n. 7/8
luglio/agosto 2008

 

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L’altro: ferita e benedizione
Una prospettiva socio-culturale

di Luigino Bruni

 

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Alle religiose che con i loro carismi
 trasformano le ferite degli altri in benedizioni per tutti.

Immaginate... una città senza condomini rumorosi e litigiosi, dove ogni famiglia ha la sua propria villetta isolata acusticamente e visivamente dalle altre case in modo che nessun vicino possa dar fastidio all’altro, dove i pochi grattacieli rimasti (per uffici) sono fatti in modo da evitare ogni incontro lungo le scale o nei pianerottoli, dove il traffico urbano è perfettamente regolato in modo da evitare litigi per la precedenza, dove, negli uffici, si comunica solo via mail o skipe per le decisioni più delicate, dove tutti gli spazi una volta comuni sono stati lottizzati e privatizzati, dalla zettino di città...

Una città ideale: conflitti ridotti quasi a zero perché è venuta meno la pre-condizione stessa del conflitto. Vi piacerebbe vivere in una tale città? Vi auguro di sì, poiché lo scenario che ho stilizzato è molto vicino alle città che oggi stiamo immaginando e progettando nelle nostre società di mercato. Mercato, sì, perché il mercato con la sua logica è proprio quello che più sta determinando questo scenario.

Questa relazione vorrebbe offrire qualche spiegazione del perché si sta determinando un simile scenario, e magari offrire qualche spunto per evitare (per chi, come me, lo vuole) che questo quadro triste diventi realtà.

C’è un’immagine e un’intuizione all’origine di questo testo: il combattimento di Giacobbe con l’angelo (l’immagine), e l’indissolubile legame presente in ogni rapporto umano tra ferita e benedizione (l’intuizione).

Ogni relazione profonda con l’altro è insieme ferita e benedizione. L’altra faccia della felicità che mi porta la relazione interumana è occupata dalla sofferenza. Le esperienze umane fioriscono quando si riesce a convivere con questa tensione drammatica, diventano invece luoghi alla lunga invivibili quando si vuole prendere la benedizione senza la ferita.

La scienza economica, con la sua promessa di una «vita in comune senza sacrificio», rappresenta nella modernità una grande via di fuga dalla «ferita dell’altro», e proprio per questo l’umanesimo dell’economia di mercato è tra i grandi responsabili (sebbene non l’unico) della deriva triste e solitaria del nostro tempo. Una condizione umana senza gioia anche per aver creduto alla grande illusione che il mercato, o l’impresa burocratica e gerarchica, ci potesse regalare una buona convivenza senza dolore, ci facesse incontrare un altro innocuo e disarmato, che scambiasse, invece di combattere, con noi. Il trucco, però, è che questo innocuo incontro con l’altro senza ferita è anche un incontro senza gioia, che non porta ad una vita pienamente umana, per la persona e per la società. Questa grande illusione della modernità oggi la stiamo pagando con la moneta della felicità.1

Al tempo stesso, la strada di una ritirata dai mercati non è percorribile - come non lo è quella dallo Stato - se è vero che la storia umana ci mostra che dove non arriva il mercato non è normalmente l’amore scambievole a prendere il suo posto; soprattutto nelle grandi comunità, il vuoto del contratto è spesso riempito da varie forme di“feudalesimo”, dove il più forte sfrutta il più debole. Un mondo senza mercati non è una società decente; una società con soli mercati lo è ancor meno. Il mercato, questa terra di mezzo dove possiamo incontrarci senza sacrificio in modo civile e pacifico, è una conquista della civiltà e uno strumento di civiltà che, qualche volta, può anche allearsi con la gratuità, e diventare mezzo per una convivenza umana più libera e addirittura fraterna. Comunità e mercati possono essere coniugati in modo fecondo, e molte esperienze di economia sociale e civile - Economia di Comunione --sono importanti fatti (non teorie) che ci dicono che l’alchimia del contratto in dono può realizzarsi. Vediamo però a quali condizioni.

L’ambivalenza della vita in comune

«Studiando le grandi correnti del pensiero filosofico europeo riguardo la definizione di ciò che è umano, si giunge ad una conclusione inaspettata: la dimensione sociale, l’elemento della vita in comune, non è generalmente considerato necessario per l’uomo. Tuttavia questa tesi non si presenta come tale, è piuttosto un presupposto che non viene formulato»2.

