n. 10
ottobre 2008

 

Altri articoli disponibili

English

 
Comunità: croce e delizia di riconciliazione

di BRUNO SECONDIN

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

C'è un testo paolino che viene spesso citato senza tener conto del suo contesto immediato, col risultato pericoloso di una proclamazione di fede in Cristo senza il risvolto della prassi, e di una prassi come scuola di riconciliazione, grazie proprio alla fede in Cristo umiliato ed esaltato. Si tratta del famoso inno cristologico inserito da Paolo nella sua lettera ai Filippesi al capitolo 2,6-11.

Tutti lo conosciamo. Cominciava così nella traduzione finora esistente: “Cristo pur essendo di natura divina, non ritenne un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio…”. Nella nuova traduzione, che ascoltiamo proprio quest’anno nella domenica XXVI (28 settembre), non suona più ritmicamente bene, anche se certo possiede magari più fedeltà al senso originale.

Comunque tale gioiello si trova nel bel mezzo di un’insistente esortazione all’accoglienza reciproca, all’unione degli spiriti, al servizio reciproco, che inizia al versetto 2,1.

Questo è l’inizio: “Se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità…”. In questa prospettiva si colloca poi l’icona del servo umiliato e glorificato: a dire che c’è una relazione ascendente, in cui lo sforzo umano tende ad una pienezza di fraternità e di koinonia, che trova in Cristo la piena realizzazione e trasfigurazione. E nello stesso tempo c’è una relazione discendente: dall’adesione a Cristo servo umiliato ed esaltato, deriva il paradigma che rinnova tutti i valori umani e li trasfigura, dinamicamente fermentandone ogni implicazione, semi-nando impulsi di generosità, servizio, disarmo del cuore.

Non vi possono essere come due settori che corrono in parallelo: lo spazio dello sforzo ascetico, quasi autocertificato, entro il quale ci contorciamo per piegare volontà e affetti in senso caritatevole e di reciproca accoglienza. E poi lo spazio della fede, in cui l’icona del Cristo spogliato di ogni dignità e di nuovo rivestito della gloria, brilla alta per proprio conto, solo di striscio relazionata con la nostra maniera di vivere la comunione. Percorso ascetico e mistero oggettivo s’intrecciano, si condizionano e si alimentano a vicenda. Per trasformare la vita intera, anche nella sua concretezza, in una liturgia e una confessio laudis del primato di Cristo come paradigma e come causa generante, ma insieme come meta e come percorso verso la meta.

Lo spessore teologale della comunità riconciliata

La comunità riconciliata non è quella che ce la mette tutta per andare d’amore e d’accordo. Anche questo può essere un aspetto, ma non il primo. La comunità è posta nella grazia della riconciliazione, della reciproca carità e accoglienza, proprio per dono, per costituzione ontologica, per gratuita iniziativa di Dio, attraverso il Figlio. Essa è costitutivamente plasmata dalla carità di Cristo diffusa nei cuori per mezzo dello Spirito, ricreata dal sacrificio che ha rotto i muri di divisione e d’incomunicabilità per formare un corpo nuovo e unito, essa è “corpo crismato” pervaso da diversità riconciliate e proteso verso la trasformazione dell’intero cosmo nell’amore e nel servizio. È questo che significa l’affermazione di Vita consecrata quando dice che “la comunione fraterna prima d’essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto” (VC

42). Come può avvenire questo? Molti di noi dubitano che queste espressioni non siano altro che generiche e romantiche indicazioni. Ma non è così: è la conseguenza logica dei misteri della salvezza che nella comunità si vivono, se si vivono davvero con fede e senza finzioni. Aggiunge infatti l’esortazione postsinodale nello stesso paragrafo: “Questo avviene grazie all’amore reciproco di quanti compongono la comunità, un amore alimentato dalla Parola e dall’Eucaristia, purificato nel Sacramento e nella Riconciliazione, sostenuto dall’implorazione dell’unità, speciale dono dello Spirito per coloro che si pongono in obbediente ascolto del Vangelo” (VC 42). Il compito dello Spirito è proprio quello di rendere feconde Parola e mensa eucaristica, preghiera e conversione, convivenza e carità, non in maniera individualistica o consolatoria, ma in maniera trasformatrice, liberatrice, guaritrice.

Non è che la vita di comunità sia immune dalle fragilità e dalle tensioni umane, ma se è aggregazione generata dalla fede e dalla carità teologale (cf PC 15), e non solo dalle furbizie meschine di chi si sceglie o di chi impone una convivenza forzata senza reciprocità serena, in essa deve apparire prima o poi “la potenza dell’azione riconciliatrice della grazia, che abbatte i dinamismi disgregatori presenti nel cuore dell’uomo e nei rapporti sociali” (VC 41).

