n. 4 aprile 2008

 

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Aspetto ecclesiale del voto di povertà

di Giuseppe Pasini

 

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Mi propongo di articolare la riflessione sotto tre angolazioni: la Chiesa come soggetto di povertà evangelica; povertà come opzione preferenziale dei poveri; povertà come “Chiesa in stato di servizio”.

La Chiesa soggetto di «povertà» evangelica

La povertà per la Chiesa è una dimensione costitutiva, che esprime la sua connotazione cristologica.

L’aspetto che maggiormente colpisce nella vita di Cristo è quello di veder attuata in lui la missione profetica dell’evangelizzare i poveri, non solo affettivamente - con il distacco del cuore dai beni della terra -, ma anche effettivamente: Cristo si è fatto povero.

Yves Congar, uno dei grandi esperti del Vaticano II affermava: «Non si deve, certo, fare di Gesù un indigente: la famiglia di Nazaret era una famiglia di artigiani che viveva del suo lavoro. Però, Gesù non sarebbe capibile staccandolo dalla stalla di Betlemme e dalla croce. L’aspetto interiore, cioè di disposizione spirituale, e quello esteriore, d’impoverimento effettivo, appaiono inseparabili. Non è possibile perseguire una semplice povertà di spirito che non si traduca in alcuna forma d’impoverimento esteriore. Se è povertà cristiana, vissuta alla sequela di Cristo, non è separabile da una comunione con la povertà del mondo» (Y. Congar, Chiesa e povertà, Ave, Roma 1963).

Cosa può significare sul piano pratico per la vita della Chiesa questa concezione cristologica di povertà? Cosa può voler dire l’espressione «Chiesa povera»?

Una prima accezione riguarda proprio l’aspetto dei beni materiali. La Chiesa segue Cristo povero se affida la propria sicurezza e l’efficacia della propria azione evangelizzatrice alla presenza di Dio e all’azione della Grazia, più che ai mezzi materiali, ai beni posseduti, al sostegno delle forze politiche, alle garanzie derivanti dai vari patti e concordati. Considera pertanto le risorse materiali puri strumenti; si limita alle cose necessarie ed elimina quelle superflue o di pura immagine.

Nel caso della Chiesa italiana, ad es. tutta l’impostazione dell’8‰ legata al nuovo Concordato, comporta indubbiamente alcuni aspetti positivi, quali la tranquillità economica per i sacerdoti che consente maggiore libertà nel loro ministero, l’attuazione di una perequazione tra il clero…

Il sistema attuale però non è il migliore possibile, giacché comporta anche alcuni rischi per la pastorale: deresponsabilizzare le comunità cristiane nei confronti del mantenimento del clero; alimentare l’immagine del sacerdote come “uomo garantito” e, in qualche modo, privilegiato, rispetto ai molti che vivono nella flessibilità e nel precariato; c’è anche il rischio di far apparire la Chiesa come una real-tà sociale ricca e potente, perché dispone di molti mezzi economici: una Chiesa pertanto che probabilmente avrà più difficoltà a schierarsi e ad apparire schierata a difesa dei poveri.

Le persone consacrate, in ragione della loro scelta radicale di vita, dovrebbero stimolare la Chiesa a recuperare una maggiore coerenza evangelica. Per farlo, però, dovrebbero essere e apparire come realtà che hanno fatto la scelta della povertà. Non va dimenticato infatti il richiamo del Concilio ai religiosi/e a non dare al loro voto di povertà un’accezione troppo “individuale” e “spiritualistica”. È vero che i voti sono “personali”, ma è anche vero che vengono pronunciati nella comunità religiosa, ed è la comunità il “segno” più eloquente per la gente. Dice il Concilio: «Cerchino di dare una testimonianza in qualche modo collettiva della povertà e volentieri destinino qualche parte dei loro beni per le altre necessità della Chiesa e per il sostentamento dei poveri, che i religiosi tutti devono amare con l’amore di Cristo […]. Pur avendo diritto di possedere ciò che è necessario alla vita temporale e alle loro opere […] tuttavia evitino ogni parvenza di lusso, di lucro eccessivo, di accumulazione di beni» (Perfectae caritatis, 13).

