferiscono ormai, volendo o no, ad orizzonti plurinazionali. Per questo la nostra identità individuale si riflette in uno sguardo cosmopolitico che sintetizza ecletticamente insieme diverse identità e tradizioni culturali.

2.5. Sui luoghi e sull’ambiente naturale

La globalizzazione ha anche aggravato la frattura tra locale/globale rendendo evidente la pluralità delle culture che si intrecciano sullo stesso territorio. Non c’è più corrispondenza diretta tra luogo e cultura. In generale, possiamo dire che nel tempo della globalizzazione il territorio si dissolve ed evapora, oppure che tende a chiudersi, ad arroccarsi. Sicché assistiamo a quei fenomeni che vengono chiamati di de-territorializzazione, oppure alla diffusione dei “nonluoghi” (Marc Augé), sia a forme di localismo come mostrano i fenomeni delle leghe e del revival etnico13.

È dunque importante far capire che la globalizzazione non abolisce i confini territoriali ma certamente ridefinisce lo spazio. Diventa allora opportuno riscoprire il radicamento nel proprio “luogo” attraverso una strategia di ri-localizzazione. Serve una nuova antropologia dei luoghi e dunque delle tradizioni. Delle comunità, dei valori locali. La prospettiva “glocale” (Roland Robertson, 1999) che da alcuni anni si è venuta affermando, ci offre la possibilità di valorizzare la dimensione locale come nodo del globale. La sfida che dobbiamo intraprendere è quella di vivere in modo glocale, ossia in modo da non perdere il luogo come spazio in cui esprimiamo la nostra partecipazione, dal momento che tutto il mondo diventa il nostro orizzonte di riferimento (terra-patria). Non possiamo limitarci ad agire localmente e pensare globalmente, ma dobbiamo pensare e agire sia a livello locale che globale avendo presente la complessità in cui viviamo. Anche per gli effetti della globalizzazione sull’ambiente naturale le analisi concordano: il processo di globalizzazione è responsabile del degrado ecologico e dell’inquinamento del pianeta. L’aria, l’acqua, il sole, il suolo, le foreste e le varie forme di vita sono state messe in crisi dalla moderna cultura industriale incapace di stabilire una relazione sostenibile con l’ambiente naturale14. A causa degli sprechi, che caratterizzano lo stite di vita dei ricchi in tutto il mondo, l’esaurimento delle risorse e i danni sull’ambiente sono diventati una minaccia per la vita delle generazioni sia presenti che future.

3. Il cristiano non è uno spettatore passivo dinanzi allo “spettacolo del mondo”

Sono tante ogni giorno le immagini e le cifre del “dolore delle persone” che scorrono davanti ai nostri occhi. I mass media ci mettono a contatto con le tragedie del mondo e si corre il rischio che tutto si trasformi in un unico spettacolo globale che ci rende spettatori informati ma passivi e impotenti di fronte ad esso. Il cristiano non può accontentarsi di sapere e di essere informato sulla povertà e le sofferenze che agitano il mondo. Limitarsi a questo sarebbe una forma di deresponsabilizzazione.

3.1. I poveri del mondo non ci fanno dormire

Il cristiano è chiamato a prendere parte, a scegliere e a intervenire. Proprio come fece il buon samaritano lungo la strada che da Gerusalemme scendeva verso Gerico.

Il cristiano non può accettare la logica del più forte, né l’idea che la presenza dei poveri e degli emarginati nella società sia frutto dell’inesorabile fluire della storia, una fatale circostanza. Ecco perché egli è tenuto responsabilmente a discernere e giudicare ciò che la globalizzazione sta operando nella società. Bisogna riconoscere, come ha osservato il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Salvini, che non possono essere attribuite alla globalizzazione soltanto le cause dell’impoverimento, perché questo non corrisponderebbe al vero. Ma non v’è dubbio che la globalizzazione abbia avuto effetti gravemente nocivi per i settori più poveri di gran parte delle società del Terzo Mondo. Essa ha aumentato la produzione di quei beni che possono essere venduti ai ricchi, non dei beni di cui hanno bisogno le masse dei più poveri. Inoltre, la globalizzazione ha favorito la commercializzazione della maggior parte dei servizi e degli aspetti della vita: istruzione e sanità in particolare.

