n. 2
febbraio 2007

 

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FORMATI DALLA LITURGIA
di Maria Campatelli

 

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Che cos’è la liturgia

Il punto di partenza

Quando san Paolo dice che nella «pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4) e che in Gesù Cristo si è compiuta «la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni» (Rm 16,5), ci insegna che ci sono tempi più preziosi di altri che gettano luce sui restanti. E quando il vangelo di Giovanni parla del pane e del «vero pane» (cf Gv 6,32), suggerisce che esistono diversi livelli della realtà. Nella Chiesa antica questo si sapeva con immediatezza, con la conseguenza che si era in grado di stabilire delle connessioni, dei nessi tra i tempi, gli eventi storici, le cose. Se tutto è stato creato per mezzo del Verbo (cf Gv 1,3), la creazione porta scritta in sé la traccia del Logos: il mondo è un sacramento di Dio e un grande simbolo cristologico. Il mondo visibile e la sua storia sono legati al mondo invisibile da un insieme di fili, di nessi che si esprimono nei simboli. Dio cioè ha riempito la creazione delle sue tracce, inadeguati ma validi indicatori puntati verso di Lui; ha dato all’uomo una mente e la facoltà della parola che può apprezzare questi indicatori, esprimerli e seguirli alla luce del dono della fede. L’uomo moderno non ha più il gusto di questo genere di conoscenza, eppure il simbolo è una forma permanente della conoscenza di Dio. Il simbolo è la manifestazione e una sorta di presenza dell’invisibile nel visibile. Attraverso ciascuno dei simboli, si rivelano certi aspetti della realtà di Dio, e tuttavia non si esaurisce tutta la sua ricchezza e la sua inattingibilità.

Per i Padri, esisteva un doppio genere di simboli: i simboli della natura e i simboli della Scrittura. I simboli naturali sono la manifestazione divina attraverso il mondo sensibile: l’olio, la perla, la luce, il fuoco, l’albero, il concepimento, la nascita, la paternità e la maternità, tutto diventa il «vestiario dei nomi» attraverso cui Dio si fa conoscere agli uomini attraverso immagini tratte dall’ordinaria esperienza umana. Dio tuttavia si rivela non solo nella natura delle cose, ma anche negli eventi storici che costituiscono la storia sacra: l’elezione di Abramo, l’uscita dall’Egitto, l’entrata nella terra promessa, il sacerdozio di Aronne, la regalità di Davide... Nasce il simbolo biblico: c’è una corrispondenza tra i diversi momenti della storia sacra. Questa corrispondenza è stata indicata dai Padri con il nome di tipologia, con riferimento ai due passi del Nuovo Testamento in cui si dice che Adamo è figura (typos) di Cristo (cf Rm 5,14) e del battesimo che è antitipo (antitypos) del diluvio (cf 1Pt 3,18). Questa tipologia ha il suo fondamento nell’unità del piano di Dio e nella perfetta congiunzione di creazione, Antico e Nuovo Testamento. Natura e Scrittura sono ordinate all’Incarnazione. Ma cose ed eventi storici non smettono di rivelare Dio anche dopo l’Incarnazione, che compie tutti i simboli: continuano ad adempiere il loro ruolo di conoscenza e di rivelazione nei sacramenti della Chiesa, grazie ai quali la nostra relazione con Dio non si limita all’ordine della conoscenza, ma partecipiamo a ciò che ci è rivelato.

I tipi e i simboli che annunciano le realtà spirituali non sono soppressi con il realizzarsi della realtà significata, ma sono assunti da essa e ne formano una parte integrante. La forza simbolica della tipologia è progressiva: il tempo della Chiesa è il compimento o la realtà in relazione ai tipi dell’AT, ma la Chiesa stessa è solo il tipo del regno escatologico. Questa tipologia progressiva suggerisce un cammino. Efrem il siro lo tratteggia così in uno dei suoi poemi: si tratta del percorso stabilito da Dio «dall’albero [di vita] alla croce: dal legno al legno e da Eden a Sion, da Sion alla santa Chiesa e dalla Chiesa al regno» (HCHaer 26,4).

Avere una mentalità del genere è un buon presupposto per entrare nella liturgia e nel mistero che essa ci comunica.