In queste pagine cercheremo di comprendere alcune delle ragioni che hanno portato con la modernità all’affermazione di questa visione individualista e a-sociale dell’essere umano. Vedremo che la nascita della scienza economica moderna rappresenta una tappa importante nell’umanesimo individualistico della modernità.

Nella società tradizionale medievale, fortemente modellata attorno ad una certa comprensione del cristianesimo, la possibilità della vita in comune era profondamente legata all’idea del sacrificio e della sofferenza.

La radice di questa visione la troviamo nel pensiero greco, soprattutto nell’etica di Aristotele. Questo grande pensatore aveva colto un paradosso che si pone al cuore dell’intero Occidente: la vita buona, la vita felice, è al tempo stesso civile e vulnerabile. Siccome, come ci ricorda nella sua Etica Nicomachea: «l’uomo felice ha bisogno di amici» (cap. IX), e per questa ragione «non si può essere felici da soli», non è allora possibile raggiungere la felicità nella solitudine e nella fuga dalla vita civile e dal rapporto con l’altro. Però, se la felicità richiede rapporti sociali, richiede cioè amicizia e reciprocità, e se l’amicizia e la reciprocità sono sempre faccende di libertà non controllabili pienamente da noi, allora la nostra felicità dipende da quanto e se gli altri rispondono e ricambiano il nostro amore, la nostra amicizia e reciprocità.

Se per essere felice ho bisogno di amici e di reciprocità, allora la vita felice ha una natura ambivalente: l’altro è per me gioia e dolore, l’unica possibilità per una vera felicità, ma è anche colui o colei da cui dipende la mia infelicità. La “vita buona”, la benedizione, dipende allora dagli altri che mi possono ferire. D’altra parte, se per evitare questa vulnerabilità mi rifugio nella solitudine e nella contemplazione, al riparo dagli altri (la grande alternativa neo-platonica o cinica) 3, la vita non fiorisce in pienezza. Ecco allora la tradizione di pensiero aristotelica, più che Aristotele stesso, ha associato la vita felice alla tragedia. Così si esprime al riguardo la filosofa contemporanea Martha Nussbaum: «queste componenti della vita buona sono destinate a non essere per nulla autosufficienti. Esse saranno invece vulnerabili in maniera particolarmente profonda e pericolosa».4

In questo senso, la vita in comune, la communitas, porta iscritta nelle sue carni il segno della sofferenza. Il mondo giudaico ci ricorda, con alcuni grandi simboli e miti contenuti soprattutto nella Genesi, che l’altro è al tempo stesso benedizione (perché senza di lui non posso essere felice) ma anche colui che mi ferisce, come nel racconto del combattimento Giacobbe con l’angelo che è l’ispirazione alla base di questo scritto.

Dall’individualità alla communitas

Il pensiero pre-moderno e antico aveva intuito questa natura ambivalente della “vita buona”: non si può essere felici senza communitas; ma proprio per il bisogno essenziale del rapporto con l’altro e della sua presenza, la vita buona della comunità si intreccia, in vari modi, con la morte – si pensi, ad esempio, che la prima città (Enoch) nella Bibbia viene fondata dal fratricida Caino, e che anche la fondazione di Roma è associata (in diversi miti) all’assassinio di Remo da parte di Romolo. Sui rapporti umani si ritrova l’effigie del sacrificio e della sofferenza, e se non si accettano questo rischio e questa sofferenza, la vita non è pienamente umana.

Ecco perché l’idea di bene comune nell’Occidente pre-moderno, non era associata ad una somma di interessi privati; era piuttosto una sottrazione: solo rinunciando e rischiando qualcosa del “proprio” (del bene privato) si può costruire il“nostro” (il bene comune), che quindi è comune perché non appartiene a nessuno.

Va però subito notato che la visione pre-moderna del mondo, christianitas inclusa, rimane sostanzialmente olistica: si vede la comunità, non si vede l’individuo. L’Assoluto assorbe tutto, e l’individualità non emerge.

 In particolare l’uomo antico non vede il rapporto io-tu, l’intersoggettività orizzontale, tra uguali. L’ambivalenza della vita in comune, vissuta, sperimentata, intuita nella carne non era diventata nel mondo antico, né nell’Occidente pre-moderno, una cultura.

