Alle religiose che
con i loro carismi
trasformano le ferite degli altri in benedizioni per tutti.
Immaginate...
una città senza condomini rumorosi e litigiosi, dove ogni famiglia ha la
sua propria villetta isolata acusticamente e visivamente dalle altre
case in modo che nessun vicino possa dar fastidio all’altro, dove i
pochi grattacieli rimasti (per uffici) sono fatti in modo da evitare
ogni incontro lungo le scale o nei pianerottoli, dove il traffico urbano
è perfettamente regolato in modo da evitare litigi per la precedenza,
dove, negli uffici, si comunica solo via mail o skipe per le decisioni
più delicate, dove tutti gli spazi una volta comuni sono stati
lottizzati e privatizzati, dalla zettino di città...
Una città ideale: conflitti ridotti
quasi a zero perché è venuta meno la pre-condizione stessa del
conflitto. Vi piacerebbe vivere in una tale città? Vi auguro di sì,
poiché lo scenario che ho stilizzato è molto vicino alle città che oggi
stiamo immaginando e progettando nelle nostre società di mercato.
Mercato, sì, perché il mercato con la sua logica è proprio quello che
più sta determinando questo scenario.
Questa relazione vorrebbe offrire
qualche spiegazione del
perché si sta determinando
un simile scenario, e magari offrire qualche spunto per evitare (per
chi, come me, lo vuole) che questo quadro triste diventi realtà.
C’è un’immagine e un’intuizione
all’origine di questo testo: il combattimento di Giacobbe con l’angelo
(l’immagine), e l’indissolubile legame presente in ogni rapporto umano
tra ferita e benedizione (l’intuizione).
Ogni relazione profonda con l’altro è
insieme ferita e benedizione. L’altra faccia della felicità che mi porta
la relazione interumana è occupata dalla sofferenza. Le esperienze
umane fioriscono quando si riesce a convivere con questa tensione
drammatica, diventano invece luoghi alla lunga invivibili quando si
vuole prendere la benedizione senza la ferita.
La scienza economica, con la sua
promessa di una «vita in comune senza sacrificio», rappresenta nella
modernità una grande via di fuga dalla «ferita dell’altro», e proprio
per questo l’umanesimo dell’economia di mercato è tra i grandi
responsabili (sebbene non l’unico) della deriva triste e solitaria del
nostro tempo. Una condizione umana senza gioia anche per aver creduto
alla grande illusione che il mercato, o l’impresa burocratica e
gerarchica, ci potesse regalare una buona convivenza senza dolore, ci
facesse incontrare un altro
innocuo e disarmato, che
scambiasse, invece di combattere, con noi. Il trucco, però, è che questo
innocuo incontro con l’altro senza ferita è anche un incontro senza
gioia, che non porta ad una vita pienamente umana, per la persona e per
la società. Questa grande illusione della modernità oggi la stiamo
pagando con la moneta della felicità.1
Al tempo stesso, la strada di una
ritirata dai mercati non è percorribile - come non lo è quella dallo
Stato - se è vero che la storia umana ci mostra che dove non arriva il
mercato non è normalmente l’amore scambievole a prendere il suo posto;
soprattutto nelle grandi comunità, il vuoto del contratto è spesso
riempito da varie forme di“feudalesimo”, dove il più forte sfrutta il
più debole. Un mondo senza mercati non è una società decente; una
società con soli mercati lo è ancor meno. Il mercato, questa terra di
mezzo dove possiamo incontrarci senza sacrificio in modo civile e
pacifico, è una conquista della civiltà e uno strumento di civiltà che,
qualche volta, può anche allearsi con la gratuità, e diventare mezzo per
una convivenza umana più libera e addirittura fraterna. Comunità e
mercati possono essere coniugati in modo fecondo, e molte esperienze di
economia sociale e civile - Economia di Comunione --sono importanti
fatti (non teorie) che ci dicono che l’alchimia del contratto in dono
può realizzarsi. Vediamo però a quali condizioni.
L’ambivalenza della
vita in comune
«Studiando le grandi correnti del
pensiero filosofico europeo riguardo la definizione di ciò che è umano,
si giunge ad una conclusione inaspettata: la dimensione sociale,
l’elemento della vita in comune, non è generalmente considerato
necessario per l’uomo. Tuttavia questa tesi non si presenta come tale, è
piuttosto un presupposto che non viene formulato»2.