Anche il recente documento della Congregazione per la Vita Consacrata, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza (= SAO) pronuncia un linguaggio simile quando parla di sinergia fra chi comanda e chi accetta di essere guidato, perché si tratta di “due dimensioni della stessa realtà evangelica, dello stesso mistero cristiano, due modi di partecipare alla stessa oblazione di Cristo. Autorità e obbedienza si trovano personificate in Gesù: per questo devono essere intese in relazione diretta con Lui e in configurazione reale a Lui” (SAO 12).

Il problema non sono i conflitti, ma come gestirli

Nonostante ogni sforzo per mascherare tensioni e conflitti, molte comunità li mostrano lo stesso, magari illudendosi che non si percepiscano da fuori. E non si rendono conto che la vera testimonianza non sta nel negare l’esistenza di diversità e di tensioni, ma nella maniera di gestirli, di ricomporre sempre di nuovo l’unità nella carità e nella lealtà, senza dimenticare la giustizia e l’equità. Perché la comunione non ce la diamo noi, ma ci è donata dalla misericordia del Signore, anzitutto, dalla sua grazia diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito (Rm 5,5): e negare questa efficacia anteriore ai nostri sforzi, vuol dire mettere noi stessi al posto della grazia che salva e guarisce. Non siamo noi a salvare noi stessi.

Se ripensiamo un attimo al “malcontento” che si stava diffondendo nella comunità cristiana primitiva, a causa dell’apparente emarginazione delle vedove degli ellenisti (At 6,1-6) e al modo come quel conflitto latente è stato portato alla luce e risolto con genialità, comprendiamo come sia vero che il punto focale è la gestione dei conflitti.1 Di fronte a quel disagio, che era mormorazione, nervosismo, forse anche rabbia e aggressività, “i Dodici” non cercano una soluzione dietro le quinte, consultandosi con pochi intimi e fidati collaboratori, ma convocano “il gruppo dei discepoli”. Cioè portano in pubblico con lealtà e onestà il problema: cominciando a riconoscere anzitutto i propri errori, l’incapacità di fare tutto, e forse anche la mania di controllare tutto.

Apertamente si assumono una colpa oggettiva (“non è giusto”), di fronte alla gente e di fronte alla gerarchia dei valori primari. E chiedono collaborazione per condividere con altri i compiti molteplici: chiedono dei nomi, secondo certi criteri oggettivi e validi per la comunità, e non secondo i propri interessi e i propri gusti. E la comunità, coin-volta seriamente, risponde in modo creativo: sceglie sette persone di nome greco (e quindi di origine ellenistica), per assumere il nuovo “ministero” in piena autorevolezza. E che si tratti di una corresponsabilità e non dei subalterni senza autonomia, lo si vede da quello che poi questi “diaconi” fanno con iniziative personali: Stefano è testimone coraggioso e primo martire (At 6,8-7,54), Filippo è predicatore itinerante in Samaria e sulla strada verso Gaza (At 8,5-40).

Poteva essere un conflitto mortale che spaccava tutto: è diventato la sorgente di una chiarificazione di identità, di ruoli, ma anche occasione per una più evidente partecipazione di altri gruppi etnici e culturali alla responsabilità ecclesiale. Il conflitto è stato gestito in maniera intelligente, senza paura di perdere la faccia e con un chiaro criterio di itinerario alla soluzione, nella piena corresponsabilità e fiducia. Potevano sentirsi minacciati “i Dodici” nella loro leadership, o pensare che i soliti invidiosi turbavano la pace della comunità: cosa che molte volte si deve costatare oggi in tanti conflitti nelle nostre comunità.

Sono rari i superiori e le superiore che sappiano superare questa istintiva reazione difensiva: perché temono di perdere potere, di lasciar troppo spazio a proposte alternative, di dover ridimensionare se stessi. E allora si precipitano a dire che hanno fatto tutto con retta coscienza, che sempre c’è qualcuno che pensa solo a se stesso, che non si può accontentare tutti. Raro è il caso di ritrovare la lealtà e la libertà dei “Dodici” di fronte al malcontento: cioè una autocritica onesta, oggettiva e non nevrotica. E da qui nascono molti guai e sofferenze serie.