Nel mondo antico il rapporto interumano era comunque sempre mediato dall’Assoluto. La comunità è un unico corpo, un organismo, al cui bene tutte le componenti sono pre-ordinate. A tale proposito è interessante notare, nel racconto del combattimento di Giacobbe della Genesi, che l’autore sacro vede Dio stesso, o un angelo, in quell’“essere misterioso” che combatte, non l’altro uomo (sebbene nel testo si parli di “un uomo”). Quella cultura non può vedere un altro uomo in quell’essere misterioso, perché l’altro con cui combattere e ferirsi è Dio (o, meglio, i suoi angeli, perché con Dio l’uomo non combatte, essendo totalmente altro). Nel combattimento con Dio, però, l’uomo antico vede subito la benedizione dietro quella ferita, la terra dei padri che attende Giacobbe, e l’accetta – un’operazione simile non sarà invece quella dell’uomo moderno che nell’altro uomo non vedrà la possibilità di benedizione, ma solo la ferita.

In questo rapporto con Dio,

l’Assoluto, il dolore, il limite, il peccato sono orientati al trascendente: tutto acquista senso in questa prospettiva verticale, una prospettiva che tradotta nella vita civile diventa sistema feudale e gerarchico, che rispecchia un ordine divino benevolo (o così inteso) impresso dal Bene nelle dinamiche umane.

Io non debbo entrare in rapporto profondo con te per essere felice. La struttura relazionale fondamentale della pre-modernità è dunque triadica e ineguale (ma non trinitaria, dove, per definizione, i Tre sono uguali).

Tutto il Medioevo è stato, quindi, una lenta emersione della categoria dell’individualità: un processo che si è svolto in modo armonioso fino all’umanesimo civile toscano nella prima parte del Quattrocento, ma che poi è esploso in un processo veloce e irreversibile con il Rinascimento, la Riforma, il Seicento e l’Illuminismo. In questo processo culturale va collocata la nascita dell’economia politica moderna.

La scoperta del «tu»: l’angelo diventa l’altro

La modernità ha tra le sue caratteristiche fondamentali proprio la scoperta dell’altro come un tu, come una soggettività che mi si pone di fronte come diverso da me, ma su un piano di uguaglianza. L’angelo (quell’essere misterioso che combatté con Giacobbe) diventa l’altro.

Una volta che l’Assoluto è uscito dal proprio orizzonte, una volta tramontato il Sole, nel crepuscolo degli dei l’uomo moderno ha abbassato lo sguardo, si è guardato attorno e si è accorto dell’esistenza dell’altro, di un altro-che-nonlui, e che dunque rappresenta un “non”.

Eccoci così arrivati al momento cruciale del nostro discorso: la scoperta dell’altro fatta dalla modernità è stata la scoperta del negativo e della “ferita” che l’alterità porta necessariamente con sé. L’uomo moderno ha visto soprattutto la ferita, non la benedizione dell’altro. La realtà dell’io e dell’altro-che-non-sono-io, non è stata associata al positivo e alla felicità che l’altro può darmi, ma al negativo, al non-essere, al “non”. L’entusiasmo per la scoperta della mia esistenza come soggetto (e in effetti di entusiasmo si è trattato) è stata accompagnata nella modernità anche dalla paura dell’esistenza dell’altro. Nello stesso istante in cui l’uomo moderno dice “io”, pronuncia il “tu” con paura, e quindi fa di tutto per non pronunciarlo, per non riconoscerlo come uguale e diverso da sé, tantomeno come fonte indispensabile di felicità. La scoperta dell’altro non diventa una via di mutuo riconoscimento, ma apre una stagione – ancora in pieno sviluppo – di ricerca di vie di fuga per non incrociare gli occhi dell’altro.

Hobbes e Smith rappresentano due grandi momenti in questo processo epocale nelle scienze sociali. In sintesi, Hobbes con il Leviatano e Smith con la“mano invisibile” del mercato, hanno cercato un sostituto all’assoluto come mediatore del rapporto io-tu. Davanti al“non” che la scoperta dell’altro portava con sé, il pensiero sociale moderno non ha voluto affrontare e attraversare quel negativo e quella ferita, ma ha riportato, di fatto, la struttura relazionale alla situazione della pre-modernità: io-mediatore-tu, dove il mediatore da Dio diventa il Leviatano o il mercato, che svolgono, occorre notarlo, la stessa funzione di impedire l’attraversamento di quel “buio” che è l’altro con un volto.