In queste pagine cercheremo di
comprendere alcune delle ragioni che hanno portato con la modernità
all’affermazione di questa visione individualista e a-sociale
dell’essere umano. Vedremo che la nascita della scienza economica
moderna rappresenta una tappa importante nell’umanesimo individualistico
della modernità.
Nella società tradizionale medievale,
fortemente modellata attorno ad una certa comprensione del
cristianesimo, la possibilità della vita in comune era profondamente
legata all’idea del sacrificio e della sofferenza.
La radice di questa visione la
troviamo nel pensiero greco, soprattutto nell’etica di Aristotele.
Questo grande pensatore aveva colto un paradosso che si pone al cuore
dell’intero Occidente: la vita buona, la vita felice, è
al tempo stesso civile e vulnerabile.
Siccome, come ci ricorda nella sua
Etica Nicomachea:
«l’uomo felice ha bisogno di amici» (cap. IX), e per questa ragione «non
si può essere felici da soli», non è allora possibile raggiungere la
felicità nella solitudine e nella fuga dalla vita civile e dal rapporto
con l’altro. Però, se la felicità richiede rapporti sociali, richiede
cioè amicizia e reciprocità, e se l’amicizia e la reciprocità sono
sempre faccende di libertà non controllabili pienamente da noi, allora
la nostra felicità dipende da
quanto
e
se
gli altri rispondono e ricambiano il
nostro amore, la nostra amicizia e reciprocità.
Se per essere felice ho bisogno di
amici e di reciprocità, allora la vita felice ha una natura ambivalente:
l’altro è per me gioia e dolore, l’unica possibilità per una vera
felicità, ma è anche colui o colei da cui dipende la mia infelicità. La
“vita buona”, la benedizione, dipende allora dagli altri che mi possono
ferire. D’altra parte, se per evitare questa vulnerabilità mi rifugio
nella solitudine e nella contemplazione, al riparo dagli altri (la
grande alternativa neo-platonica o cinica) 3, la vita non
fiorisce in pienezza. Ecco allora la tradizione di pensiero
aristotelica, più che Aristotele stesso, ha associato la vita felice
alla tragedia. Così si esprime al riguardo la filosofa contemporanea
Martha Nussbaum: «queste componenti della vita buona sono destinate a
non essere per nulla autosufficienti. Esse saranno invece vulnerabili in
maniera particolarmente profonda e pericolosa».4
In questo senso, la vita in comune,
la communitas,
porta iscritta nelle sue carni il segno della sofferenza. Il mondo
giudaico ci ricorda, con alcuni grandi simboli e miti contenuti
soprattutto nella Genesi, che l’altro è al tempo stesso
benedizione
(perché senza di lui non posso essere
felice) ma anche colui che mi
ferisce,
come nel racconto del combattimento Giacobbe con l’angelo che è
l’ispirazione alla base di questo scritto.
Dall’individualità
alla
communitas
Il pensiero pre-moderno e antico
aveva intuito questa natura
ambivalente
della “vita buona”: non si può essere
felici senza communitas;
ma proprio per il bisogno
essenziale del rapporto con l’altro e della sua presenza, la vita buona
della comunità si intreccia, in vari modi, con la morte – si pensi, ad
esempio, che la prima città (Enoch) nella Bibbia viene fondata dal
fratricida Caino, e che anche la fondazione di Roma è associata (in
diversi miti) all’assassinio di Remo da parte di Romolo. Sui rapporti
umani si ritrova l’effigie del sacrificio e della sofferenza, e se non
si accettano questo rischio e questa sofferenza, la vita non è
pienamente umana.
Ecco perché l’idea di bene comune
nell’Occidente pre-moderno, non era associata ad una somma di interessi
privati; era piuttosto una sottrazione: solo rinunciando e rischiando
qualcosa del “proprio” (del bene privato) si può costruire il“nostro”
(il bene comune), che quindi è comune perché non appartiene a nessuno.
Va però subito notato che la visione
pre-moderna del mondo,
christianitas inclusa,
rimane sostanzialmente olistica: si vede la comunità, non si vede
l’individuo. L’Assoluto assorbe tutto, e l’individualità non emerge.
In particolare l’uomo antico non
vede il rapporto io-tu, l’intersoggettività orizzontale, tra uguali.
L’ambivalenza della vita in comune, vissuta, sperimentata, intuita nella
carne non era diventata nel mondo antico, né nell’Occidente pre-moderno,
una cultura.
