n. 6
giugno 2006

 

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La Parola biblica
nella Deus caritas est

di Innocenzo Gargano

 

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Paolo o Giovanni?

Nel paragrafo 34 della sua prima Enciclica Deus Caritas est papa Benedetto XVI scrive: «San Paolo nel suo inno alla carità (cfr. 1Cor 13), ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non avessi la carità, niente mi giova» (v. 3). Quindi conclude: «Questo inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che, nel corso di questa Enciclica, ho svolto sull’amore».

Con queste parole il Santo Padre stesso, in persona, si preoccupa di offrire la chiave interpretativa autentica del suo scritto. Né noi possiamo presumere di non tenerne conto.

Bisogna dunque partire da Paolo? Eppure il titolo e l’inizio della lettera suggerirebbero Giovanni!

Come mai?

In realtà i riferimenti biblici presenti nella enciclica papale suppongono proprio una sorta di centralità della riflessione paolina a partire soprattutto dal testo di Gal 5,6 sull’amore operante. Ed è ancora un testo paolino, 2Cor 5,14, che fornisce la motivazione dell’Enciclica stessa là dove il Santo Padre, facendo sua la constatazione di Paolo, scrive ripetutamente: «L’amore di Cristo ci spinge».

Il che significa che ciò che preme a papa Benedetto è anzitutto ribadire la connessione strettissima esistente fra l’amore, visto come sentimento e tensione interiore, e la carità che non soltanto verifica nel concreto l’autenticità dell’amore, ma rimanda anche in modo assolutamente chiaro, all’amore di Cristo.

Con questo riferimento il santo Padre indica allo stesso tempo sia quell’amore la cui fonte è Cristo, amante per eccellenza, sia l’amore inteso come naturale eco, traboccante per gli altri, dell’amore ricevuto da Lui.

Infatti, dopo essersi dilungato, in modo particolarmente nuovo per un’enciclica papale, sulla descrizione delle due forme dell’amore condivise dalla letteratura e dall’opinione pubblica, quella dell’eros e quella della philìa, alla fine il papa riconduce tutto il suo discorso alla proposta dell’agape attingendo a piene mani dall’Antico e dal Nuovo Testamento.

Dunque non dalla riflessione filosofica o poetica, né da fondamenti specificamente antropologici, ma dalla Scrittura il santo Padre ricava quelle convinzioni profonde che lo hanno condotto a scrivere un’enciclica simultaneamente antica e nuova come antico e nuovo simultaneamente è il comandamento dell’amore proposto dalla Prima lettera di Giovanni così determinante nell’insieme della riflessione papale.

 

Antico e Nuovo Testamento

Sembra che il punto di partenza di questa riflessione di papa Ratzinger si possa rintracciare nel libro dell’amore per eccellenza che è il Cantico dei Cantici in cui il santo Padre trova due parole diverse per indicare l’amore (n. 6): dodim e ahabà. Cosa che gli permette di evidenziare l’insicurezza sottesa all’utilizzazione della prima e il superamento dell’indeterminatezza, ancora in ricerca, che è sottesa alla seconda.

Il riferimento alla traduzione dell’ebraico ahabà nel greco agape gli permette così di precisare che con quest’ultimo termine si «esprime l’esperienza dell’amore che diventa scoperta dell’altro» e dunque superamento di quel «carattere egoistico prima chiaramente dominante».

Infatti «adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità, ma cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca».

Su questo fondamento dell’Antico Testamento si innesta l’insegnamento di Gesù quando dice: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33). Ma su questa intuizione si fonda soprattutto l’intera vita personale di Gesù, «che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione».

Infatti «la vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito» (n. 12).

“Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento”, Gesù sintetizza nella piccolissima parabola del chicco di grano che cade nella terra e muore, e così porta molto frutto, l’essenza dell’amore e dell’esistenza umana (cfr. n. 6).