Una seconda accezione di povertà della Chiesa è costituita dall’accettazione della propria debolezza considerata non come limite da sopportare, ma come punto di forza. La Chiesa è stata rappresentata da Gesù come “soggetto debole” sotto le immagini del “sale e del lievito” (Mt 5,33). Il lievito è piccola quantità rispetto alla pasta del pane. Egualmente il sale: non si mangia, ma si nasconde e scompare: se resta poco, dà sapore, se è troppo, rende il cibo immangiabile. La forza della Chiesa sta nell’accettare di essere minoranza: una minoranza autentica, che trae la sua forza da Dio ed è destinata a dare significato al mondo.

In questo senso la Chiesa oggi è povera: sia sotto il profilo numerico, cioè in rapporto con la popolazione del mondo; sia per la tipologia del messaggio che è poco attraente: la dottrina della croce, la proposta delle beatitudini; sia in ragione delle insufficienze e deficienze del clero (vocazioni sempre più scarse) e dei cristiani (scandali, cattivi esempi, incoerenze). La Chiesa è chiamata non tanto a “rassegnarsi alla propria debolezza”, ma ad amarla, a considerarla come stimolo a porre solo in Dio la sua fiducia, e ad accentuare la sua dimensione profetica, che è costituita dalla santità. Storicamente constatiamo che Dio sa suscitare figure di santi in tutti i momenti di crisi: Francesco nel periodo delle Crociate; S. Carlo dopo la tragedia del Protestantesimo; S. Vincenzo de Paoli in coincidenza alla corruzione della Chiesa; Giovanni XXIII in pieno clima di secolarizzazione.

La Chiesa sperimenta la propria debolezza anche nella crisi di vocazioni. Si può essere tentati in questa congiuntura ad allargare le maglie dell’accoglienza dei candidati: bisogna invece essere più esigenti nella scelta e più rigidi nella disciplina. I giovani oggi si spendono per cause grandi e impegnative (vedi la crescita di vocazioni alla vita contemplativa). Le vocazioni fioriscono nell’humus della fedeltà alla parola di Dio e delle forti testimonianze di vita: a San Salvador, dopo il martirio di mons. Romero, si sono moltiplicate le vocazioni al sacerdozio; Giovanni Paolo II ha conquistato più con la sua sofferenza che con le assemblee oceaniche.

La debolezza quantitativa di vocazioni sacerdotali può diventare un stimolo per abbandonare forme clericali di gestione della pastorale, valorizzando molto di più i laici. Si deve inoltre sfuggire al rischio della chiusura in una spiritualità intimistica e asfittica, che ha come destinatari i pochi, i soliti, gli anziani fedeli e si concentra nei pellegrinaggi devozionisti, per aprire invece la comunità cristiana alla “missione” negli ambienti lontani. Giovanni Paolo II diceva: «Chiesa esci da te stessa, per ritrovare te stessa». Il lievito e il sale diventano significativi quando si perdono nella pasta e nelle vivande.

Anche in questo secondo ambito di povertà le persone consacrate, soprattutto quelle che operano nella pastorale, possono aiutare la Chiesa. Esse avranno forza propositiva nella misura in cui avranno affrontato positivamente i problemi emergenti dalla crisi vocazionale, con scelte coraggiose e innovative.

Scelta preferenziale dei poveri

La seconda angolazione della povertà ecclesiale è data dall’opzione preferenziale dei poveri, ricalcando l’esempio del Signore.

È doveroso evidenziare in primo luogo i motivi di questa scelta. Essa non è dettata da ragioni sociologiche pure legittime: volontà di favorire l’uguaglianza, dando di più a chi ha meno; e neppure da cause di opportunità pastorale: accrescere la credibilità della Chiesa e così più facilmente raggiungere i lontani. La scelta è dettata esclusivamente da motivi cristologici, cioè di fedeltà a Cristo. La Chiesa è chiamata a fare la scelta dei poveri, perché è sacramento di Cristo, e Cristo ha fatto questa scelta. Gli ultimi sono una categoria evangelica, messianica.

Nella visita alla sinagoga di Nazaret, Gesù stesso ha applicato a sé le parole del profeta Isaia che identificavano così il Messia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché Egli mi ha consacrato per annunciare ai poveri la buona novella; mi ha inviato a proclamare la libertà ai prigionieri, ai ciechi la vista e a rimandare liberi gli oppressi […]. Oggi questa Scrittura si è compiuta» (Lc 14,18-21).

In Matteo 25,31-46 Gesù ha presentato il servizio ai poveri come condizione di salvezza. Commentando questo testo il card. Martini scrive: «Questa pagina ci dice, senza mezzi termini, che c’è un solo modo possibile per salvarsi: quello di rendere alcuni servizi essenziali e primari al Signore, al Figlio dell’uomo: e che questo misterioso Signore è presente nei fratelli più piccoli. Matteo, parlando di ammalati, affamati, assetati, carcerati, migranti […] usa espressamente la parola ‘ultimi’, ‘infimi’». Cristo, perciò, nell’amare i poveri, è il perché e il modello del cristiano e della Chiesa.