«Dimmi il tuo nome»

Ma solo quando l’altro mi chiede il nome, entra cioè in un rapporto personale con me, mi benedice: «“Dimmi il tuo nome”. E qui lo benedisse» (Gn 32,31). Nella politica di Hobbes e nell’economia di Smith non c’è dunque una intersoggettività diretta, ma una relazionalità mediata e anonima, per paura del negativo e della sofferenza (la “ferita”) che quel “tu” personale incorpora. Il contratto - privato, in Smith, sociale in Hobbes - diventa così lo strumento principale di questa operazione, dove il «contratto è innanzitutto ciò che non è dono, assenza di munus».5

Le scienze sociali moderne nascono dall’invenzione di una nuova terzietà: non più il Terzo (Dio), neanche un terzo che apre e universalizza il rapporto io-tu, il terzo che è un “egli” o “lui”, ma un terzo che è immune dal nostro rapporto, e che ci immunizza reciprocamente, e che garantisce (o ci promette) una terra franca nella quale incontrarsi senza ferirsi.6 La modernità al “tu” ha preferito questo “egli”. È questa l’invenzione di una nuova forma di rapporto interumano, il contratto all’interno del mercato, che si presenta come una promessa di relazioni mediate senza sofferenza.

Il contratto diventa così una nuova forma di reciprocità radicalmente alternativa a quella fondata sul libero dono reciproco: il dono ci accomuna poiché ci mette nella condizione di insistere su una terra comune, che, per definizione, non è propria a nessuno di noi, laddove il contratto ci rende reciprocamente immuni perché ciò che è mio non è tuo, e viceversa. La terra comune, soprattutto quando è terra di rapporti tra eguali, è anche terra di conflitto e di morte, un conflitto e un dolore che la modernità non ha voluto accettare rinunciando - e qui sta il punto - anche ai frutti di vita di quella terra comune. La modernità ha voluto spezzare l’ineluttabilità di questo connubio, senza riuscirvi, se non pagando un costo che si sta rivelando troppo alto.

La nascita dell’economia nel Settecento, l’opera di Smith in particolare, è un momento fondamentale nel progetto “immunitario” della modernità. Nell’economia moderna il bene comune è raggiunto senza alcuna forma di sacrificio legata al rap-porto personale e tragico con l’altro: è semplicemente una somma di interessi privati (A+B), che grazie al mercato puo’ diventare (A+Æa)+(B+Æb). La nuova communitas economica non richiede nessuna ferita e  nessun rischio: ognuno cerca il proprio interesse personale e, senza incontro personale, il mercato (la “mano invisibile”), produce indirettamente anche il bene comune. Una “cooperation without benevolence”, come dirà Hume, uno dei maestri di Smith.

Se il mercato fosse un ambito limitato e ben distinto della vita -- come lo sport o l’opera classica -- potremmo senza troppe preoccupazioni, e magari con un certo entusiasmo, accettare l’esistenza di questa zona franca dove incontrarci senza ferita e senza sofferenza. Ma se il mercato diventa la forma principale per organizzare la vita in comune, se entra in tutta la vita civile, allora una relazione civile affidata al solo contratto di mercato è insufficiente e pericolosa, né lo Stato Leviatano, che incorpora la stessa logica mediata e impersonale, può sanare tale “fallimento” della relazione interumana.

L’abbraccio dell’altro

Il «paradosso della felicità» ci dice sostanzialmente a quale caro prezzo stiamo pagando oggi l’assenza di benedizione che l’economia dell’immunitas ha prodotto. Le merci simulano sempre più rapporti senza ferita, ma anche senza benedizione. Da qui l’infelicità crescente delle moderne economie e società di mercato.

E qui dobbiamo tornare a quella splendida icona del combattimento di Giacobbe, con cui abbiamo aperto il nostro discorso.

Quel racconto biblico è inquadrato all’interno del ritorno di Giacobbe nella terra dei padri, dopo l’esilio presso lo zio Labano per sfuggire al fratello ingannato, Esaù. Per comprendere pienamente quella benedizione che l’angelo – o l’essere misterioso – dà a Giacobbe, occorre partire da una fraternità ferita, quella tra Giacobbe e suo fratello gemello Esaù. Il Genesi ci racconta una precedente benedizione che Giacobbe strappò dal vecchio Isacco con l’inganno, togliendola illegittimamente a Esaù (cf Gn 27,5). La ferita che Giacobbe riceve dall’angelo è anche un ferita che ristabilisce una fraternità spezzata, che risana una ferita più radicale, quella della fraternità.