La povertà è uno dei più grandi problemi del nostro tempo. Dei 6 miliardi di persone nel mondo, 2,8 miliardi vivono con meno di 2 dollari al giorno, mentre 1,2 miliardi non dispongono nemmeno di un dollaro al giorno. Otto bambini su 100 non arrivano ai 5 anni. Nove ragazzi e 14 ragazze su 100 non vanno a scuola. Queste sono solo alcune delle disastrose conseguenze della povertà. Scrive l’economista Stefano Zamagni: «La globalizzazione è un processo che aumenta bensì la ricchezza complessiva (e dunque rappresenta un gioco a somma positiva), ma determina al tempo stesso vincitori e vinti. In altre parole la globalizzazione riduce la povertà in senso assoluto mentre aumenta la povertà in senso relativo. Paesi come quelli del Sudest asiatico e alcuni Paesi dell’America Latina sono usciti dallo stato di povertà assoluta – stato nel quale versavano da secoli – solo a seguito dell’intervenuta liberalizzazione dei mercati. Chi versa in condizioni tragiche è oggi il continente africano. Ma ciò è accaduto proprio perché tale continente è rimasto tagliato fuori dal processo della globalizzazione».

Come spiega il Nobel per l’economia Amarthya Sen: «il mondo in cui viviamo è allo stesso tempo, notevolmente comodo e assolutamente povero. Il nostro mondo, assai più ricco di quanto sia mai stato, sperimenta una prosperità senza precedenti. I nostri antenati avrebbero perfino faticato ad immaginare la gestione su larga scala delle risorse, la conoscenza e la tecnologia che oggi diamo per acquisite. Ma il nostro è anche un mondo di estreme privazioni e disuguaglianze sconvolgenti. È impressionante il numero di bambini malnutriti, analfabeti, e condannati a morire, ogni settimana a milioni, di malattie che potrebbero essere completamente debellate o alle quali, se non altro, potrebbe essere impedito di uccidere persone abbandonate a se stesse»15.

L’ingiustizia internazionale ci deve far pensare al divario economico e al divario digitale, allo squilibrio cioè sia dell’economia Nord-Sud, sia a quello dell’informazione e della comunicazione.

Wolfgang Sachs dell’Istituto tedesco di Wuppertal si è posto questa domanda: «quanti sono i cittadini del mondo che posseggono i seguenti tre beni messi insieme: una automobile privata, un computer dentro casa e un conto in banca?». La risposta è stata solo l’8% della popolazione mondiale possiede tutte queste tre cose insieme. L’Africa ha 700 milioni di abitanti ma solo l’1% degli africani ha il telefono. Come è possibile, in queste condizioni, pensare all’uso di Internet?

Secondo un recente rapporto ONU un miliardo di persone non è in grado di soddisfare i bisogni più elementari. Dei 4,5 miliardi di abitanti dei Paesi in via di sviluppo, tre quinti non dispongono di qualche infrastruttura essenziale: un terzo di acqua potabile; un quarto di alloggi degni; un quinto di assistenza medica e sanitaria. Un bambino su cinque frequenta la scuola per meno di un quinquennio; un bambino su cinque è sottoalimentato in modo permanente. In 70-80 dei circa cento Paesi “in via di sviluppo” il reddito medio pro capite è oggi più basso di dieci e perfino trent’anni fa. All’estremo opposto, tre degli uomini più ricchi del mondo hanno redditi personali superiori al prodotto interno lordo complessivo dei 48 Paesi più poveri (ossia di 600 milioni di cittadini) e le fortune delle 15 persone più ricche superano il prodotto dell’intera Africa subsahariana.

In un saggio intitolato Povertà e disuguaglianze in un mondo in via di globalizzazione il sociologo ebreo polacco Zygmunt Bauman afferma che la globalizzazione incontrollata ha conseguenze raccapriccianti. Milioni di persone sono colpite direttamente con la perdita dei mezzi di sussistenza, della dignità personale e del benessere, fino alla caduta nell’indigenza; il divario tra ricchi e poveri, vincitori e vinti è più ampio che mai. In conclusione, non è possibile ignorare quanto ci ricorda Stiglitz: «la globalizzazione, oggi, non funziona per molti poveri del mondo. Non funziona per gran parte dell’ambiente. Non funziona per la stabilità dell’economia globale (…). Per alcuni la risposta è semplice: abbandonare la globalizzazione. Questo però non è fattibile, né auspicabile (...) il problema non è la globalizzazione ma come è stata gestita»16.

3.2. Per una globalizzazione “equa” (Rapporto OIL)

Oggi chi riflette sulla globalizzazione non può prescindere dal rapporto 200417 presentato dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) con il titolo A fair globalization. Creating opportunities for all (una globalizzazione equa: creare opportunità per tutti).

