n. 2
febbraio 2009

 

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«Amati da Dio»
(Rm 1,7)
Il lieto annuncio di Paolo

di FRANCESCO LAMBIASI

 

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Il titolo evoca un’espressione della Lettera ai Romani, nel punto in cui s. Paolo, apponendo l’indirizzo della sua missiva, si rivolge direttamente ai destinatari: «A quanti sono in Roma, amati da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo» (Rm 1,7).

Le lettere paoline, al pari di tutte quelle dell’antichità, si aprono con il mittente, il destinatario e l’iniziale saluto augurale. I tre elementi sono facilmente reperibili nel prologo del nostro testo (Rm 1,1-7). Nel menzionare i destinatari della sua lettera s. Paolo attribuisce loro due qualifiche: «amati da Dio» e «santi per vocazione». Nel versetto precedente, dopo averli evocati con un semplice pronome personale («voi»), li aveva qualificati come «chiamati da Gesù Cristo»: il che significa che non solo l’Apostolo è stato scelto dal Cristo, ma anche i destinatari della sua Lettera hanno ricevuto una simile vocazione per grazia e appartengono in modo speciale al Signore Gesù. In tal modo s. Paolo arriva a precisare chi sono i suoi destinatari: «tutti quelli che sono in Roma», non intendendo certo scrivere all’intera popolazione della capitale dell’impero, ma alla comunità cristiana, identificata con espressioni teologiche di rilievo.

I destinatari di s. Paolo, dunque, sono i figli diletti, ovvero coloro che sono chiamati da Dio a formare il nuovo Israele, il popolo che Dio ha amato in modo speciale (cf Dt 7,7-8) e che, in forza dell’alleanza, è diventato partecipe della sua stessa santità (cf Es 19,6). L’appellativo «santi», prerogativa speciale dei cristiani di Gerusalemme (cf At 9,13), è estesa anche ai membri della comunità di Roma, i quali condividono la loro stessa vocazione. Proprio sull’insondabile mistero dell’amore di Dio fermeremo la nostra attenzione.

Io, tu, noi siamo amati da Dio

Siamo amati da Dio: è il lieto annuncio, la bella notizia che ci viene comunicata dall’Apostolo. Se siamo amati da Dio, è perché Dio è more, è Padre che ama tutti e ciascuno: liberamente, gratuitamente,irreversibilmente. Amore, nel vocabolario cristiano, è parola bilingue, divino-umana: vedi alla voce ‘Gesù Cristo’, amore divino per l’uomo, amore umano per Dio. Ma tutto questo non lo afferma ogni religione, ogni teologia, anzi ogni filosofia su Dio? In effetti anche Aristotele chiamava io amore - il grande Motore Immobile dell’universo, che “muove tutto in quanto amato” - però lo intendeva appunto come un Amore che deve essere amato, ma mai e poi mai questo Amore può “abbassarsi” ad amare tutto ciò che non è Dio: finirebbe per ‘sdivinizzarsi’, per autodistruggersi.

Quindi Dio può amare solo se stesso: è amore dell’amore. Noi lo dobbiamo amare, lui però – ma è veramente un ‘lui’? – non può amare nessun altro all’infuori di se stesso. Viene da chiedersi: questo ‘amore-autoamantesi’ non rischia di sconfinare nel più morboso narcisismo? Non è così il Dio di Muhammad il Profeta. Ogni fedele lo invoca più volte al giorno, con la prima ‘sura’ del Corano: «Nel nome di io, Misericordioso e Compassionevole». Allah ha cento nomi: è Grande, Onnipotente, Eterno, Immenso ecc., ma il nucleo dei suoi attributi  costituito proprio da quei due aggettivi – Misericordioso e Compassionevole. Allah riversa la sua clementissima misericordia su tutte le sue creature, anche le più piccole e umili. «In una notte nera – recita un detto mussulmano – su una pietra nera, una formica nera Dio la vede e la ama». Si può parlare di un rapporto d’amore tra Dio e noi? Certamente da parte nostra nei suoi confronti è più corretto parlare non di amore, ma di ‘sottomissione’: questo, appunto, significa la parola araba islàm.

E da parte sua? Se facciamo il confronto con il Dio di Gesù Cristo, tra le non poche differenze balzano evidenti queste due: Allah ama solo i suoi ‘fedeli’, e predestina gli infedeli alla dannazione eterna; il Padre di Gesù invece non fa preferenze di persone, ma vuole che tutti gli uomini siano salvi. Inoltre ad Allah manca la capacità di amare in modo umano. E si capisce perché: può amare in modo umano solo un Dio incarnato, cosa che l’islamismo ritiene assurda. Ma può un Dio amare veramente gli uomini senza amarli in modo effettivamente umano? E come può Dio amare in modo umano senza un cuore di carne, veramente umano? Questo non significa pensare l’Incarnazione come ad un evento ‘dovuto’: essa è e resta una grazia, evento assolutamente gratuito, del tutto imprevedibile e improgrammabile, ma la differenza cristiana è data appunto dalla fede in quell’evento: «la Parola di Dio si è fatta carne », che è come dire: l’Amore di Dio ha assunto un cuore di carne.