Anche la società di mercato contemporanea ha ferito la fraternità, e anche qui con un inganno, quello di prometterci una buona convivenza senza gratuità. Questo inganno deve essere espiato se vogliamo riappropriarci dell’umano, e solo un “corpo a corpo” con l’altro in carne e ossa, e l’accettazione della ferita che questo combattimento può procurarci, può ristabilire oggi un nuovo legame sociale, una nuova fraternità, che ancora non sappiamo intravedere.

Chi può incontrare la ferita dell’altro, sanarla e ricevere la benedizione, per sé e per la società? La storia ci ha mostrato che solo quando sono all’opera i carismi si riesce a vedere la benedizione oltre la ferita. Solo un carisma, che è un dono di occhi diversi capaci di vedere cose che altri non vedono (un esempio evidente di carisma, sebbene di natura in parte diversa dai carismi civili o sociali, è il dono artistico), sa vedere l’abbraccio nascosto nel combattimento.

Occhi che sanno vedere

Un grande ambito dove i carismi da sempre sono all’opera trovando soluzioni nuove è la povertà. Ma qui occorre una premessa di fondamentale importanza. Dobbiamo usare molta attenzione quando parliamo di povertà. C’è, infatti, povertà e povertà. Non tutte le povertà sono disumane: la povertà è una piaga, ma anche una beatitudine se scelta per amore degli altri. Lo spettro semantico della parola povertà va dalla tragedia di chi la povertà la subisce (dagli altri, dagli eventi), alla beatitudine di chi la povertà la sceglie liberamente per amore degli altri, per liberare altri da forme di povertà non liberamente scelte. Che cos’è se non anche questo il senso profondo dell’azione di decine di migliaia di missionari che operano nei paesi più svantaggiati?

Sono queste povertà, quelle di Francesco d’Assisi e di Gandhi, che non possono essere sradicate dalla terra, che non possono diventare solo storia (per citare alcune espressioni dei programmi dell’ONU), perché se per disgrazia accadesse, l’umanità ne uscirebbe terribilmente impoverita. Non c’è felicità senza qualche forma di povertà (da se stessi, dalle merci, dal potere …) liberamente scelta: questa povertà è una di quelle ferite alle quali è legata una benedizione. Per le povertà subite, non scelte, esistono in italiano altre belle parole: indigenza e miseria, che sarebbe bello trovare più spesso nei media.

L’economista iraniano Majid Rahnema, ad esempio, ne individua cinque forme: «Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale».7

Sono personalmente convinto, anche per esperienza diretta, che nessuna forma di povertà può essere risolta senza amarla: solo chi sa vedere in quella forma di povertà (ferita) qualcosa di bello riesce a redimerla (benedizione). Ecco perché senza i carismi non si esce mai del tutto dalle trappole di povertà: le istituzioni non bastano.

Ecco allora che diventa cruciale il ruolo civile ed economico dei carismi: i carismatici, le persone portatrici o che partecipano di un carisma, redimono le povertà perché vedono nel povero, nel malato, nel carcerato, un tesoro: «non chiamateli problemi», ripeteva spesso Madre Teresa, «chiamateli doni». Nel missionario che va verso il povero non c’è solo la forma di amore dell’agape (dono), c’è anche eros, attrazione, perché ha degli occhi per vedere qualcosa di bello che lo affascina (altrimenti si può solo fuggire, alla lunga, dai problemi e dai mali). Un carisma, sia d’ispirazione religiosa che laica, è infatti un dono che dà “occhi diversi” per vedere un tesoro in una cosa che per gli altri è solo un problema.

Cenni storici di economia carismatica

La società antica vedeva nel lavoro manuale qualcosa che si addiceva solo allo schiavo; Benedetto e i padri del movimento monacale vi videro qualcosa «di più e di diverso», e lo posero al centro della nuova vita delle loro comunità: ora et labora. La città di Assisi nei poveri vedeva solo lo scarto della società. Francesco vide in essi «madonna povertà», un qualcosa di così bello che lo portò a sceglierla come ideale della sua vita e di quella dei tanti che lo seguirono e lo seguono.