Questo studio della Commissione mondiale sulla dimensione sociale della globalizzazione, che è stata istituita dall’OIL, ha visto impegnati per due anni 24 autorevoli rappresentanti del mondo politico, economico, lavorativo, accademico e sociale dell’intero pianeta. In generale il Rapporto mette in evidenza che sono ancora troppe le persone che non partecipano ai benefici della ricchezza creata. Vista attraverso gli occhi della grande maggioranza delle donne e degli uomini la globalizzazione non è venuta incontro alle elementari e legittime aspirazioni a un posto di lavoro dignitoso e a un futuro migliore per i propri figli.

Complessivamente, il Rapporto mette in evidenza come questo scenario sia “eticamente inaccettabile e politicamente insostenibile” e sia riconducibile a uno squilibrio tra economia, società e politica: la dimensione globale dell’economia non ha portato con sé altrettanta globalizzazione delle istituzioni sociali e politiche. Pertanto, il dibattito sulla globalizzazione deve diventare un dibattito sulla democrazia e sulla giustizia sociale e occorre urgentemente compiere scelte per rinnovare le istituzioni e le politiche.

Oggi quasi tutto è globalizzato, non lo sono però né i valori nè le dimensioni etiche. Il Rapporto si conclude quindi con la speranza che sia possibile un’altra globalizzazione. Il richiamo a condividere un approccio etico comune si concretizza in un appello a perseguire i seguenti obiettivi:

a) il rispetto della dignità della persona umana, dei diritti umani, dell’uguaglianza tra uomini e donne;

b) il rispetto per le diversità culturali, religiose, politiche. In particolare, la globalizzazione potrebbe condurre ad una diversità multiculturale, che non sia omogeneizzazione, integrazione indesiderata o statica conservazione. Essa deve essere un processo di creativa ridefinizione nel quale le tradizioni locali e globali e gli stili di vita si uniscono per ricreare nuove forme a tutti i livelli;

c) l’equità, chiaramente riconosciuta dalle persone di tutti i Paesi come uno standard di giustizia. Si tratta di garantire, mediante regole economiche globali, le stesse opportunità e gli stessi benefici a tutti i Paesi, tenendo conto delle differenze nazionali per quanto riguarda le capacità ed i bisogni di sviluppo;

d) la globalizzazione solidale, affinché siano superate le disuguaglianze sia all’interno di ogni Paese, sia tra Paesi diversi e si contribuisca a un reale superamento della povertà. La solidarietà è basata sul riconoscimento che, in un mondo interdipendente, la povertà o l’oppressione, in qualsiasi luogo, sono una minaccia alla prosperità e alla stabilità dovunque;

e) il rispetto per la natura, in base al quale la globalizzazione deve essere ecologicamente sostenibile, cioè rispettare la naturale diversità delle forme di vita presenti sulla terra e la vitalità dell’ecosistema, assicurando l’equità tra le generazioni presenti e quelle future.

A questo punto, oltre al Rapporto OIL, è opportuno richiamare la Dichiarazione del Millennio, sottoscritta nel 2000 da 189 capi di Stato e di governo contro la povertà e per un mondo più equo e più giusto entro il 2015, con otto obiettivi principali contro la povertà a livello mondiale:

1. eliminare l’estrema povertà e la malnutrizione;

2. garantire ai bambini l’istruzione primaria;

3. promuovere l’uguaglianza di genere e combattere le discriminazioni;

4. ridurre di due terzi la mortalità infantile;

5. migliorare la salute riproduttiva;

6. combattere l’AIDS, la malaria e altre malattie;

7. assicurare la sostenibilità ambientale;

8. creare una partnership globale a favore dello sviluppo.

 

3.3. Globalizzazione e processi migratori: giustizia e dialogo

Oggi, tuttavia, il servizio ai poveri deve fare i conti non solo con il processo di globalizzazione ma anche con i flussi migratori che ad esso sono collegati. Ecco allora il motivo per cui ci sembra opportuno richiamare il documento del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti Erga Migrantes caritas Chisti (maggio 2004).

Secondo questo documento il fenomeno delle migrazioni che interessa sul piano mondiale circa 200 milioni di uomini e donne non è solo un fatto sociologico ma un vero kairòs, un tempo favorevole per chi legge la storia con gli occhi della fede.