 

Amore ascendente e amore discendente

È alla luce di questo riferimento totalmente biblico che il santo Padre può riprendere ancora le intuizioni sull’amore ascendente, inteso come eros, collegandolo indissolubilmente all’amore discendente, identificato con l’agape, e constatando: «In realtà eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro» (n. 7), pur evidenziando, in questa indissolubilità reciproca, un primato indiscusso dell’agape, dal momento che senza di esso «l’eros decade e perde anche la sua stessa natura» (ivi).

Credo che questa sia un’affermazione assolutamente centrale dovuta, ancora una volta, al fondamento biblico che tutta la sorregge. La metafora della sorgente è assai illuminante in tutto questo. Scrive il Santo Padre: «Certo l’uomo può – come dice il Signore – diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva (cfr. Gv 7,37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente, che è Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio» (cfr. Gv 19,34).

Del resto «L’amore può essere ‘comandato’ perché prima è donato» constata il papa riassumendo tutto l’insegnamento di Giovanni (n. 14).

Questo primato dell’amore che viene da Lui, dal Crocifisso, fonda ogni altra possibilità di amore.

Il santo Padre ne deduce – facendosi per un momento discepolo di Gregorio Magno – un analogo primato della contemplazione sull’azione ma, di nuovo, senza che questo comporti una sorta di superiorità di grado della vita contemplativa sulla vita attiva, essendo soltanto un primato di origine della prima sulla seconda in analogia al Padre che, rispetto al Figlio, è origine e fonte della divinità, senza che questo nulla tolga alla perfetta uguaglianza del Padre col Figlio nell’amplesso comune dello Spirito Santo.

L’intuizione di papa Ratzinger sulla pari dignità fra vita attiva e vita contemplativa, condivisa da Agostino e da Gregorio Magno, i quali parlavano chiaramente di gemina caritas, mi sembra fondamentale. Essa infatti elimina in un colpo solo secoli di contrapposizione e di supposta superiorità dell’una o dell’altra forma di vita, sostenute senza sufficiente consapevolezza teologica e sfociate in discussioni inutili, spesse volte perfino laceranti, che hanno prodotto grandi danni alla concezione della vita consacrata.

Credo che, a partire da questi suggerimenti del papa teologo, tutti coloro che si dedicano a riflettere sui fondamenti biblico-teologici della vita consacrata dovrebbero trarne grande giovamento.

L’approfondimento di questa tematica, che papa Benedetto compie con l’aiuto di Gregorio Magno, è di un’importanza fondamentale.

Scrive il santo Padre: «San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che viene rapito in alto fino nei più grandi misteri di Dio e così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti (cfr. 2Cor 12,2-4; 1Cor 9,22). Inoltre indica l’esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. Dentro (la tenda) rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori (della tenda) incalzare dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur» (n. 7).

 

L’amore nei Padri della Chiesa

In realtà tutto questo conduce inevitabilmente il lettore, e il santo Padre ne è profondamente cosciente, alla teologia tradizionale dei Padri sull’immagine di Dio riflessa nell’interiorità dell’uomo. «Sì, esiste una unificazione dell’uomo con Dio – il sogno originario dell’uomo – ma questa unificazione non è un fondersi insieme – spiega il papa teologo- un affondare nell’oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l’uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”, dice san Paolo (1 Cor 6,17)» (n. 10).

Da questa misteriosa unità nella distinzione, così fondamentale nella teologia biblica cristiana, il santo Padre parte non soltanto per suggerire alcuni punti di antropologia cristiana, ma anche per sviluppare ulteriormente la sua particolare concezione dell’amore fra uomo e donna. Spiega papa Ratzinger: «Adamo trova l’aiuto di cui ha bisogno: ‘Questa volta essa è carne della mia carne e osso dalle mie ossa’ (Gn 2,23). È possibile vedere sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, nel mito riferito da Platone» (n.11); ciò non toglie in ogni caso che sia fondamentale affermare che l’uomo «solo nella comunione con l’altro sesso possa diventare ‘completo’».