Nel mondo antico il rapporto
interumano era comunque sempre mediato dall’Assoluto. La comunità è un
unico corpo, un organismo, al cui bene tutte le componenti sono
pre-ordinate. A tale proposito è interessante notare, nel racconto del
combattimento di Giacobbe della Genesi, che l’autore sacro vede Dio
stesso, o un angelo, in quell’“essere misterioso” che combatte, non
l’altro uomo
(sebbene nel testo si parli di “un
uomo”). Quella cultura non può vedere un altro uomo in quell’essere
misterioso, perché l’altro con cui combattere e ferirsi è Dio (o,
meglio, i suoi angeli, perché con Dio l’uomo non combatte, essendo
totalmente altro). Nel combattimento con Dio, però, l’uomo antico vede
subito la benedizione dietro quella ferita, la terra dei padri che
attende Giacobbe, e l’accetta – un’operazione simile non sarà invece
quella dell’uomo moderno che nell’altro uomo non vedrà la possibilità di
benedizione, ma solo la ferita.
In questo rapporto con Dio,
l’Assoluto, il dolore, il limite, il
peccato sono orientati al trascendente: tutto acquista senso in questa
prospettiva verticale, una prospettiva che tradotta nella vita civile
diventa sistema feudale e gerarchico, che rispecchia un ordine divino
benevolo (o così inteso) impresso dal Bene nelle dinamiche umane.
Io non debbo entrare in rapporto
profondo con te per essere felice. La struttura relazionale fondamentale
della pre-modernità è dunque triadica e ineguale (ma non trinitaria,
dove, per definizione, i Tre sono uguali).
Tutto il Medioevo è stato, quindi,
una lenta emersione della categoria dell’individualità: un processo che
si è svolto in modo armonioso fino all’umanesimo civile toscano nella
prima parte del Quattrocento, ma che poi è esploso in un processo veloce
e irreversibile con il Rinascimento, la Riforma, il Seicento e
l’Illuminismo. In questo processo culturale va collocata la nascita
dell’economia politica moderna.
La scoperta del «tu»:
l’angelo diventa l’altro
La modernità ha tra le sue
caratteristiche fondamentali proprio la scoperta dell’altro come un tu,
come una soggettività che mi si pone di fronte come diverso da me, ma su
un piano di uguaglianza. L’angelo (quell’essere misterioso che combatté
con Giacobbe) diventa l’altro.
Una volta che l’Assoluto è uscito dal
proprio orizzonte, una volta tramontato il Sole, nel crepuscolo degli
dei l’uomo moderno ha abbassato lo sguardo, si è guardato attorno e si è
accorto dell’esistenza dell’altro, di un
altro-che-nonlui,
e che dunque rappresenta un “non”.
Eccoci così arrivati al momento
cruciale del nostro discorso: la scoperta dell’altro fatta dalla
modernità è stata la scoperta del negativo e della “ferita” che
l’alterità porta necessariamente con sé. L’uomo moderno ha visto
soprattutto la ferita, non la benedizione dell’altro. La realtà dell’io
e dell’altro-che-non-sono-io, non è stata associata al positivo e alla
felicità che l’altro può darmi, ma al negativo, al non-essere, al “non”.
L’entusiasmo per la scoperta della mia esistenza come soggetto (e in
effetti di entusiasmo si è trattato) è stata accompagnata nella
modernità anche dalla paura dell’esistenza dell’altro. Nello stesso
istante in cui l’uomo moderno dice “io”, pronuncia il “tu” con paura, e
quindi fa di tutto per non pronunciarlo, per non riconoscerlo come
uguale e diverso da sé, tantomeno come fonte indispensabile di felicità.
La scoperta dell’altro non diventa una via di mutuo riconoscimento, ma
apre una stagione – ancora in pieno sviluppo – di ricerca di vie di fuga
per non incrociare gli occhi dell’altro.
Hobbes e Smith rappresentano due
grandi momenti in questo processo epocale nelle scienze sociali. In
sintesi, Hobbes con il Leviatano e Smith con la“mano invisibile” del
mercato, hanno cercato un sostituto all’assoluto come mediatore del
rapporto io-tu. Davanti al“non” che la scoperta dell’altro portava con
sé, il pensiero sociale moderno non ha voluto affrontare e attraversare
quel negativo e quella ferita, ma ha riportato, di fatto, la struttura
relazionale alla situazione della pre-modernità: io-mediatore-tu, dove
il mediatore da Dio diventa il Leviatano o il mercato, che svolgono,
occorre notarlo, la stessa funzione di impedire l’attraversamento di
quel “buio” che è l’altro con un volto.