I cristiani devono farsi promotori di una cultura dell’accoglienza che sappia apprezzare i valori autenticamente umani degli altri. Di qui la necessità di una formazione alla “mondialità”, cioè ad una nuova visione della comunità umana, considerata come famiglia di popoli, a cui finalmente sono destinati i beni della terra nella prospettiva del bene comune universale. Il passaggio da società monoculturali a società multiculturali può rivelarsi segno della viva presenza di Dio nella storia perché offre un’opportunità provvidenziale per realizzare il piano di Dio di una comunione universale. I cristiani sono chiamati perciò a testimoniare e praticare, oltre allo spirito di tolleranza – che pure è un’importante acquisizione politica e culturale – il rispetto dell’identità altrui, avviando dove è possibile e conveniente, percorsi di condivisione con persone di origine e cultura differenti, in vista anche di un rispettoso annuncio delle propria fede.

Con il pontificato di Benedetto XVI si apre oggi una nuova pagina nella storia della Chiesa che, pur confermando la prospettiva di ecumenismo e di dialogo tra credenti e non credenti, assegna un risalto particolare alla testimonianza del distintivo cristiano, come si potrebbe dire riprendendo una felice espressione di Romano Guardini, uno dei maestri dell’attuale pontefice. Questa formula appare oggi utile per comunicare in modo sintetico la visione cristiana dell’uomo, della vita del mondo, in una società delle differenze o forse, ancor più dell’indifferenza.

Oggi diventa importante questo richiamo al distintivo cristiano perché viviamo nella dittatura del relativismo, nel trionfo del pensiero debole e di un nichilismo morbido e silente. In questa nostra società invertebrata, dove tutto tende a diventare cartilaginoso e mellifluo, si sente di nuovo il bisogno di tracciare dei confini e di andare oltre il relativismo. Il paradigma del distintivo cristiano rimette al centro sia la cultura della resistenza, sia la prospettiva dell’identità assertiva e del “civile cattolico” fino alla riaffermazionie di valori “non negoziabili”.

Una simile presenza, che per taluni osservatori rimane comunque improponibile nel contesto attuale, è invece quella di cui appare portatore Benedetto XVI.

 

4. Che fare? Tre strategie di cambiamento per umanizzare la globalizzazione

Ogni cristiano ha il compito storico di umanizzare la realtà sociale attraverso l’intelligenza della fede, bevendo al proprio pozzo, come fece la donna samaritana al pozzo di Sicar e diffondendo anticorpi cognitivi per contrastare gli aspetti inaccettabili del pensiero dominante e promuovere una nuova cultura. La lotta contro le ingiustizie della globalizzazione richiede una spiritualità che implica un forte impegno per i valori del regno, cioè l’opzione per la liberazione degli oppressi. Questa scelta comprende una visione di giustizia per tutta l’umanità e per l’ambiente naturale, proponendo valori, relazioni e strutture alternative.

Le beatitudini sono per i cristiani la magna charta della cittadinanza evangelica che è la cittadinanza del regno (Mt 5,1-12), presenza profetica dentro la storia.

Gesù inizia il discorso della montagna non con concetti astratti, ragionamenti teorici, definizioni incontestabili, ma con un linguaggio di bellezza, con una serie di beatitudini, cioè di “rallegramenti” che non segnano il limite del minimo indispensabile, ma tracciano l’ideale del massimo possibile. Nelle beatitudini non viene definito ciò che è giusto e doveroso, ma ciò che al Signore piace, ciò che costituisce la gioia di Dio e la felicità dell’uomo. Non vengono elogiate le virtù in astratto ma ci si congratula con le persone: i poveri, gli umili, i puri di cuore, gli afflitti, i misericordiosi, gli operatori di pace. Non ci troviamo di fronte ad un elenco di precetti o di comandamenti, ma alla proposta di un modello di santità e di vita.

Le beatitudini evangeliche rappresentano l’identikit del discepolo/a di Gesù, una carta d’identità del singolo cristiano e quasi una costituzione per il popolo della nuova alleanza che Gesù è venuto a fondare.

In queste ultime pagine verranno presentate le strategie, cioè le direttrici per l’azione, che riteniamo più efficaci per non subire la globalizzazione ma trasformarla dall’interno in una prospettiva di umanizzazione.