Il che permette di capire la profezia su Adamo contenuta nel libro della Genesi, là dove si legge: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24).

Il santo Padre può così concludere con estrema serenità: primo, che «l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo» (un’affermazione del tutto ovvia, a partire dall’intuizione biblica, e tuttavia a suo modo di suono quasi rivoluzionario ad alcune orecchie cristiane contemporanee); secondo, che l’eros inscritto nella creazione dell’uomo suppone il matrimonio inteso come «un legame caratterizzato da unicità e definitività» (anche questa un’affermazione del tutto ovvia e tuttavia di difficile accoglienza nella società contemporanea).

Il santo Padre, ben consapevole di simili difficoltà non torna però indietro e ribadisce le sue convinzioni, attinte all’insegnamento biblico, sintetizzando: «All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico». Per cui «il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa». Stabilendo poi solennemente il principio che «il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (n. 11).

Un principio, che posto in relazione con il mistero dell’amore fatto carne in Gesù di Nazaret permette a papa Benedetto di scendere nelle profondità abissali di ciò che ha enunciato fin da principio nella sua Enciclica con le parole di 1Gv 4,8 proclamando al mondo intero che ‘Dio è amore’.

Spiega papa Ratzinger: «È sulla morte in croce di Cristo che questa verità può essere contemplata», perché proprio «partendo da lì deve definirsi che cosa sia l’amore». Infatti solo partendo da «questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare» (n. 12). Un vivere e un amare che restano squisitamente personali, fondando teologicamente la diversità delle scelte di vita cristiana che possono andare dalla chiamata al compimento ‘naturale’ nel matrimonio, al misteriosissimo completamento umano che uomini e donne, chiamati da un particolarissimo sguardo ricevuto dal Crocifisso stesso alla vita consacrata, realizzano in Lui.

La connessione strettissima fra sacrificio della croce ed eucaristia è, a questo punto, del tutto ovvia e naturale per qualunque battezzato. Così come viene accolta con naturalezza l’osservazione che nell’Eucaristia «l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi». E che «solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore» (n. 14): Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1Cor 10,17), dice san Paolo.

E papa Benedetto commenta: «L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me» (ivi), né mi posso illudere di tralasciare completamente l’attenzione all’altro, «volendo essere solamente ‘pio’ e compiere i miei ‘doveri religiosi’, perché allora si inaridisce anche il rapporto con Dio» (n. 18); né posso pensare di avere con gli altri un rapporto «soltanto ‘corretto’, ma senza amore» (ivi).

L’amore poi non è soltanto un sentimento – precisa il santo Padre –, che spiega: «Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore. È proprio della maturità dell’amore coinvolgere tutte le potenzialità dell’uomo e includere l’uomo nella sua interezza». Questa maturità «unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore» in un processo continuamente in divenire, perché «l’amore non è mai concluso e completato» (n. 17, passim).

“L’amore cresce – conclude papa Benedetto – attraverso l’amore. L’amore è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia <tutto in tutti> (1Cor 15,28)”. (n. 18).

 

I servizi della carità

La seconda parte dell’Enciclica inizia con una vera e propria sinfonia di testi biblici dai quali parte il santo Padre per riassumere i concetti principali espressi nella prima parte e rilanciare il discorso sull’amore aprendolo ai molteplici servizi propri di una carità operante.

Fondamentali, in questa parte, sono due proposte paradigmatiche poste l’una di fronte all’altra: primo, la dimensione trinitaria della carità supportata dalla splendida citazione di sant’Agostino: «Se vedi la carità, vedi la Trinità»; secondo, il riferimento alla koinonia originaria della Chiesa descritta negli Atti degli Apostoli (cfr. nn. 19-20), col prezioso riferimento allo Spirito indicato come «forza che trasforma il cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo testimone dell’amore del Padre, che vuole fare dell’umanità, nel suo Figlio, un’unica famiglia» (n. 19).