Liturgia: celebrazione dell’amore di Dio

Il mistero è al cuore della liturgia. Che cosa si vuole dire con questo? Tutto è effusione dell’amore di Dio, un amore che si riversa sulla creazione e vuole dimorare tra gli uomini. Ma deve essere «accolto dai suoi» (cf Gv 1,11), perché l’amore non si impone. Il dono di Dio è riconosciuto solo se è accolto. Il desiderio che Dio ha dell’uomo ha bisogno di incontrarsi con il desiderio che l’uomo ha di Dio. C’è allora il tempo delle promesse: tutto il tempo prima di Cristo ha il significato essenziale di una preparazione a Lui. Poi c’è la pienezza del tempo, quando in Cristo, uomo-Dio, l’umanità è finalmente capace di accogliere il dono del Padre e di rispondergli, quando in Cristo si realizza in modo eminente quella sinergia, «co-azione» divino-umana, per cui ogni carne è compenetrata di Dio.

L’accoglienza del dono del Padre da parte del Figlio coinvolge anche il corpo della sua/nostra umanità e l’amore del Padre lo risuscita dai morti. Cristo, unito al Padre, irradia nel suo corpo la gloria di Dio. Unito alla sorgente, dona la vita. Pienamente consegnato al Padre fino alla morte, la sua vita umana, circoscritta nello spazio e nel tempo, entra nell’eternità. Si squarcia il tempo lineare, cronologico, storico, ed entriamo in un’altra dimensione dove tutto si tocca, si concentra. Nella nostra esperienza creata, tempo e spazio sono come tanti punti uno accanto all’altro, separati da intervalli destinati ad essere riempiti dall’amore. Finché rimangono fuori dall’amore, nell’egoismo, sono impenetrabili e fatti di un prima e di un dopo, di un qui e di un lì. Quando entrano nell’amore, tutto si compenetra, tutto diventa compresente e anche la materia smette di respingere (Cristo, dopo la risurrezione, entra a porte chiuse). La risurrezione di Cristo, avvenuta in un tempo e in uno spazio storico preciso, riversa il suo potere di salvezza su tutte le epoche della storia e su tutti i luoghi geografici. È questo uno dei significati della discesa agli inferi di Cristo risorto: la sua opera di salvezza ha effetto anche «a ritroso», perché nel tempo del mistero, nel tempo sacro, non c’è più un «prima» e un «dopo».

La risurrezione è così la sorgente della liturgia: l’amore che Dio ha riversato sulla sua creazione può finalmente essere celebrato - cioè, secondo il significato etimologico della parola, essere «portato a compimento» - perché ritorna a Lui in accoglienza del dono, comunicazione del dono e riconoscenza per il dono, in una circolazione di vita e di amore di cui il Padre è la fonte e allo stesso tempo anche il termine.

Il Nuovo Testamento non ha praticamente termini cultuali se non riferiti a Cristo, proprio per indicare che questa è la liturgia. Sacerdozio, offerta, culto, vittima, sono termini che indicano la morte volontaria di Cristo, con la quale il Signore Gesù entra una volta per sempre nel santuario celeste (cf Eb 9,11) alla presenza del Padre.

Asceso alla destra del Padre, dove ha portato anche la nostra umanità che Lui ha assunto, Cristo attira questa nostra umanità, che in Lui ormai può rispondere a Dio lodando il suo Nome, associando in questa attività gli uomini, gli angeli, gli arcangeli, i cherubini e tutti i viventi. E’ questa la liturgia eterna.

Se c’è il tempo delle promesse e la pienezza del tempo, il tempo dopo Cristo, dall’ascensione al ritorno glorioso del Signore nella parusia, ha il significato di realizzare negli uomini che nascono nel mondo fino alla fine dei tempi la partecipazione e l’assimilazione di quelle realtà divine che sono in Cristo e che Cristo ci comunica attraendoci nel suo mistero, nella pienezza della vita divina che sovrabbonda in Lui. Il tempo dall’ascensione alla parusia ha lo scopo cioè di riprodurre nei singoli il mistero di Cristo, di far entrare in questo mistero, esserne assorbiti, trasformare e salvare, attraverso la sua reale presenza in noi.

La celebrazione della liturgia eterna è questo flusso e riflusso sempre nuovo della comunione trinitaria di cui è resa partecipe tutta la creazione: gli angeli, i viventi, tutti i tempi… (cf Ap 4,4-11). Si tratta finalmente di leitourgía, “opera comune”, sia nel senso di Dio e dell’uomo insieme, opera di sinergia; sia, conseguentemente, in quanto opera divino-umana, non di un singolo individuo, ma di tutta l’umanità, opera di comunione.