4.1. La via (culturale) delle idee per rinnovare il pensiero a partire dall’intelligenza della fede.

La prima via di cambiamento è quella culturale, che fa leva sulle idee, sulla “metànoia” perché sia possibile una nuova ecologia della mente, una riforma del pensiero. Ogni cristiano ha il compito storico di valorizzare l’intelligenza della fede per non condannarla a una sterilità culturale. Per poter fecondare ogni cultura il cristiano deve dare voce al ricco patrimonio della dottrina sociale impegnandosi a “decolonizzare l’immaginario” e a liberarsi dalla forza seduttiva della narrazione economica dominante. In particolare il cristiano deve sentirsi impegnato a contrastare il pensiero unico con un pensiero divergente, non omologato, non conformista, che gli consenta di proporsi nella società come “riserva profetica” e “luogo di contropotere”.

 

Decolonizzare il nostro immaginario

Il lavoro deve cominciare da noi stessi. Il nemico non è soltanto fuori di noi ma è già dentro di noi, nella nostra testa. Il nostro immaginario è già colonizzato. Tutti abbiamo la necessità di una catarsi, di una disintossicazione. Dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica. L’economista Serge Latouche propone di abbandonare, ad esempio, il concetto di “sviluppo” perché è una parola tossica, e puntare invece sull’idea di decrescita. Non abbiamo altre alternative che disintossicarci. L’accesso all’epoca del postsviluppo è simile ad un processo di disapprendimento. A livello economico decrescita significa innanzi tutto riduzione dei flussi di produzione e di consumo. La decrescita chiede a ciascuno di noi di modificare il proprio stile di vita, rinunciare alla credenza che “di più” possa significare “meglio”. Una persona felice non consuma antidepressivi, non consulta psicoanalisti, non tenta di suicidarsi, non è vittima di quel consumismo compulsivo che ti fa acquistare ogni giorno oggetti tanto costosi quanto inutili. Una decrescita consapevole e ben equilibrata non impone alcuna limitazione al dispiegarsi di una vita realizzata e felice.

 

Impariamo dal Mauss: la cultura del dono contro l’ideologia del mercato

Parlando di anticorpi cognitivi in campo economico possiamo portare l’esempio del Mauss, il movimento antiutilitarista nelle scienze sociali, nato agli inizi degli anni ’80 in Francia – a cui appartengono studiosi come Alain Caillé, Jacques Godbout, Serge Latouche, Angelo Salsano, ecc. che promuove la cultura del “dono” in contrasto con lo strapotere del “mercato”. Il dono è un gesto unilaterale asimmetrico, che esprime la gratuità e in questo modo viene a contraddire la legge del mercato come scambio equivalente. Ciò che il dono genera è una nuova socialità che prima non c’era. Ma oltre a testimoniare la cultura del dono, (attraverso le varie forme del volontariato e dell’economia civile) bisogna impegnarsi a contrastare la trasformazione del mercato in cultura (come si vede nell’ospedale-azienda e nell’ingresso del linguaggio economico per definire i processi educativi nella scuola: offerta formativa, debiti-crediti, portfolio, consiglio di amministrazione, dirigente manager, ecc.). Insomma, bisogna denunciare il primato dell’economia che ha preso il posto dell’etica e della politica. La realtà viene infatti codificata a partire da una mentalità mercantilista. L’economia diventa la matrice, il serbatoio da cui si attinge per ribattezzare quelle realtà che economiche non sono, come abbiamo appena richiamato.

 

Scegliere l’intercultura come civiltà del con-vivere

Un nuovo principio educativo per una società interculturale non può limitarsi ad affermare i tradizionali valori della tolleranza e della convivenza, o anche, i nuovi valori del riconoscimento delle identità e del rispetto delle differenze. Occorre fare di più: scegliere la via obbligata dell’interculturalità.

Nel messaggio del Papa per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato (24 novembre 2004) si ribadisce la scelta per l’integrazione interculturale. Si sollecitano i cristiani a non accontentarsi della semplice tolleranza ma a “giungere alla simpatia”. Dice esplicitamente Giovanni Paolo II: «Si dovrebbe promuovere una fecondazione reciproca delle culture. Ciò suppone la conoscenza e l’apertura delle culture tra loro». Per questo «occorre coniugare il principio del rispetto, delle differenze culturali con quello della tutela dei valori comuni irrinunciabili, perché fondati sui diritti umani universali. Scaturisce di qui quel clima di ragionevolezza civica che consente una convivenza amichevole e serena». Se è compito dei cristiani vivere nel mondo come “sentinelle del mattino” allora spetta ad essi per primi «scorgere la presenza di Dio nella storia, anche quando tutto sembra avvolto dalle tenebre».

Un maestro dell’interculturalità come Raimon Panikkar afferma coraggiosamente che: «l’apertura all’interculturalità è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo, e quindi il nostro stesso mondo non è l’unico»18.