Da cui l’esaltante conseguenza del servizio della carità della Chiesa, inteso come “espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo, cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana.

Amore è pertanto – sottolinea il papa – il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini” ( n. 19). Un compito che la Chiesa non può esimersi dal compiere «a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità» (n. 20).

La Chiesa infatti «non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola» (n. 22). Direi che in questa triade: Servizio, Sacramenti, Parola, debba essere vista la sintesi della parte propositiva di tutta l’Enciclica. L’elevazione del Servizio della carità allo stesso livello di Sacramento e Parola, nonostante che essa sia del tutto ovvia nell’insegnamento del Nuovo Testamento, costituisce forse, accanto alla pari dignità fra vita attiva e contemplativa, della quale abbiamo già parlato, la particolare accentuazione che papa Benedetto intende dare al suo servizio pastorale e al suo magistero universale.

Da qui un invito spontaneo – mi sembra – per tutti i componenti del corpo ecclesiale, a prendere sul serio queste due accentuazioni del papa per farne un approfondimento adeguato a tutti i livelli generazionali e culturali, sia nell’ambito laicale che in quello della vita consacrata, che porti a scoprire in ciò che ci siamo permessi di chiamare con linguaggio patristico gemina caritas, l’obiettivo o il fine della comune appartenenza cristiana.

Il santo Padre offre a questo proposito una vera e propria traccia di lavoro quando, sintetizzando i due dati essenziali del suo insegnamento, scrive:

a) L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia).

Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro.

La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza.

b) La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario.

Al contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa” (n. 25).

La dimensione ecumenica della carità è fuori discussione, così come è ovvio l’impegno, anche politico, dei credenti per una società umana la più giusta possibile, per il semplice fatto che, come diceva Agostino in un’altra delle perle patristiche proposte da papa Ratzinger: Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?; cioè: “se non c’è giustizia a cosa si riducono i regni se non a un grande latrocinio?”. Un giudizio severissimo nei confronti di qualunque istituzione politica che non ponga scrupolosamente se stessa a servizio della giustizia.

L’impegno politico va comunque perseguito – sottolinea il papa – tenendo conto che «alla struttura del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio» (cfr. Mt 22,21).

Particolarmente importante per i credenti che sono stati chiamati alla vita consacrata è il richiamo del santo Padre a garantire la «formazione del cuore» (cfr. n. 31).

Una formazione che dovrebbe realizzare «quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (cfr. Gal 5,6).

Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è ‘un cuore che vede’, spiega ulteriormente il papa. «Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente» (n. 31). E fa tutto questo con atteggiamento assolutamente gratuito, privo scrupolosamente di secondi fini, senza tuttavia lasciare da parte né Dio né Cristo, dal momento che è in gioco sempre tutto l’uomo e «spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza» (ivi).

 

Conclusione

Conclude il papa: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr. 1Gv 4,8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare… Di conseguenza la migliore difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore» (ivi).

Non poteva esserci conclusione più bella di questa in una Lettera Enciclica interamente dedicata all’amore. Da queste parole del santo Padre riceviamo infatti una tale provocazione alla libertà da fugare una volta per tutte, in noi e in ogni nostro interlocutore, qualunque preoccupazione moralistica, proselitistica, ideologica e quant’altro dovesse oscurare la limpidità dell’amore di Dio che si è riversato sopra di noi col sangue preziosissimo di Cristo e che continua a permeare la Chiesa e ogni singolo fedele grazie al dono ineffabile dello Spirito Santo.

L’ultima parte dell’Enciclica rivela la consapevolezza di papa Ratzinger sulla vacuità delle parole, e delle attività, perfino di quelle di un papa, se non sono accompagnate dalla testimonianza di una vita che faccia appunto dell’agape, come insegna Paolo nel suo bellissimo inno di 1Cor 13, la fonte, il centro e il culmine dell’intera vita di fede.

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