«Dimmi il tuo nome»
Ma solo quando l’altro mi chiede il
nome, entra cioè in un rapporto personale con me, mi benedice: «“Dimmi
il tuo nome”. E qui lo benedisse» (Gn 32,31). Nella politica di Hobbes e
nell’economia di Smith non c’è dunque una intersoggettività diretta, ma
una relazionalità mediata e anonima, per paura del negativo e della
sofferenza (la “ferita”) che quel “tu” personale incorpora. Il contratto
- privato, in Smith, sociale in Hobbes - diventa così lo strumento
principale di questa operazione, dove il «contratto è innanzitutto ciò
che non
è dono, assenza di
munus».5
Le scienze sociali moderne nascono
dall’invenzione di una
nuova terzietà: non più il
Terzo (Dio), neanche un terzo che apre e universalizza il rapporto
io-tu, il terzo che è un “egli” o “lui”, ma un terzo che è immune dal
nostro rapporto, e che ci immunizza reciprocamente, e che garantisce (o
ci promette) una terra franca nella quale incontrarsi senza ferirsi.6 La
modernità al “tu” ha preferito
questo
“egli”. È questa l’invenzione di una
nuova forma di rapporto interumano, il contratto all’interno del
mercato, che si presenta come una promessa di relazioni mediate senza
sofferenza.
Il contratto diventa così una nuova
forma di reciprocità radicalmente alternativa a quella fondata sul
libero dono reciproco: il dono ci accomuna poiché ci mette nella
condizione di insistere su una terra comune, che, per definizione, non è
propria
a nessuno di noi, laddove il
contratto ci rende reciprocamente immuni perché ciò che è mio
non è
tuo, e viceversa. La terra comune,
soprattutto quando è terra di rapporti tra eguali, è anche terra di
conflitto e di morte, un conflitto e un dolore che la modernità non ha
voluto accettare rinunciando - e qui sta il punto - anche ai frutti di
vita di quella terra comune. La modernità ha voluto spezzare
l’ineluttabilità di questo connubio, senza riuscirvi, se non pagando un
costo che si sta rivelando troppo alto.
La nascita dell’economia nel
Settecento, l’opera di Smith in particolare, è un momento fondamentale
nel progetto “immunitario” della modernità. Nell’economia moderna il
bene comune è raggiunto senza alcuna forma di sacrificio legata al
rap-porto personale e tragico con l’altro: è semplicemente una somma di
interessi privati (A+B), che grazie al mercato puo’ diventare (A+Æa)+(B+Æb).
La nuova communitas
economica non richiede nessuna
ferita e nessun rischio: ognuno cerca il proprio interesse personale e,
senza incontro personale, il mercato (la “mano invisibile”), produce
indirettamente anche il bene comune. Una “cooperation without
benevolence”, come dirà Hume, uno dei maestri di Smith.
Se il mercato fosse un ambito
limitato e ben distinto della vita -- come lo sport o l’opera classica
-- potremmo senza troppe preoccupazioni, e magari con un certo
entusiasmo, accettare l’esistenza di questa zona franca dove incontrarci
senza ferita e senza sofferenza. Ma se il mercato diventa la forma
principale per organizzare la vita in comune, se entra in tutta la vita
civile, allora una relazione civile affidata al solo contratto di
mercato è insufficiente e pericolosa, né lo Stato Leviatano, che
incorpora la stessa logica mediata e impersonale, può sanare tale
“fallimento” della relazione interumana.
L’abbraccio
dell’altro
Il «paradosso della felicità» ci dice
sostanzialmente a quale caro prezzo stiamo pagando oggi l’assenza di
benedizione che l’economia dell’immunitas
ha prodotto. Le merci
simulano sempre più rapporti senza ferita, ma anche senza benedizione.
Da qui l’infelicità crescente delle moderne economie e società di
mercato.
E qui dobbiamo tornare a quella
splendida icona del combattimento di Giacobbe, con cui abbiamo aperto il
nostro discorso.