Fu dai francescani minori che nel XV secolo nacque l’istituzione dei Montes pietatis che rappresenta la prima forma di banca popolare, nata come «cura della povertà». Dove quel pietatis rimandava all’Imago pietatis, il Crocifisso, che i francescani, grazie alla luce del loro carisma, vedevano anche nelle vittime dell’usura nelle città italiane della prima economia di mercato.

Negli indigeni del Paraguay i regnanti portoghesi e spagnoli vedevano una specie non sostanzialmente diversa dagli ani-mali della giungla, a cui si negava persino l’anima. Il carisma di Ignazio di Loyola consentì di vedere in quelle popolazioni qualcosa «di più e di diverso», e di inventare quell’esperienza profetica di civiltà e di inculturazione che furono le reductiones nei secoli XVII e XVIII, forme di economie sociali ante litteram.

Francesco di Sales, Giovanna di Chantal, e poi Don Bosco, Scalabrini, Cottolengo, Don Calabria, Francesca Cabrini, Don Milani, Chiara Lubich, Don Giussani, hanno ricevuto occhi per vedere nei poveri, nei derelitti, nei ragazzi di strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati, qualcosa di grande e di bello per cui vale di spendere la propria vita e quella delle centinaia di migliaia di persone che li seguono, attratti e ispirati da quei carismi.

Senza i carismi dei fondatori di Ordini e Congregazioni sociali tra Settecento e Novecento, ad esempio, la storia del welfare-state europeo sarebbe stata ben diversa: gli ospedali e l’assistenza sanitaria, la scuola e l’istruzione, la «cura del disagio», sono stati senz’altro frutto di politiche pubbliche e di «istituzioni», ma non meno importante e generalizzata è stata l’azione dei carismi. Credo che la diversa storia del welfare state in Europa e in Usa non possa essere spiegata senza tirare in ballo il diverso ruolo che in questi due contesti culturali hanno svolto i carismi, una diversità che affonda le sue radici nell’etica protestante, da una parte, e in quella cattolica dall’altra. Non voglio qui riferirmi direttamente alla nota teoria diWeber sui diversi “spiriti” protestante e cattolico, ma porre l’accento su qualcosa di diverso: i due diversi contesti culturali hanno fatto emergere carismi diversi, che, negli USA, hanno preso essen-zialmente le forme del filantropo, mentre in Europa (quella mediterranea certamente), quella di “comunità carismatiche” (religiose, ma anche civili: si pensi al movimento cooperativo e all’associazionismo).

E potremmo guardare ben oltre i confini del religioso, e trovare oggi miriadi di persone portatrici di carismi, che fondano cooperative sociali, ONG, scuole, ospedali, banche, sindacati, lottano per i diritti negati degli altri/e, degli animali, dei bambini, dell’ambiente, perché vedono «di più e di diverso» da tutti gli altri. In particolare, oggi l’economia sociale e civile è popolata da tanti carismi.

Fioritura di carismi

Nell’età attuale, se è vero che su alcuni fronti mostra una radicale tendenza all’individualismo e all’impoverimento ideale e spirituale, è altrettanto vero che mai come in questi anni si assiste ad una fioritura di carismi, per le mille battaglie di civiltà e di libertà. Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luter King, Doroty Day, ma anche Mohammad Yunus, o per restare in casa nostra, Andrea Riccardi, Don Benzi o Ernesto Olivero. Persone diverse, ma tutte capaci di non fuggire di fronte ai problemi del mondo, ma di restarne attratti, amarlo, e trasfor-mare così la ferita in benedizione, il dolore in amore, la croce in risurrezione.

Inoltre, anche se ho affermato che la forma dell’amore tipica del “carismatico” è l’agape, occorre sempre tener presente che l’amore agapico è fecondo e umanamente maturo quando racchiude in sé anche le forme della philia e dell’eros. Il portatore di carisma non è essenzialmente un altruista né, tantomeno, un filantropo, ma un costruttore di comunità (philia) e un innamorato (eros). Chi, perché animato da un carisma va in cerca dei disederati, dei lebbrosi, dei “soli”, vi va in un atteggiamento simile alla sposa del Cantico, che cerca e brama lo sposo.