Liturgia e celebrazioni liturgiche

Il mistero dell’Ascensione ci insegna che Cristo è alla destra del Padre e allo stesso tempo è presente sulla terra in un modo nuovo. Luogo privilegiato di questa presenza è la Chiesa e momento per eccellenza la vita liturgica della comunità, che ci incorpora a Cristo e ci fa uno con la sua offerta celeste. La liturgia è allora questo ponte vivo e misterioso incessantemente percorso tra cielo e terra: Cristo, che siede alla destra del Padre nei cieli, dimora fisicamente anche in terra, sugli altari. Lo squarciarsi del tempo che si è verificato con la risurrezione si ripete in tutti i momenti che partecipano dello stesso contenuto salvifico. Questo ci spiega anche la tensione che esiste tra l’esperienza che abbiamo del battesimo, dell’eucarestia, dei sacramenti in genere nella nostra vita e il loro pieno realizzarsi alla fine dei tempi: sono come dei “buchi”, delle fenditure, attraverso cui ci è possibile attingere al mistero, all’eschaton, al regno, alla vita eterna (i tanti modi in cui chiamiamo questa realtà) e farne esperienza in vari gradi già nel tempo storico.

Così, il culto cristiano ci immette nel grande movimento della preghiera del sommo sacerdote Gesù, della sua intercessione celeste e terrena. Si tratta di momenti di pienezza e di grazia che devono sprigionare la loro pienezza nel tempo, con la sua caratteristica di gestazione e di tensione segnata anche dalla tribolazione e dalla miseria. Mentre la nostra esistenza faticosamente si fa penetrare dalla vita di Cristo risorto – tanto faticosamente che talvolta non siamo capaci di vedere tale penetrazione – la celebrazione liturgica ci fa attingere alla pienezza degli ultimi tempi, alla vita piena, alla vita eterna, alla vita incorruttibile a cui tutta l’umanità e anche noi non siamo ancora passati. Non è un caso se la liturgia eucaristica bizantina comincia con una benedizione del regno: la liturgia infatti ci trasporta nel regno, dove la nostra vita è “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3).

Le nostre celebrazioni sono uno squarciarsi dei tempi in cui attingiamo alla salvezza, alla speranza della gloria, alla vera immagine della Chiesa e di me negli occhi di Dio, affinché siamo capaci di vivere tutto questo nell’ordinario. Allora il tempo e la storia, invece di essere un movimento del passato verso il presente, diventano un movimento a partire dal futuro verso il presente. E anche la nostra vita personale, insieme alla storia, viene a noi dal futuro, dal giorno ultimo, dalla risurrezione finale, quando tutte le cose sono state fatte nuove.

Questa dinamica tra vita e liturgia ci rende chiaro un altro aspetto tipico della liturgia, senza la quale essa è difficilmente comprensibile: il suo doppio ritmo di preparazione e compimento, un ritmo che rivela e compie la doppia natura e la doppia funzione della Chiesa stessa.

Da una parte, la Chiesa è preparazione, perché ci prepara per la vita eterna e la sua funzione è di trasformare tutta la nostra vita in preparazione. Perciò è sempre lì a ricordarci che l’ultima realtà che dà significato e direzione alle nostre vite deve essere sperata, aspettata, invocata. Di conseguenza, anche la liturgia è sempre e anzitutto preparazione: sempre guarda oltre se stessa, oltre il presente, e la sua funzione è quella di trasformare la nostra vita in vista del suo compimento nel regno di Dio.

D’altra parte, la Chiesa è anche ed essenzialmente compimento. Gli eventi che l’hanno fatta nascere e che costituiscono la fonte della sua fede e della sua vita si sono già verificati: Cristo è venuto, e in Lui l’uomo è stato divinizzato ed è asceso al cielo, ed è venuto anche lo Spirito Santo ad inaugurare il regno di Dio.