Senza soffermarmi su chi sono i poveri e gli ultimi, mi limito semplicemente a ricordare che i poveri non si esauriscono nelle categorie economiche, anche se l’aspetto economico ha quasi sempre una rilevanza determinante per le persone e le famiglie in difficoltà. D’altronde, la tradizione biblica e cristiana ci ha trasmesso l’elenco delle 14 opere di misericordia, 7 corporali e 7 spirituali, quasi a dire che l’amore dei cristiani deve abbracciare tutta la persona e i credenti devono essere disponibili a impoverirsi, a rinunciare al proprio benessere, alle proprie comodità, al proprio tempo, pur di dare una mano a chi è in difficoltà.

Inoltre va richiamata la doppia dimensione della povertà. Povero è chi per un verso non ha risorse sufficienti per una vita dignitosa e per assicurare il proprio sviluppo; per un altro verso è chi non è messo in grado di collaborare al bene comune, e quindi sperimenta la sensazione di emarginazione, di esclusione sociale, d’insicurezza, d’inutilità. Giustamente Paolo VI definiva i poveri come «coloro che non contano; coloro di cui non si ascolta il parere; coloro sui quali si decide, senza preoccuparsi che siano essi a decidere, nemmeno sulle decisioni che li riguardano».

Scegliere i poveri, di conseguenza costituisce di per sé un annuncio di fede; equivale a dire con i fatti che la persona – ogni persona, anche l’ultima - è al centro di tutto: lo è per il Signore, lo è anche per noi.

L’aspetto più legato al nostro tema è la scelta ecclesiale dei poveri. Scelta ecclesiale - della diocesi, delle singole parrocchie - significa che l’opzione preferenziale dei poveri non è un problema “settoriale”, cioè proprio dell’ambito caritativo assistenziale, ma è “trasversale” a tutti i settori pastorali e tocca lo stile stesso della pastorale. La comunità cristiana va concepita come un popolo in cammino, che si muove insieme e ritma i propri passi nella misura dei più deboli.

Riguarda perciò la catechesi: chi sono gli ultimi in questo ambito? Chi ha maggior bisogno di annuncio? Chi è più trascurato? Riguarda l’amministrazione dei sacramenti: quelli dell’iniziazione cristiana e in particolare il sacramento del matrimonio. Nella gestione di queste celebrazioni vengono fatte discriminazioni? I poveri si sentono vera-mente trattati alla pari? Riguarda la costruzione e l’accessibilità degli edifici sacri o di uso pastorale: sono comodi anche per le persone anziane e per i disabili? Riguarda la composizione dei Consigli pastorali: c’è la preoccupazione che vi siano anche persone di modesta cultura o persone che vivono particolari disagi? Riguarda la struttura dei bilanci parrocchiali: esiste la voce “solidarietà” con i poveri? Quale consistenza ha? Quale impegno esiste per i poveri del Terzo Mondo? Riguarda infine i servizi sociali gestiti dalla Chiesa: scuole materne, scuole primarie o medie, servizi socio-sanitari, servizi sportivi…: sono aperti a tutti, anche a chi dispone di pochi mezzi, oppure sono una riserva per chi può pagare?

Anche su questo aspetto è importante l’apporto che possono dare i religiosi e le religiose. Dovrebbe essere un vanto per le persone consacrate trasmettere all’intera comunità la loro tensione di “poveri a servizio dei poveri”. Questo però suppone che per primi/e offrano all’interno della propria comunità un esempio di attuazione di questa prospettiva. Ad es. i più deboli: i religiosi/e anziani, malati, meno istruiti, come vengono trattati nella gestione ordinaria dell’Istituto e nelle scelte strategiche della congregazione? C’è riconoscenza per il lavoro di una vita svolto da chi oggi è inabile? C’è l’attenzione ad ascoltarli e a sentirne il parere almeno nelle scelte che li riguardano? Come si affronta il rischio che il criterio dell’efficienza e della produttività finisca per diventare dominante anche nella vita religiosa?