Alcune delle direttrici più importanti le troviamo esplicitate nel documento Le persone consacrate e la loro missione nella scuola (novembre 2002) della Congregazione per l’educazione cattolica, ai numeri 65-67, dove si afferma tra l’altro che: «la prospettiva interculturale comporta un vero cambiamento di paradigma a livello pedagogico. Si passa dall’integrazione alla ricerca della convivialità delle differenze. Si tratta di un modello non semplice né di facile attuazione» (n. 67).

4.2. La via (pragmatica) delle azioni, dei comportamenti e di nuovi stili di vita.

Insieme alla via delle idee c’è la via delle azioni, ossia della testimonianza, della pedagogia dei gesti e della cittadinanza attiva: infatti le idee da sole non bastano, ci vuole l’esempio concreto a partire dalla propria vita. Anche nella Bibbia dopo la “buona notizia” dei Vangeli viene la “praxis” ossia il libro degli Atti degli Apostoli. Gesù stesso ha rivelato il Padre all’umanità con “le parole e con i gesti” (Verba gestaque). Ecco allora l’importanza crescente degli stili di vita.

Oggi è soprattutto la scelta di uno stile di vita improntato alla sobrietà come virtù civile che può consentire ad ogni cittadino e ad ogni cristiano di dare il proprio contributo per la costruzione di un mondo più equo e più giusto. La sobrietà appare come la virtù sociale del futuro, il nuovo nome della temperanza.

La sobrietà come stile di vita

Tutta l’economia, dice Giovanni Paolo II è da ripensare. Il passaggio dalla società dello spreco a quella sostenibile non significa produrre di meno ma anche produrre diversamente. Meno prodotti superflui, più prodotti fondamentali; meno consumi privati, più consumi pubblici; meno energia da combustibili fossili, più energia da risorse rinnovabili; meno prodotti usa e getta, più prodotti riciclabili e duraturi; meno importanza alla quantità, più essenzialità e qualità della vita.

L’etica del limite e la cultura della sobrietà sono scelte obbligate per costruire fin da oggi una società sostenibile. La sobrietà è guardare il mondo con lo sguardo dei poveri e dalla parte dei poveri. La sobrietà è chiamata ad essere vissuta contemporaneamente come una scelta etica ed ecologica, economica e politica. Ma uno stile di vita non si improvvisa, non è fatto di episodi. Lo stile è lo specchio visibile di un’etica personale, di un’antropologia, è la saldatura di tre elementi complementari: una spiritualità (come sorgente di senso); un’opzione fondamentale (come finalità che orienta); una prassi quotidiana (come concretezza di azioni). Ecco perché è sostenibile solo uno stile di vita che promuove rapporti democratici tra le persone, favorendo pari opportunità di sviluppo e non consentendo a nessuno di arricchirsi alle spalle degli altri. Lo stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico, che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create (Centesimus annus, n. 37).

La sobrietà deve portare non solo all’etica del limite, della misura e dell’equilibrio, ma anche alla cultura dell’armonia della bellezza e della qualità. Per questo, come afferma Wolfagang Sachs, dovremmo iniziare anche a parlare di un’estetica della sobrietà (il gusto, la forma) e di una eleganza della semplicità.

La strategia dei comportamenti

Oggi la Chiesa appare molto sensibile alla scelta di nuovi stili di vita, si pensi a comportamenti alternativi come il consumo critico, i bilanci di giustizia, il commercio equo e solidale, la banca etica, le banche del tempo, l’economia di comunione, l’impegno per la Tobin Tax, ecc.

Le Conferenze Episcopali di tutta Europa sono impegnate a riflettere sulla salvaguardia del creato. La ricerca di un modello di sviluppo sostenibile deve essere inseparabilmente legata sia all’ambiente che alla giustizia sociale. Il legame sempre più profondo tra vita quotidiana (locale) e agenda mondiale (globale), pone in evidenza l’importanza di considerare il nostro stile di vita non solo come scelta strettamente personale, ma come “gesto politico” che incide sul contesto globale. D’altra parte, senza “piccoli passi” non esiste neanche un grande cammino. 