Quel racconto biblico è inquadrato
all’interno del ritorno di Giacobbe nella terra dei padri, dopo l’esilio
presso lo zio Labano per sfuggire al fratello ingannato, Esaù. Per
comprendere pienamente quella benedizione che l’angelo – o l’essere
misterioso – dà a Giacobbe, occorre partire da una fraternità ferita,
quella tra Giacobbe e suo fratello gemello Esaù. Il Genesi ci racconta
una precedente benedizione che Giacobbe strappò dal vecchio Isacco con
l’inganno, togliendola illegittimamente a Esaù (cf Gn 27,5). La ferita
che Giacobbe riceve dall’angelo è anche un ferita che ristabilisce una
fraternità spezzata, che risana una ferita più radicale, quella della
fraternità.
Anche la società di mercato
contemporanea ha ferito la fraternità, e anche qui con un inganno,
quello di prometterci una buona convivenza senza gratuità. Questo
inganno deve essere espiato se vogliamo riappropriarci dell’umano, e
solo un “corpo a corpo” con l’altro in carne e ossa, e l’accettazione
della ferita che questo combattimento può procurarci, può ristabilire
oggi un nuovo legame sociale, una nuova fraternità, che ancora non
sappiamo intravedere.
Chi può incontrare la ferita
dell’altro, sanarla e ricevere la benedizione, per sé e per la società?
La storia ci ha mostrato che solo quando sono all’opera i carismi si
riesce a vedere la benedizione oltre la ferita. Solo un carisma, che è
un dono di occhi diversi capaci di vedere cose che altri non vedono (un
esempio evidente di carisma, sebbene di natura in parte diversa dai
carismi civili o sociali, è il dono artistico), sa vedere l’abbraccio
nascosto nel combattimento.
Occhi che sanno
vedere
Un grande ambito dove i carismi da
sempre sono all’opera trovando soluzioni nuove è la povertà. Ma qui
occorre una premessa di fondamentale importanza. Dobbiamo usare molta
attenzione quando parliamo di povertà. C’è, infatti, povertà e povertà.
Non tutte le povertà sono disumane: la povertà è una piaga, ma anche una
beatitudine se scelta per amore degli altri. Lo spettro semantico della
parola povertà va dalla tragedia di chi la povertà la subisce (dagli
altri, dagli eventi), alla beatitudine di chi la povertà la sceglie
liberamente per amore degli altri, per liberare altri da forme di
povertà non liberamente scelte. Che cos’è se non anche questo il senso
profondo dell’azione di decine di migliaia di missionari che operano nei
paesi più svantaggiati?
Sono queste povertà, quelle di
Francesco d’Assisi e di Gandhi, che non possono essere sradicate dalla
terra, che non possono diventare solo storia (per citare alcune
espressioni dei programmi dell’ONU), perché se per disgrazia accadesse,
l’umanità ne uscirebbe terribilmente impoverita. Non c’è felicità senza
qualche forma di povertà (da se stessi, dalle merci, dal potere …)
liberamente scelta: questa povertà è una di quelle ferite alle quali è
legata una benedizione. Per le povertà subite, non scelte, esistono in
italiano altre belle parole: indigenza e miseria, che sarebbe bello
trovare più spesso nei media.
L’economista iraniano Majid Rahnema,
ad esempio, ne individua cinque forme: «Quella scelta da mia madre e da
mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano;
quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici
anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in
via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la
corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili
privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di
miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale
delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono
imbattuto nel corso della mia carriera professionale».7
Sono personalmente convinto, anche
per esperienza diretta, che nessuna forma di povertà può essere risolta
senza amarla: solo chi sa vedere in quella forma di povertà (ferita)
qualcosa di bello riesce a redimerla (benedizione). Ecco perché senza i
carismi non si esce mai del tutto dalle trappole di povertà: le
istituzioni non bastano.
Ecco allora che diventa cruciale il
ruolo civile ed economico dei carismi: i carismatici, le persone
portatrici o che partecipano di un carisma, redimono le povertà perché
vedono nel povero, nel malato, nel carcerato, un tesoro: «non chiamateli
problemi», ripeteva spesso Madre Teresa, «chiamateli doni». Nel
missionario che va verso il povero non c’è solo la forma di amore
dell’agape (dono), c’è anche
eros,
attrazione, perché ha degli occhi per vedere qualcosa di bello che lo
affascina (altrimenti si può solo fuggire, alla lunga, dai problemi e
dai mali). Un carisma, sia d’ispirazione religiosa che laica, è infatti
un dono che dà “occhi diversi” per vedere un tesoro in una cosa che per
gli altri è solo un problema.