L’altra esperienza che dà forza ai religiosi/e per una eventuale spinta alla parrocchia viene dalla testimonianza dei loro servizi. Quasi tutte le congregazioni con una certa tradizione storica sono sorte con la prospettiva di servizio ai poveri: asili, scuole, ospedali. Quanto è stato conservato di questo carisma originario? Sono riconoscibili come scelte prioritarie per i poveri le nostre opere: scuole, cliniche, centri di aggregazione sociale?

Una Chiesa in stato di servizio

La terza dimensione della povertà ecclesiale è di sentirsi come Chiesa a servizio dell’umanità: espropriarsi di se stessa e sentirsi tutta e solo in funzione della salvezza del mondo. Due sono le strade che oggi maggiormente s’impongono alla Chiesa nella sua missione di servizio all’umanità.

La prima strada è di fungere da “coscienza critica” di fronte alla società civile, all’economia, alla politica, richiamando quei valori che «a causa dell’accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere, sono in pericolo. La Chiesa ha il dovere di offrire il suo contributo […] affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili» (Deus caritas est, 28).

Si pensi al tema dibattuto negli ultimi anni sull’autenticità della famiglia, fondata sul matrimonio fra l’uomo e la donna. Si consideri il tema più recente della vita umana e dell’aborto. È balzato immediatamente agli occhi dei credenti, ma anche di molti laici, la contraddizione tra l’impegno doveroso e giusto - appoggiato anche da forze laiciste e sedicenti tali - contro la pena di morte e l‘indifferenza per il massacro di milioni di innocenti, attraverso la pratica dell’aborto. Tanto zelo per la difesa giusta della vita di chi si è macchiato di delitti gravi e l’indifferenza di fronte alla soppressione di milioni di vite innocenti.

Si pensi anche al permanere da decenni di una fascia molto alta di poveri, in un paese come l’Italia, che è tra i più ricchi del mondo: presenza denunciata dal rapporto congiunto della Caritas Italiana e Fondazione Zancan. Naturalmente la Chiesa nel richiamare questi valori umani insidiati dalle scelte politiche ed economiche non può attendersi applausi. Sono infatti interventi che “disturbano il manovratore”. Nessun “servo” attende applausi. È importante però fare bene il servizio.

Una seconda strada per servire l‘uomo e la società è quello di offrire allo Stato un contributo di servizi sociali concreti dentro il piano nazionale di Welfare. Si costruisce il bene comune parlando, ma soprattutto facendo.

Ne tratta Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, quando, dopo aver ricordato che questo tipo di presenza fa parte della tradizione millenaria della Chiesa ed è quindi un suo ‘diritto-dovere’, pone il problema sull’identità specifica dei servizi ecclesiali. Come si distinguono da altri servizi gestiti dallo Stato o dalle forze sociali? Come rientrano nella missione di salvezza della Chiesa? Il Santo Padre risponde indicando quattro caratteristiche:

- la prontezza nel rispondere al bisogno. Si potrebbe dire che la Chiesa deve esprimere una capacità profetica nel cogliere i bisogni nuovi, scoperti;

- la competenza professionale: si potrebbe parafrasare dicendo che “non basta fare il bene: bisogna farlo bene” e questo implica anzitutto la formazione permanente degli operatori;

- l’attenzione del cuore: «Non si limitano ad eseguire in modo abile il servizio… ma si dedicano all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che (i pazienti) sperimentino la ricchezza di umanità» (Deus caritas est, 31/A).

- l’impegno per i diritti dei poveri: «È necessaria la voce comune dei cristiani per uno sviluppo del mondo verso il meglio, per il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei poveri, degli umiliati, degli indifesi» (Deus caritas est, 30/B).

In sintesi è richiesto alla Chiesa di proporsi come modello e battistrada di un vero servizio all’uomo e di costruzione di una nuova qualità della vita.

Anche in questo ambito i religiosi/e, in forza del voto di povertà, possono costituire un notevole aiuto alla Chiesa per vivere la sua identità di Chiesa povera in stato di servizio. Lo faranno con efficacia nella misura in cui per primi realizzeranno servizi sociali, educativi, sanitari, in linea con le indicazioni dell’enciclica papale, e si muoveranno con l’attenzione aperta ai bisogni del territorio, sottolineando anche la dimensione mondiale dei problemi. In tal modo, operando insieme, Chiesa e religiosi/e, realizzeranno un trasferimento dei valori evangelici dal livello della semplice testimonianza evangelica, a quello dell’animazione della società civile.

Giuseppe Pasini
Presidente della Fondazione Emanuele Zancan
Via Andrea Memmo, 49 - 35122 Padova

 

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