4.3. La via della partecipazione democratica alle reti della “società civile globale”.

Insieme alla via delle idee (un nuovo pensiero sociale) e degli stili di vita (nuovi comportamenti economici, ecologici, nonviolenti, ecc.), c’è poi una terza via che offre la possibilità di rendere più efficace politicamente quello che si fa e di orientare il pensiero e la prassi per una comune scelta etico-politica. È la profezia dell’insieme, la costruzione delle reti che agiscono dal basso. È il passaggio dalla strategia della “fionda di Davide” (che da solo, isolatamente, combatte contro Golia), alla Rete lillipuziana che dimostra come a Lilliput tutti insieme si impara a lottare contro Gulliver (immagine della globalizzazione). È questo il significato politico della Rete Lilliput.

In questa direzione, un segnale positivo è la diffusione di quella che da più parti è stata definita la “società civile globale”, gruppi auto-organizzati che agiscono direttamente a livello locale e fuori delle tradizionali istituzioni democratiche, ma che sono in grado di garantire fondamenti etici capaci di attraversare i confini nazionali e culturali.

Bisogna cercare di capire le ragioni per cui si distingue nettamente tra “government” (governo) e “governance” soprattutto globale. Con il termine inglese governance, di difficile traduzione, ci riferiamo al “sistema allargato di governo”, dove allargato indica con chiarezza il coinvolgimento di attori e processi non sempre e automaticamente implicati nella nozione tradizionale di governo. È il tema della democrazia partecipativa.

A nostro avviso tutti, anche le Suore, dopo un attento discernimento, devono chiedersi se aderire e partecipare. Ci riferiamo alle strategie dei gruppi di azione; alle campagne, alle reti, ai social forum, ecc. Questo è importante perché l’obiettivo del cambiamento non è solo “interiore”, ma anche “esteriore”; strutturale, istituzionale: occorre cambiare i meccanismi perversi e le strutture di peccato, come si esprimeva nel 1987 la Sollicitudo rei socialis.

La Suora stessa è chiamata oggi a prender parte non solo al servizio ai poveri, ma anche alle lotte contro la povertà e per nuove istituzioni di giustizia.

Di fronte allo strapotere della megamacchina economica i cui rappresentanti si chiamano G8, Club di Parigi, il complesso FMI/Banca mondiale/WTO, Forum di Davos, ossia il cosiddetto “Washington Consensus”, ecc., è urgente costruire luoghi di resistenza, contropoteri, imporre regole, trovare compromessi.

Alcune proposte per la riforma dell’ONU

a) L’allargamento del Consiglio di Sicurezza e l’eliminazione del sistema di veto;

b) l’istituzione di una seconda assemblea (la cosiddetta ONU due) in cui siedano i rappresentanti della società civile transnazionale (Ong, Chiese, movimenti) e dei vari popoli (sul modello del Parlamento europeo);

c) la creazione di un Consiglio di Sicurezza Economico e Sociale, dotato di specifici poteri; ma dal momento della sua ideazione (1995) il Consiglio di Sicurezza Economica non ha ottenuto il sostegno necessario né dei paesi sviluppati né da quelli in via di sviluppo. Ha scritto Walden Bello: «Nell’ambito dei cambiamenti sociali, in realtà non si possono effettivamente costruire dei nuovi sistemi senza indebolire l’influenza di quelli vecchi, i quali non sono facilmente disposti ad accettare sfide alla propria egemonia (...). La visione di un nuovo mondo può essere incantevole, ma resterà una visione se non sarà accompagnata da una solida strategia di realizzazione, e parte della strategia consiste nel deliberato smantellamento di quella vecchia.

d) C’è chi come Johan Galtung propone di creare un parlamento mondiale in sede ONU che preveda un rappresentante per ogni milione di cittadini: in questo modo avremmo un’assemblea con 1250 cinesi, 1000 indiani, 275 americani, 190 russi, 9 svedesi, ecc. La presenza degli occidentali in un parlamento siffatto si ridurrebbe al 22% e la maggioranza andrebbe, come vuole la demografia, al Sud del mondo.

Una celebrazione simbolica: ogni 12 settembre la “Giornata dell’Interdipendenza”

Bisogna credere alla forza dei simboli. Per questo riteniamo importante diffondere la proposta del politologo statunitense Benjamin Barber, dell’Università del Maryland: non celebrare più soltanto l’Indipendence Day (il 14 luglio per la Francia, il 4 luglio gli USA, ecc.), ma celebrare in tutto il mondo la “Giornata dell’Interdipendenza” e farlo il primo giorno dopo l’11 settembre una data che ormai appartiene al calendario cosmopolita. La prima Giornata si è tenuta a Filadelfia (2003), la seconda Giornata a Roma (2004), la terza Giornata a San Paolo (2005) e le altre si vedrà. A questa iniziativa hanno già aderito moltissimi organismi tra cui, per l’Italia, la Comunità di Sant’Egidio, i Focolari, le Acli, ecc.