Cenni storici di
economia carismatica
La società antica vedeva nel lavoro
manuale qualcosa che si addiceva solo allo schiavo; Benedetto e i padri
del movimento monacale vi videro qualcosa «di più e di diverso», e lo
posero al centro della nuova vita delle loro comunità:
ora et labora.
La città di Assisi nei poveri vedeva solo lo scarto della società.
Francesco vide in essi «madonna povertà», un qualcosa di così bello che
lo portò a sceglierla come ideale della sua vita e di quella dei tanti
che lo seguirono e lo seguono.
Fu dai francescani minori che nel XV
secolo nacque l’istituzione dei
Montes pietatis
che rappresenta la prima forma di
banca popolare, nata come «cura della povertà». Dove quel
pietatis
rimandava all’Imago
pietatis, il Crocifisso,
che i francescani, grazie alla luce del loro carisma, vedevano anche
nelle vittime dell’usura nelle città italiane della prima economia di
mercato.
Negli indigeni del Paraguay i
regnanti portoghesi e spagnoli vedevano una specie non sostanzialmente
diversa dagli ani-mali della giungla, a cui si negava persino l’anima.
Il carisma di Ignazio di Loyola consentì di vedere in quelle popolazioni
qualcosa «di più e di diverso», e di inventare quell’esperienza
profetica di civiltà e di inculturazione che furono le
reductiones
nei secoli XVII e XVIII, forme di
economie sociali ante
litteram.
Francesco di Sales, Giovanna di
Chantal, e poi Don Bosco, Scalabrini, Cottolengo, Don Calabria,
Francesca Cabrini, Don Milani, Chiara Lubich, Don Giussani, hanno
ricevuto occhi per vedere nei poveri, nei derelitti, nei ragazzi di
strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati, qualcosa di
grande e di bello per cui vale di spendere la propria vita e quella
delle centinaia di migliaia di persone che li seguono, attratti e
ispirati da quei carismi.
Senza i carismi dei fondatori di
Ordini e Congregazioni sociali tra Settecento e Novecento, ad esempio,
la storia del welfare-state
europeo sarebbe stata ben
diversa: gli ospedali e l’assistenza sanitaria, la scuola e
l’istruzione, la «cura del disagio», sono stati senz’altro frutto di
politiche pubbliche e di «istituzioni», ma non meno importante e
generalizzata è stata l’azione dei carismi. Credo che la diversa storia
del welfare state
in Europa e in Usa non possa
essere spiegata senza tirare in ballo il diverso ruolo che in questi due
contesti culturali hanno svolto i carismi, una diversità che affonda le
sue radici nell’etica protestante, da una parte, e in quella cattolica
dall’altra. Non voglio qui riferirmi direttamente alla nota teoria
diWeber sui diversi “spiriti” protestante e cattolico, ma porre
l’accento su qualcosa di diverso: i due diversi contesti culturali hanno
fatto emergere carismi diversi, che, negli USA, hanno preso
essen-zialmente le forme del filantropo, mentre in Europa (quella
mediterranea certamente), quella di “comunità carismatiche” (religiose,
ma anche civili: si pensi al movimento cooperativo e
all’associazionismo).
E potremmo guardare ben oltre i
confini del religioso, e trovare oggi miriadi di persone portatrici di
carismi, che fondano cooperative sociali, ONG, scuole, ospedali, banche,
sindacati, lottano per i diritti negati degli altri/e, degli animali,
dei bambini, dell’ambiente, perché vedono «di più e di diverso» da tutti
gli altri. In particolare, oggi l’economia sociale e civile è popolata
da tanti carismi.
Fioritura di carismi
Nell’età attuale, se è vero che su
alcuni fronti mostra una radicale tendenza all’individualismo e
all’impoverimento ideale e spirituale, è altrettanto vero che mai come
in questi anni si assiste ad una fioritura di carismi, per le mille
battaglie di civiltà e di libertà. Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luter
King, Doroty Day, ma anche Mohammad Yunus, o per restare in casa nostra,
Andrea Riccardi, Don Benzi o Ernesto Olivero. Persone diverse, ma tutte
capaci di non fuggire di fronte ai problemi del mondo, ma di restarne
attratti, amarlo, e trasfor-mare così la ferita in benedizione, il
dolore in amore, la croce in risurrezione.