Interessante anche un confronto con il buddismo. È stato H. de Lubac il primo a stabilire un audace parallelo tra Cristo e Budda. Ecco la sua conclusione: «Il fallimento di questa immensa avventura, il naufragio di questa ‘zattera’ gigante, che ha imbarcato per la liberazione mezza umanità, deriva dal fatto che Budda non ha saputo scoprire il volto del Dio-Amore. Non per questo siamo severi con lui. Budda ha forse impersonato più di qualsiasi altro uomo il problema del destino umano. Più di qualsiasi altro ha portato a buon fine tutta una pars purificans, per la quale gli stessi cristiani gli possono essere riconoscenti. Ha evitato le vie ingannevoli e sempre tentatrici della superstizione, dell’ascesi meccanica e della gnosi. Ha visto la necessità dello spogliamento spirituale, al di là della morte dei sensi. Ma ha indubbiamente mancato il suo scopo. Senza il ‘pieno’ della carità, nessuno realizzerà mai il ‘vuoto’ del distacco. Senza il sì, che può essere soltanto una risposta, non è possibile pronunciare definitivamente il no indispensabile» (Aspetti del Buddismo, Jaca Book, Milano 1980, 43).

Le sette note dell’Amore

Nelle ultime righe del passo di de Lubac appena citato si trova l’essenza del cristianesimo, il DNA della vocazione cristiana: sono gli attributi originali e caratterizzanti del Dio di Gesù Cristo; sono le sette “note” dell’amore, che è all’origine di ogni chiamata. Innanzitutto la pre-venienza, l’assoluta precedenza: il principio di tutto, di ogni storia, di ogni vocazione, è l’Amore . «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Dio che ha amato noi, e ci ha amati per primo » (1Gv 4,10.19). È Dio che ha chiamato Abramo, ha scelto Israele, ha preferito Davide ai suoi fratelli; e il motivo non si trova mai nella persona prescelta o nel popolo eletto, anzi Israele è il più piccolo tra tutti i popoli (Dt 7,7ss), e Davide è il più piccolo tra i figli di Jesse. «Considerate la vostra vocazione», esorta Paolo i suoi cristiani di Corinto: Dio preferisce ciò che è stolto, ciò che è debole, ciò che è ignobile, ciò che è nulla (1Cor 1,26ss).

La prevenienza si esprime nella gratuità: Dio chiama l’uomo perché lo ama, e lo ama perché è Amore, non perché l’uomo sia amabile. Potrebbe il sole non illuminare o il fuoco non bruciare? Chi contempla il Crocifisso scorge un amore tanto gratuito e sconfinato da apparire incredibile: così Dio ha amato il mondo! Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino all’estremo. Davvero una carità eccedente: smisurata, smodata, sproporzionata!

La gratuità si consolida in fedeltà: la promessa è mantenuta, l’amore dato una volta è dato per sempre. Fedeltà non è abitudine stanca e annoiata: l’amore di Dio non si ripete, si rinnova. Il Calvario non è un vulcano spento. Cristo non si pente delle sue chiamate, neanche di quella di Giuda.

La fedeltà si traduce in tenerezza: non si indurisce per ostinata volontà di autocoerenza e non si raffredda nella pura correttezza formale, ma si porge nei gesti caldi della più premurosa e affettuosa delicatezza: cosa c’è di più tenero di Cristo che si china a lavare i piedi dei discepoli? Il ‘chiamato’ deve esporsi all’amore del Maestro e deve lasciarsi amare: è Lui che ama per primo!

La tenerezza si incarna nella concretezza: l’amore si fa gesto e storia, non si affida a parole vuote o ad atteggiamenti sdolcinati, ma raggiunge il chiamato nella irripetibilità della sua persona, nella singolarità della sua situazione, nell’interezza delle sue relazioni con gli altri uomini e con il mondo.

La concretezza sfocia nella misericordia: è veramente concreto l’amore, perché non giudica e non condanna. Tutto scusa, tutto sopporta. Non si arresta di fronte alla miseria dell’amato, non vince soltanto il tempo, vince un nemico ancora più accanito: la colpa, l’incorrispondenza, l’infedeltà.