Il Manifesto di Porto Alegre

Dopo cinque Forum sociali mondiali che si sono svolti a Porto Alegre, l’anno prossimo, nel 2006, il Forum si svolgerà in quattro città di quattro continenti diversi e, nel 2007, sarà in Africa.

Ecco alcune delle proposte fondamentali del Manifesto di Porto Alegre:

1. cancellazione del debito estero dei Paesi del Sud del mondo;

2. smantellamento progressivo di tutte le forme di paradisi fiscali, giuridici e bancari;

3. promuovere tutte le forme del commercio giusto, rifiutando le regole del libero scambio dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Escludere del tutto l’istruzione, la sanità, i servizi sociali e la cultura dal campo delle applicazioni dell’Accordo generale sul commercio e i servizi (Gats) dell’Omc;

4. assicurare il diritto di ogni Paese alla sovranità e alla sicurezza alimentare, attraverso la promozione della cultura contadina;

5. promuovere politiche pubbliche contro ogni forma di discriminazione, xenofobia, antisemitismo e razzismo;

6. garantire per legge il diritto all’informazione e il diritto di informare;

7. riformare e democratizzare profondamente le organizzazioni internazionali, tra cui l’Onu, e far prevalere i diritti umani, economici, sociali e culturali contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

 

Note

* Pedagogista, Ufficio Studi ACLI. [Torna al testo]

** Relazione tenuta alla XIX Assemblea Generale delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo, Roma, luglio 2005. [Torna al testo]

1.       Sull’atteggiamento con cui abitare nella storia cfr. ACLI (a cura), Vivere la speranza nella società globale del rischio, EMI, Bologna 2004. [Torna al testo]

2.       Sull’atteggiamento Global  cfr. Del Debbio P., Global. Perché la globalizzazione ci fa bene, Mondatori, Milano 2002. [Torna al testo]

3.       Sull’atteggiamento No global cfr. Aa.Vv., Globalizzazione delle resistenze e delle lotte, EMI, Bologna 2000; Ceri P., Movimenti globali, Laterza, Roma-Bari 2002. [Torna al testo]

4.       Sull’atteggiamento New Global cfr. Aa.Vv., Global, No global, New Global. La protesta contro il G8 a Genova, Laterza, Roma-Bari 2002; Aa. Vv., New Global, Zelig, Milano 2003. [Torna al testo]

5.       Sull’atteggiamento Postglobal cfr. Deraglio M., Postglobal, Laterza, Roma-Bari 2004; Dal Bosco E., La leggenda della globalizzazione, Bollati, Torino 2004. [Torna al testo]

6.       Sulla deglobalizzazione cfr. Bello W., Deglobalizzazione, Baldini-Castoldi Dalai Editore, Milano 2005. [Torna al testo]

7.       Per gli effetti della globalizzazione sulle persone cfr. Barman Z., La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002; Id., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2003; Beck U., I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2000; Id., La società globale del rischio, Asterios, Trieste 2001; Giaccardi C.- Magatti M., L’io globale, Laterza, Roma-Bari 2003. [Torna al testo]

8.       Ramonet I., Il pensiero unico, Ed. Strategia della Lumaca, Roma 1996; Id., La tirannia della comunicazione, Asterios, Trieste 1999. [Torna al testo]

9.       In Credere oggi 1, 2004, pp. 47-55. [Torna al testo]

10.    Sui rapporti tra religioni e globalizzazione cfr. Kurtz L., Le religioni nell’era della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2000. [Torna al testo]

11.    S. Zamagni, Globalizzazione: economia politica e ambiente, in Credere oggi 1, 2004, p. 40. [Torna al testo]

12.    U. Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003. [Torna al testo]

13.    M. Augé, Nonluoghi, Eleutera, Milano 1993. [Torna al testo]

14.    S. Morandini, Il tempo sarà bello. Fondamenti etici e teologici per nuovi stili di vita, EMI, Bologna 2003. [Torna al testo]

15.    A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondatori, Milano 2003, p. 11. [Torna al testo]

16.    J. Stglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2003, p. 219. [Torna al testo]

17.    OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), Word Commission on the Social Dimension of Globalization, A Fair Globalization. Creating opportunities for all, ILO, Ginevra 2004. [Torna al testo]

18.    R. Panikkar, Pace e interculturalità, Jaca Book, Milano 2002, p. 90. [Torna al testo]

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