Inoltre, anche se ho affermato che la
forma dell’amore tipica del “carismatico” è l’agape,
occorre sempre tener
presente che l’amore
agapico è fecondo e
umanamente maturo quando racchiude in sé anche le forme della
philia
e dell’eros.
Il portatore di carisma
non è essenzialmente un altruista né, tantomeno, un filantropo, ma un
costruttore di comunità (philia)
e un innamorato (eros).
Chi, perché animato da un carisma va in cerca dei disederati, dei
lebbrosi, dei “soli”, vi va in un atteggiamento simile alla sposa del
Cantico,
che cerca e brama lo sposo.
Ciò è eminentemente vero per i
carismi religiosi, ma lo è non di meno per i carismi non esplicitamente
o primariamente religiosi. Solo chi è appassionato e innamorato riesce a
trascinare e attrarre altri dietro di sé, e la passione appartiene al
repertorio dell’eros.
Sono convinto che quando il Nobel per
la pace M. Yunus iniziò negli anni Settanta la sua Grameen Bank lo fece
perché era profondamente attratto e “innamorato” delle persone dei
villaggi poveri del suo Paese. Senza
eros
non si ri-solve nessun «problema»,
perché chi è aiutato deve sentirsi attraente, bello, amabile. Se il
“problema” non è amato appassionatamente non può essere redento.
Il Novecento è stato, per tornare
all’ambito ecclesiale, un secolo ricchissimo di carismi, una fioritura
particolarmente colorata che ha portato e porta tanti frutti. Teresa di
Calcutta e Chiara Lubich, anche in quanto donne (c’è un legame tutto
speciale tra il carisma e il femminile, tra “profilo carismatico” e
“profilo maria-no”, nelle parole di von Balthasar), sono per tanti il
volto carismatico del nostro tempo. L’una, Madre Teresa, ha speso la
vita per i più poveri dei poveri; Chiara, per un carisma nato dal
Grido di Abbandono
di Gesù in croce, ha cercato e amato
le nuove povertà dell’oggi, che sono anche povertà di rapporti, di Dio,
di senso della vita, di felicità, che l’ha portata a cercare le tante
disunità dell’oggi, amate come risposta a quel
Grido.
«Signore, dammi tutti i soli», recita una delle più intense e
carismatiche meditazioni di Chiara Lubich (1960).
Un altro ambito dell’umano dove i
carismi sono evidenti a tutti è l’arte.
Il carismatico, infatti, somiglia
molto all’artista, e l’artista è certamente portatore di un carisma, e
non è un caso che, ieri come oggi, attorno ai grandi carismatici
fioriscono tanti artisti. Mi raccontava un artista che lavora col legno:
«Ogni tanto trovo un pezzo di legno nel bosco, o nella catasta della mia
baracca, e vi vedo dentro la scultura». I “non artisti” nei pezzi di
legno vedono solo qualcosa da ardere per la stufa; l’artista ha invece
occhi diversi, e vi vede un cerbiatto, un’aquila, una rosa, un
crocifisso.
I carismatici sono così: in persone e
situazioni che tutti gli altri scartano, essi sanno vedere il
capolavoro, sanno vedere la rosa con la spina, il risorto assieme al
crocifisso. Gli artisti, poi, certamente i grandi, sono loro stessi dei
«trasformatori» di bruttezze in bellezze, di «ferite» in «benedizioni»:
l’opera d’arte nasce normalmente da un dolore amato e sublimato in se
stessi, negli altri, nella natura. Chi non credesse alla presenza dei
carismi nell’umanità dovrebbe spiegare la presenza e l’azione degli
artisti.
Carismi e innovazione
Non c’è sviluppo pienamente umano e
non c’è innovazione sociale
senza i carismi. Esiste,
nel sociale, un meccanismo molto simile a quello ipotizzato da
Schumpeter (1911) per l’innovazione imprenditoriale. Nella sua
Teoria dello sviluppo economico,
il grande economista austriaco ha proposto una delle teorie più
suggestive e rilevanti del Novecento, distinguendo tra imprenditori
“innovatori” e imprenditori “imitatori”.