Ora, è proprio nella e tramite la liturgia che questa doppia natura della Chiesa ci è rivelata e comunicata, ed è la funzione propria della liturgia rendere la Chiesa una preparazione e rivelare essa stessa come compimento. Per questo ogni giorno, ogni momento è trasformato e reso questa doppia realtà, una correlazione tra “già” e “non ancora”. Non potremmo essere pronti al regno di Dio che “non è ancora”, se questo regno non ci fosse in qualche modo “già” dato, se noi non sperimentassimo i suoi inizi, se non ne avessimo il gusto. Se la liturgia non fosse “compimento”, la nostra vita non potrebbe mai essere “preparazione”. E, viceversa, se la liturgia non fosse “preparazione”, non potremmo mai vivere il suo “compimento” nel regno. Questo doppio ritmo di preparazione e compimento non è accidentale. Si tratta dell’essenza stessa della vita liturgica della Chiesa. Senza vederlo, ridurremmo la liturgia al culto, alla cerimonia. Ma il culto non è fine a se stesso: si celebra il culto per il sorpassamento del culto, per la liturgia dei nostri corpi, il culto spirituale di cui parla san Paolo (cf Rm 12,11).

La liturgia non solo ci dà questa immersione nella vita nuova, ce la comunica, ma comunicandocela anche ci educa ad essa, plasma la nostra vita secondo un suo proprio ritmo, una sua modalità. La liturgia è una specie di antropologia in atto che è quella della trasfigurazione di Cristo, alla quale il suo corpo (cioè noi, la Chiesa) partecipiamo quando ci raduniamo per celebrarlo. L’educazione religiosa allora non deve essere nient’altro che il dischiudere ciò che accade alla persona quando nasce di nuovo attraverso l’acqua e lo Spirito ed è fatto membro della Chiesa. E siccome si tratta non solo della semplice comunicazione di una “conoscenza religiosa”, di formare una buona persona, ma l’edificazione di un membro del corpo di Cristo, un membro di quel “popolo scelto”, “nazione santa” (1Pt 2,9) la cui vita misteriosa nel mondo è cominciata il giorno del battesimo, i ritmi e le caratteristiche della liturgia ci dicono qualcosa sul contenuto e sul modo di questa educazione religiosa.

Una liturgia che plasma la vita

Di questa educazione religiosa a partire dalla liturgia si potrebbero dire tante cose. Mi limito ad alcune che, senza costituire niente di esauriente, saranno sufficienti per suggerire qualche spunto, qualche ispirazione.

Lo sfondo: nell’oggi della liturgia

La liturgia è un grande oggi. Abbiamo visto che tramite la liturgia entriamo nel mistero di Cristo, dove tutto è compresente. Una festa è pertanto una entrata nel e una comunione con il significato eterno di un evento avvenuto nel passato secondo il tempo storico, ma a cui ora, attraverso la liturgia, possiamo attingere. La memoria naturale è più che altro una «presenza dell’assente», così che più è presente colui di cui facciamo memoria, più acuta è la sofferenza per la sua assenza. Ma in Cristo la memoria diventa di nuovo la facoltà di ricomporre il tempo spezzato dal peccato e dalla morte, dall’odio e dall’oblio. Ed è proprio questa memoria nuova come potere sul tempo e sul suo essere spezzato che si trova al cuore della celebrazione liturgica, dell’oggi liturgico. Certo che in questo momento la Madre di Dio non partorisce nessuno, e nessuno sta di fronte a Pilato. Come fatti, questi eventi appartengono al passato, ma oggi noi possiamo farne memoria e la liturgia è proprio il dono e il potere di questa memoria che trasforma i fatti del passato in eventi a noi contemporanei, dandoci la possibilità di rientrare in quell’evento.

Questo è il grande scenario che ci prepara la liturgia, con la sua scansione tra i sette giorni e l’ottavo giorno, tra i quaranta giorni della quaresima - il tempo di questo mondo, il quotidiano con la sua fatica e la sua lotta, la sua ascesi - e la cinquantina, la pentecoste, come figura del mondo venturo. Per questo la celebrazione sacramentale della giornata comincia ai vespri: quando la luce del mondo fisico declina verso le tenebre, brilla la luce che è Cristo risorto. E attorno al mistero pasquale gravitano due costellazioni: quella del ciclo mobile e quella del ciclo fisso delle feste. Il ciclo mobile si riferisce alla Pasqua nel suo simbolismo numerico: l’ottavo giorno che fa passare il sabato del tempo mortale nel giorno eterno della risurrezione; il ciclo fisso è quello delle feste del Signore, della Madre di Dio e dei santi. Sono feste fisse perché, avvenute nella storia, sono ora nella gloria.