Ciò è eminentemente vero per i carismi religiosi, ma lo è non di meno per i carismi non esplicitamente o primariamente religiosi. Solo chi è appassionato e innamorato riesce a trascinare e attrarre altri dietro di sé, e la passione appartiene al repertorio dell’eros.

Sono convinto che quando il Nobel per la pace M. Yunus iniziò negli anni Settanta la sua Grameen Bank lo fece perché era profondamente attratto e “innamorato” delle persone dei villaggi poveri del suo Paese. Senza eros non si ri-solve nessun «problema», perché chi è aiutato deve sentirsi attraente, bello, amabile. Se il “problema” non è amato appassionatamente non può essere redento.

Il Novecento è stato, per tornare all’ambito ecclesiale, un secolo ricchissimo di carismi, una fioritura particolarmente colorata che ha portato e porta tanti frutti. Teresa di Calcutta e Chiara Lubich, anche in quanto donne (c’è un legame tutto speciale tra il carisma e il femminile, tra “profilo carismatico” e “profilo maria-no”, nelle parole di von Balthasar), sono per tanti il volto carismatico del nostro tempo. L’una, Madre Teresa, ha speso la vita per i più poveri dei poveri; Chiara, per un carisma nato dal Grido di Abbandono di Gesù in croce, ha cercato e amato le nuove povertà dell’oggi, che sono anche povertà di rapporti, di Dio, di senso della vita, di felicità, che l’ha portata a cercare le tante disunità dell’oggi, amate come risposta a quel Grido. «Signore, dammi tutti i soli», recita una delle più intense e carismatiche meditazioni di Chiara Lubich (1960).

Un altro ambito dell’umano dove i carismi sono evidenti a tutti è l’arte.

Il carismatico, infatti, somiglia molto all’artista, e l’artista è certamente portatore di un carisma, e non è un caso che, ieri come oggi, attorno ai grandi carismatici fioriscono tanti artisti. Mi raccontava un artista che lavora col legno: «Ogni tanto trovo un pezzo di legno nel bosco, o nella catasta della mia baracca, e vi vedo dentro la scultura». I “non artisti” nei pezzi di legno vedono solo qualcosa da ardere per la stufa; l’artista ha invece occhi diversi, e vi vede un cerbiatto, un’aquila, una rosa, un crocifisso.

I carismatici sono così: in persone e situazioni che tutti gli altri scartano, essi sanno vedere il capolavoro, sanno vedere la rosa con la spina, il risorto assieme al crocifisso. Gli artisti, poi, certamente i grandi, sono loro stessi dei «trasformatori» di bruttezze in bellezze, di «ferite» in «benedizioni»: l’opera d’arte nasce normalmente da un dolore amato e sublimato in se stessi, negli altri, nella natura. Chi non credesse alla presenza dei carismi nell’umanità dovrebbe spiegare la presenza e l’azione degli artisti.

Carismi e innovazione

Non c’è sviluppo pienamente umano e non c’è innovazione sociale senza i carismi. Esiste, nel sociale, un meccanismo molto simile a quello ipotizzato da Schumpeter (1911) per l’innovazione imprenditoriale. Nella sua Teoria dello sviluppo economico, il grande economista austriaco ha proposto una delle teorie più suggestive e rilevanti del Novecento, distinguendo tra imprenditori “innovatori” e imprenditori “imitatori”.

L’innovatore è quella persona che rompe lo stato stazionario (dove non ci sono né profitti né perdite), e grazie ad una nuova idea crea sviluppo, porta avanti l’economia. Poi arrivano, come uno sciame di api attratte dalla nuova opportunità di profitto, altri imprenditori “imitatori” che fanno propria quell’innovazione, che da quel momento in poi diventerà parte integrante dell’intero mercato e della società, riportando così il sistema in equilibrio e allo stato stazionario; finché non arrivano altri innovatori, che spingono avanti i paletti dello sviluppo economico, per un nuovo processo di innovazioneimitazione, che è il vero circolo virtuoso creatore di ricchezza e di sviluppo.

Sono convinto che nel sociale sia all’opera un meccanismo simile, una dinamica tra «carisma» e «istituzione». Il carismatico in-nova, vede bisogni insoddisfatti, individua nuovi poveri, apre nuove strade alla solidarietà, spinge più avanti i “paletti dell’umano” e della civiltà. Poi arriva l’istituzione (lo Stato, ad esempio), che imita l’innovatore, fa sua l’innovazione, e la fa diventare “normale”, la istituzionalizza.