L’innovatore è quella persona che
rompe lo stato stazionario (dove non ci sono né profitti né perdite), e
grazie ad una nuova idea crea sviluppo, porta avanti l’economia. Poi
arrivano, come uno sciame di api attratte dalla nuova opportunità di
profitto, altri imprenditori “imitatori” che fanno propria
quell’innovazione, che da quel momento in poi diventerà parte integrante
dell’intero mercato e della società, riportando così il sistema in
equilibrio e allo stato stazionario; finché non arrivano altri
innovatori, che spingono avanti i paletti dello sviluppo economico, per
un nuovo processo di innovazioneimitazione, che è il vero circolo
virtuoso creatore di ricchezza e di sviluppo.
Sono convinto che nel sociale sia
all’opera un meccanismo simile, una dinamica tra «carisma» e
«istituzione». Il carismatico in-nova, vede bisogni insoddisfatti,
individua nuovi poveri, apre nuove strade alla solidarietà, spinge più
avanti i “paletti dell’umano” e della civiltà. Poi arriva l’istituzione
(lo Stato, ad esempio), che imita l’innovatore, fa sua l’innovazione, e
la fa diventare “normale”, la istituzionalizza.
Pensiamo, come esempio sempre in
ambito economico, al tema del bilancio sociale. Negli anni Settanta sono
stati degli innovatori sociali - dei carismatici potremmo dire - che
hanno liberamente iniziato a scrivere una rendicontazione non solo
economica e finanziaria, ma anche ambientale e sociale. Oggi, a
di-stanza di oltre trent’anni, in certi settori redigere un bilancio
sociale sta diventando un obbligo di legge: lo Stato imita, arriva e
istituzionalizza.
Altro esempio in tema di consumo
etico: i primi ad innovare e a proporre più alti
standard
etici nella produzione sono stati dei
carismatici (i fondatori del commercio equo e solidale, ad esempio).
Oggi anche imprese più tradizionali e grandi istituzioni economiche
(multinazionali) li stan-no imitando, alzando i loro
standard,
e gli Stati e le istituzioni internazionali stanno via via rendendo
obbligatorie certe innovazioni sociali ed umane (lavoro minorile, ad
esempio).
Processo analogo lo troviamo nel
campo dei diritti umani, dell’ambiente: persone portatrici di carismi
che innovano, spingono avanti la frontiera dell’umano, e le istituzioni
che seguono. Gli innovatori, quindi, sono presto raggiunti
dall’istituzione (e per fortuna!), e se non sono capaci di nuove
innovazioni, presto saran-no indistinguibili dagli imitatori. Ciò non
vuol dire che non ci siano dei carismi anche nelle istituzioni: la
dinamica carisma-istituzione si svolge anche all’interno delle
istituzioni stesse. Inoltre, realtà carismatiche nel tempo si
istituzionalizzano e hanno bisogno di riformatori, di “profeti”, che
tengano viva la dimensione carismatica.
Il vero innovatore non ha mai timore
dell’imitatore: quando l’innovazione entra in crisi, si guarda
l’imitatore come un rivale in un gioco a somma zero, e tutta
l’attenzione ricade sugli aspetti redistributivi dello scam-bio, si
prende la torta come un dato, e cerchiamo solo di prenderci la fetta più
grossa.8
Conclusione
Nel mondo pre-moderno i carismi hanno
visto e curato soprattutto le ferite fisiche, dando vita a strutture di
benedizione, come sono stati per secoli ospedali, scuole, orfanotrofi,
ecc., ferite amate dai tanti carismi di fondatori di ordini religiosi e
non solo (si pensi ai conservatori) che hanno reso l’umano sempre più
umano e l’esistenza terrena sopportabile per molti. Poi le istituzioni
li hanno imitati, grazie a Dio.
Nella modernità, lo abbiamo visto, la
ferita dell’altro è soprattutto una ferita della relazione,
un’incapacità d’incontrarsi e di benedirsi nella reciprocità; nella
post-modernità questa ferita mostra sempre più la sua dram-maticità.
Oggi l’umanità ha bisogno di carismi,
di occhi diversi, che ci aiutino a vedere benedizioni nelle ferite,
nelle piaghe spirituali e relazionali, che ci aiutino a vedere
l’abbraccio che si nasconde nel combattimento con l’altro.
Credo siano questi «occhi diversi» il
grande contributo che i carismi e la vita religiosa possono dare e danno
al bene comune oggi.
Luigino Bruni
Docente di Economia
politica all’Università di Milano-Bicocca
Via di Frascati, 306 – 00178 Roma
NOTE