E come c’è un tempo sacramentale della liturgia, c’è anche un suo spazio sacramentale. Alla prima pentecoste i discepoli si riuniscono «in uno stesso luogo». Questa espressione (épi to auto), fondamentale in ecclesiologia, ha un significato allo stesso tempo locale e spirituale (cf At 2,1): l’unità di luogo significa l’unità dei cuori. Nella liturgia noi abitiamo questo corpo di Cristo totale, uniti a tutti quelli che sono di Cristo in tutti i tempi e in tutti i luoghi, dal «giusto Abele» fino all’ultimo bambino che nascerà.

Ogni sforzo spirituale è finalizzato alla nostra partecipazione a questo oggi e in questo luogo della risurrezione di Cristo.

«Da lì a qui»

Questo ci fa capire una prima conclusione: il movimento che anima il ciclo liturgico non parte dai giorni, dalle settimane, per santificarle con delle preghiere, ma all’inverso, parte dal «giorno senza tramonto della risurrezione», dove ci trasporta, per liberare e trasfigurare le ore, i giorni, i mesi del tempo che non sono ancora vivificati da Cristo e dal suo Spirito. Questo quadro, questa visione, questo sfondo motiva la nostra ascesi: quando io partecipo a questa realtà, vedo questo traguardo, io voglio raggiungerlo, mi muovo verso questa direzione. Devo fare uno sforzo, rinunciare a certe cose, cambiare certe abitudini, e tutta la mia vita diventa un esercizio. Ogni cosa acquisisce un significato, ogni cosa diventa santificata, perché ogni cosa è un passo in questo lungo percorso che mi porta al giorno della risurrezione.

Il realismo è quello della liturgia

Nella liturgia, dove io attingo alla vita del regno, dove la mia vita è nascosta con Cristo in Dio, imparo lo sguardo giusto da avere sulle cose relative alla vita quotidiana, se l’antropologia vera è quella dell’uomo nuovo. Non comprendo la maternità della Madre di Dio a partire dalle nostre esperienze di madri, ma imparo che cosa significa essere madre celebrando e meditando anno dopo anno il ciclo del Natale, le feste della Vergine, sbirciando attraverso la scansione dell’anno liturgico, quello che riesco a vedere della Madre di Dio. Non capisco Dio come Persona a partire dalla mia esperienza delle persone. Piuttosto, se la persona è un essere in relazione, allora «persona» è il nome proprio di Dio. Solo Dio è persona, perché è in relazione con tutti. Non proietto l’esperienza che ho avuto di mio padre (che può essere anche disastrosa) sulla paternità di Dio, ma capisco che l’esperienza vera della paternità è quella lì, che Padre è un «nome proprio» solo di Dio, e che l’umanità indossa questo nome appropriatamente nella misura in cui rivela qualcosa di Lui. Lo stesso sul rapporto tra lo sposo e la sposa.

C’è una bellissima omelia di Giacomo di Sarug dove questo poeta-teologo siriaco dice che Mosè vide Cristo e lo chiamò «uomo», vide la Chiesa e la chiamò «donna» e parlò nella Genesi dell’uomo e della sua donna. Ma bisognava aspettare Cristo e la Chiesa perché questo mistero fosse svelato e riverberasse la sua luce anche sul rapporto tra l’uomo e la donna. Il realismo è, appunto, quello della liturgia. Il mondo ha le sue radici nella Sapienza di Dio, ma è ferito mortalmente dal peccato e ha l’esperienza della sua guarigione solo nel Nuovo Adamo e in tutti quelli che sono innestati in Lui e attraverso questo innesto contribuiscono a liberarlo dalla schiavitù della corruzione. Il peccato sparisce, sarà risucchiato dall’abisso del nulla su cui è gettata la creazione come un ponte. Allora non possiamo proiettare questo nulla su ciò che è, comprendere quello che è a partire da questo nulla.