Tutto il documento Il servizio dell’autorità e l’obbedienza vuole condurre proprio verso l’instaurazione, nelle comunità religiose, di un servizio dell’autorità che promuova la crescita della fraternità in un clima favorevole all’ascolto e al dialogo, la creazione delle condizioni opportune per la condivisione e la corresponsabilità, la partecipazione di tutti alle cose di tutti, il servizio equilibrato al singolo e alla comunità, il discernimento, la promozione dell’obbedienza fraterna (SAO 20). Con linguaggio deciso il testo conclude affermando che la vera fraternità si fonda sulla libertà interiore: “Non è certamente libero chi è convinto che le sue idee e le sue soluzioni siano sempre le migliori; chi ritiene di poter decidere da solo senza alcuna mediazione per conoscere la volontà divina; chi si pensa sempre nel giusto e non ha dubbi che siano gli altri a dover cambiare; chi pensa solo alle sue cose e non volge nessuna attenzione alle necessità degli altri; chi pensa che obbedire sia cosa d’altri tempi, improponibile in un mondo più evoluto” (SAO 20g).

La fraternità in un mondo diviso e ingiusto

Così s’intitola il paragrafo 51 di Vita consecrata, e forse mai come in questo caso il titolo vale più della stessa spiegazione, perché è più incisivo e originale. E non si tratta di originalità messa lì per caso, perché anche in altri paragrafi si riprende proprio questa prospettiva di una proposta culturale e paradigmatica, che fermenta e contesta mentalità e convinzioni diffuse, in cui odio e rifiuto, pregiudizi e logiche di sopraffazione sembrano tanto naturali. E lo fa in vista di una guarigione dalle radici: perché ci sono sempre tante ramificazioni nascoste di odio o rifiuto, di pregiudizio e chiusura.

Il paragrafo spiega poi che le comunità di vita consacrata hanno il compito e la chance di far  crescere, anzitutto al proprio interno, una spiritualità di comunione. E poi di essere nella società rissosa e aggressiva “segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità”, secondo una logica di vita e di fiducia sempre rinnovata. E più avanti, in altro contesto già di per sé originale, cioè nella sezione dedicata a “una testimonianza profetica di fronte alla nuove sfide” (VC 84-95), si presenta il tema dell’autorità e dell’obbedienza e il loro vissuto costruttivo e non lacerante, come una controproposta culturale alle “abnormi conseguenze di ingiustizia e persino di violenza [a cui] porta, nella vita dei singoli e dei popoli, l’uso distorto della libertà” (VC 91). Appunto “contro lo spirito di discordia e di divisione” che proviene dall’esasperare la “diversità di razza e di origine, di lingua e di cultura” (VC

92), di sesso e di strato sociale, la comunità fraterna afferma una reciproca accoglienza, nello stupore e nel sostegno mutuo, contro tutte le discriminazioni in atto, palesi od occulte.

Credo che questo aspetto --che in effetti ha una notevole verità storica, pur nelle contraddizioni non meno notevoli - ci dovrebbe far riflettere di più, e verso questo “porsi davanti e alter-nativamente” rispetto alla cultura dominante, si dovrebbero indirizzare anche i ripensamenti per risolvere la crisi dei modelli di comunità oggi. In effetti quella mania della comunità regolare e chiusa in se stessa, che consuma pie pratiche e sublima nevroticamente le fratture e le ostilità, potrebbe essere sostituita, con migliori risorse evangeliche e con più originali ispirazioni carismatiche, da questo “porsi/opporsi” dialogico di fronte alla società e alle sue nevrosi necrotiche e narcotizzanti.

Liberare le potenzialità 

Tutto questo per dire che, seguendo questa “esposizione” verso fuori, ne ricaverebbe energia e senso il nostro stesso stare nella Chiesa come fraternità orante e apostolica: perché si arricchirebbe di un tasso migliore e più urgente di profezia e di proposta culturale.2 Troppo ci attardiamo a confezionare la nostra vita sotto vuoto, dimenticando che la grazia che salva e guarisce in comunità, è anche un debito che abbiamo verso tutto e tutti.

Siamo chiamati a farla diventare fermento, eloquente ed efficace, fascino e appello, in questa società che ha tanto bisogno di unione e di speranza, eppure precipita di frequente negli abissi della violenza e della paura suicida. Liberare queste potenzialità non è una fantasia, ma un’urgenza con cui possiamo misurarci, se vogliamo avere ancora una qualche chance in questa congiuntura storica che viviamo.

1 In questa prospettiva cf B. SECONDIN, La Parola di Dio non è incatenata. Lectio divina su Atti degli Apostoli e Lettere di Paolo, Messaggero, Padova 2004, 25-36.

2 Mi permetto di rimandare ad un mio contributo: “Vivere di utopia nei tempi dell’incertezza. Come reinventare il fermento profetico nella Chiesa”, in J. M. ALDAY (ed.), I religiosi sono ancora profeti?, Àncora, Milano 2008, 191-210.

Bruno Secondin
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

 

Torna indietro