La misericordia si declina - scandalosamente! - nella gelosia: non scade mai a buonismo peloso o a morboso sentimentalismo. L’amore di Dio è geloso, non nel senso che egli sia invidioso della nostra felicità – questo è piuttosto il sentimento che rode eternamente Satana – quanto perché è premuroso, come l’amore materno, del «ben-essere» delle sue creature. Per questo è un amore esigente: si dà tutto e chiede tutto - tutto il cuore e tutta la vita – altrimenti ne scapiterebbe il carattere adulto dell’amore, la serietà della sua risposta, il rispetto della sua dignità.

Le leggi fondamentali dell’Amore

Sono quattro, in particolare. La prima si potrebbe chiamare la legge della verticalità. Tante volte si mette in guardia dal pericolo dell’orizzontalismo: il cristianesimo – si dice - non si può ridurre al comandamento dell’amore del prossimo, ed è giusto: prima viene il comandamento dell’amore per Dio. Ma prima ancora del primo comandamento viene l’evento: Dio ci ha amati per primo! Dunque la dimensione verticale precede e fonda quella orizzontale, ma si tratta di una verticalità discendente: non siamo stati noi a salire verso Dio, ma è Dio che si è abbassato fino a noi. La vocazione cristiana è un dono che viene dall’alto: come si nasce dall’alto, e non da carne e sangue ma dall’acqua e dallo Spirito, così all’origine di ogni vocazione c’è Dio Padre che ci ama e ci chiama. E come nessuno si può autogenerare, così nessuno si può autochiamare.

La seconda legge, strettamente legata alla precedente, si potrebbe definire la legge dell’indicativo. Nella vita cristiana l’indicativo precede l’imperativo: sei amato e dunque amerai! La fede fonda la carità; la chiamata precede la risposta; il kerygma genera l’etica. Lo diceva un

maestro del sospetto, ma in questo era davvero superiore ad ogni sospetto: «Bisogna aver conosciuto l’amore, prima della morale; altrimenti è lo strazio» (J.-P. Sartre).

La terza legge la potremmo formulare in questi termini: Dio sceglie un popolo (Israele), ma per portare la luce a tutti i popoli. Sceglie una persona, ma per la salvezza di tutto il popolo di Dio. Il suo infatti è un amore elettivo, ma non selettivo, discriminante, perché l’amore non può mai fare preferenza di persone. Il chiamato quindi è messo di fronte alla sua responsabilità: deve sapere e deve ricordarsi sempre che Dio lo ha scelto per farne uno strumento di salvezza a favore di ‘molti’. Nel momento in cui il chiamato dimenticasse di essere un povero strumento - di per sé assolutamente inadatto e inadeguato – e si illudesse di essere lui la causa o il protagonista della propria e altrui salvezza, finirebbe per distruggere ogni possibilità di autentica realizzazione di sé e di vera grazia per altri.

La quarta legge dell’Amore è la croce: come per Cristo, così per ogni cristiano, rispondere alla chiamata del Padre significa scegliere di perdere la vita per amore. Non si può seguire la via crucis, se non si è sinceramente, concretamente, definitivamente disposti a rinnegare il proprio io e ad inchiodarlo sulla croce. Altrimenti prima o poi ci inchioderemo qualcun altro…

Ci crediamo amati?

Un dato che viene abbondantemente suffragato dall’esperienza e riconosciuto dalla psicologia moderna, ci dice che un bambino che non ha ricevuto affetto, farà più fatica da grande ad esprimere affetto nei confronti degli altri. Da piccolo hai ritenuto di doverti ‘guadagnare’ l’amore, la stima, la fiducia dei genitori, insegnanti, amici? Il criterio dell’amore di Dio non è la nostra bontà, ma la nostra povertà; non è il nostro merito, è il nostro bisogno: Dio ci ama gratuitamente e incondizionatamente. Paolo, da fariseo, aveva pensato di dover meritare l’amore di Dio, ma poi ha scoperto l’amore in Gesù Cristo e ha gridato: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Ci sono stati momenti nella mia vita in cui mi sono sentito amato da Dio Padre, senza alcun mio merito, nonostante, anzi proprio per il mio peccato? Ora mi sento avvolto dall’amore premuroso e tenero di Dio?

Qualunque sia stato il mio passato, Dio era con me. Qualunque sia adesso il mio presente, Dio è con me. Qualunque sarà il mio futuro, Dio sarà sempre con me. Riesco a vincere il rimpianto o il rammarico per il passato con un sincero atteggiamento di gratitudine? Riesco a superare la paura del futuro con la fiducia e l’abbandono nella misericordia tenerissima del Signore? Di fronte all’insondabile mistero dell’amore di Dio, si capisce lo stupore del salmista che si domanda: Ma cosa è mai l’uomo, o Dio, perché tu te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne prendi tanta cura? (cf Sal 8,5).

Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini

Via IV Novembre, 35 - 47900 Rimini

 

 

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