Una pedagogia

A partire da questa prospettiva, dalla liturgia si impara anche tutta una pedagogia, basata sulla sua scansione, sul suo ritmo interno:

la settimana e l’ottavo giorno. C’è l’ordinario, il quotidiano e l’irrompere della festa. In un tempo dove non c’è più nessuna differenza tra il feriale e la festa, forse bisognerebbe di nuovo imparare a valorizzare i piccoli gesti, le piccole attenzioni che aiutano a coscientizzare tutto questo;

il ciclo dell’anno, con i suoi digiuni e le sue feste. La festa non come distrazione, rilassamento, secondo un ritmo in fondo animale del lavoro e del riposo, ma come giustificazione e frutto di questo lavoro e, per così dire, la sua trasformazione sacramentale in gioia, e dunque in libertà. Ma è difficile vivere la festa se ci divertiamo come si divertono tutti.

E, per celebrare la festa, ci vuole il digiuno. In un mondo di diete e di ricerca del benessere, o ci siamo scordati del digiuno, o lo travisiamo. Secondo i Padri, Adamo in paradiso aveva ricevuto l’ordine di digiunare, perché con il digiuno doveva controllare il suo desiderio per rendere cosciente e completo il suo rapporto con il Creatore e allo stesso tempo per vedere il mondo non come una preda, ma come un’eucarestia. La devianza originaria, il mangiare il frutto proibito, è visto come un atteggiamento predatorio: consumare il mondo invece di trasfigurarlo. Tutta la tradizione – non ultimo Solov’ëv – ha scritto cose bellissime sul digiuno di cibo che ha senso solo se si accompagna a un digiuno spirituale: dalla volontà di potenza, di vanità, dell’intelligenza, fino al digiuno della misericordia. Che cosa vuol dire attualizzarlo, viverlo?

l’offerta e l’epiclesi. Tutta la liturgia si basa sul doppio movimento dell’offerta dell’uomo e dello Spirito che scende su questa offerta e la trasforma. L’epiclesi è l’invocazione (klésis) che sale verso il Padre per supplicarlo di far scendere il suo Spirito su (épi) quanto gli offriamo (il pane, il vino, l’assemblea, tutto quello che mettiamo davanti alla sua misericordia). Anche la preghiera personale ha una dinamica liturgica: l’altare del cuore, l’epiclesi del cuore (dove all’offerta più povera di chi rinuncia alla sua volontà rimettendola nelle mani del Padre corrisponde il dono dello Spirito Santo), per diventare la mensa della condivisione. La preghiera diviene allora un’offerta interiore, un’epiclesi di tutto l’essere alla quale finisce per rispondere la discesa di una pentecoste. Come il pane che offriamo si trasforma nel suo corpo, così la nostra preghiera a Gesù diventa la preghiera di Gesù, cioè entra nella preghiera incessante di Gesù, liturgia eterna celebrata davanti al volto del Padre che ci unisce a tutti.

la materia e il simbolo. In un mondo secolarizzato, tecnocratico, consumista, dove non solo c’è una riduzione dell’uomo al mondo, alla storia e alla natura, ma anche la storia e la natura stesse sono ridotte a quello che è fruibile per l’uomo, si impara a guardare alle cose come sono uscite dalle mani di Dio il primo giorno della creazione, con gli occhi liberati dall’opacità della colpa. Questo ci aiuta a dare valore alle cose, spessore e corposità ai gesti...

io e noi. La liturgia è questo «noi» in cui ogni tanto affiora un «io» («Credo», «mia colpa»), perché quello che è mia responsabilità, che è mio compito, che è mio peccato non può affogare in un «noi» impersonale.

Ma liturgia significa anzitutto anche «io-noi». Leitourgía vuol dire letteralmente «opera comune», sia nel senso di Dio e dell’uomo insieme, opera sinergetica, perché dopo l’incarnazione non esiste «l’umanità naturale», ma esiste la divino-umanità, il Corpo di Cristo; sia, conseguentemente, in quanto opera divino-umana, non ascrivibile ad un singolo individuo, ma a tutti quelli che sono di Cristo, opera di comunione. En Christô, in Cristo, ricorre 164 volte negli scritti di san Paolo. E la vita en Christô implica non solo la presenza dell’altro che è Cristo, ma anche degli altri che sono le sue membra. In questa prospettiva, anche quello che è nostro, personale, che è nostra responsabilità, si sfuma, si allarga... Qui si apre un capitolo smisurato su che cosa significherebbe pensare la comunità, la vita comunitaria a partire non da uno sguardo non solo psicologico, ma dall’ontologia dei rapporti, a cui la liturgia ci fa attingere... 1

Maria CAmpatelli
Centro Aletti – Via Paolina, 25
00184 Roma

 

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