Pensiamo, come esempio sempre in ambito economico, al tema del bilancio sociale. Negli anni Settanta sono stati degli innovatori sociali - dei carismatici potremmo dire - che hanno liberamente iniziato a scrivere una rendicontazione non solo economica e finanziaria, ma anche ambientale e sociale. Oggi, a di-stanza di oltre trent’anni, in certi settori redigere un bilancio sociale sta diventando un obbligo di legge: lo Stato imita, arriva e istituzionalizza.

Altro esempio in tema di consumo etico: i primi ad innovare e a proporre più alti standard etici nella produzione sono stati dei carismatici (i fondatori del commercio equo e solidale, ad esempio). Oggi anche imprese più tradizionali e grandi istituzioni economiche (multinazionali) li stan-no imitando, alzando i loro standard, e gli Stati e le istituzioni internazionali stanno via via rendendo obbligatorie certe innovazioni sociali ed umane (lavoro minorile, ad esempio).

Processo analogo lo troviamo nel campo dei diritti umani, dell’ambiente: persone portatrici di carismi che innovano, spingono avanti la frontiera dell’umano, e le istituzioni che seguono. Gli innovatori, quindi, sono presto raggiunti dall’istituzione (e per fortuna!), e se non sono capaci di nuove innovazioni, presto saran-no indistinguibili dagli imitatori. Ciò non vuol dire che non ci siano dei carismi anche nelle istituzioni: la dinamica carisma-istituzione si svolge anche all’interno delle istituzioni stesse. Inoltre, realtà carismatiche nel tempo si istituzionalizzano e hanno bisogno di riformatori, di “profeti”, che tengano viva la dimensione carismatica.

Il vero innovatore non ha mai timore dell’imitatore: quando l’innovazione entra in crisi, si guarda l’imitatore come un rivale in un gioco a somma zero, e tutta l’attenzione ricade sugli aspetti redistributivi dello scam-bio, si prende la torta come un dato, e cerchiamo solo di prenderci la fetta più grossa.8

Conclusione

Nel mondo pre-moderno i carismi hanno visto e curato soprattutto le ferite fisiche, dando vita a strutture di benedizione, come sono stati per secoli ospedali, scuole, orfanotrofi, ecc., ferite amate dai tanti carismi di fondatori di ordini religiosi e non solo (si pensi ai conservatori) che hanno reso l’umano sempre più umano e l’esistenza terrena sopportabile per molti. Poi le istituzioni li hanno imitati, grazie a Dio.

Nella modernità, lo abbiamo visto, la ferita dell’altro è soprattutto una ferita della relazione, un’incapacità d’incontrarsi e di benedirsi nella reciprocità; nella post-modernità questa ferita mostra sempre più la sua dram-maticità.

Oggi l’umanità ha bisogno di carismi, di occhi diversi, che ci aiutino a vedere benedizioni nelle ferite, nelle piaghe spirituali e relazionali, che ci aiutino a vedere l’abbraccio che si nasconde nel combattimento con l’altro.

Credo siano questi «occhi diversi» il grande contributo che i carismi e la vita religiosa possono dare e danno al bene comune oggi.

Luigino Bruni
Docente di Economia politica all’Università di Milano-Bicocca
Via di Frascati, 306 – 00178 Roma

NOTE

1. Cf L. BRUNI, L’economia, la felicità, gli altri, Città Nuova, Roma 2004; T. SCITOVSKY, L’economia senza gioia, Città Nuova, Roma 2007.

2. T. TODOROV, La vita in comune, Pratiche Editrice, Milano 1998, 15. 90

3. Diogene, ad esempio, viveva in una botte, cercando di eliminare bisogni e desideri in modo da non dipendere da nessuna cosa per la felicità.

4. M. NUSSBAUM, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 1996 [1986], 624.

5. R. ESPOSITO, Communitas, Einaudi, Torino 1998, xxv.

6. Sul significato del “terzo” nella relazionalità umana, è ottimo il lavoro filosofico di L. ALICI, Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2004.

7. M. RANHEMA, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Milamo 2005, X.

8. Sulle “tentazioni” del Ces ed esperienze simili, cf L. BRUNI, Reciprocità, Mondadori, Milano 2006, capitolo 9.

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