n. 10
ottobre 2009

 

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Formare se stessi all’arte dell’esistenza

di ANNA BISSI

 

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Nel racconto della creazione (Gen 2,7) l’uomo sta nelle mani di Dio, che lo plasma, come l’argilla in quelle del vasaio. Poi Dio appoggia il volto sull’opera delle sue mani e vi alita un soffio di vita: quella creatura, fragile come la creta, partecipa così della respirazione divina e diventa nefesh, un vivente.

Queste parole della Scrittura ci sono così familiari che rischiamo di non coglierne la profondità e la bellezza. Si tratta di poche righe, più dense di un vero e proprio trattato di antropologia e di teologia. Esse mettono in risalto la fragilità dell’uomo, quella debolezza strutturale sulle cui conseguenze la Bibbia c’introdurrà nel capitolo successivo, raccontandoci l’episodio del peccato originale. Nello stesso tempo ci rivela quale sia uno dei compiti per eccellenza di ogni creatura: proprio perché plasmata come un vaso, essa è fatta per racchiudere, per accogliere qualcosa. Subito dopo, scopriamo quale sia questo "contenuto", rispetto al quale l’essere umano è modellato come "contenitore": è il soffio di Dio.

Un suggerimento ulteriore ci viene dall’esegesi: troviamo in questo testo lo stesso termine utilizzato da Geremia per indicare la respirazione di una donna che partorisce

(cf Ger 4,31). Dio, quindi, soffia sull’uomo come una donna soffia, geme, per far nascere il suo bambino. Con quest’immagine semplice e suggestiva veniamo in contatto con il mistero dell’uomo, essere plasmato per accogliere il respiro di Dio, la sua Vita. È questo il dono prezioso rispetto al quale l’essere umano è stato pensato come un "contenitore", dono che deve ricevere e impregnare tutta la sua esistenza.

Chiamati a diventare con-creatori

Quest’accoglienza di una realtà infinitamente preziosa comporta anche un impegno, una responsabilità. In quanto essere creato, l’uomo è chiamato a diventare concreatore, esercitando non solo sulla creazione, ma anche su di sé quel sano dominio che deve orientare tutto l’esistente, in modo ordinato e armonico, verso un fine: la comunione con gli altri e con Dio. Il suo ruolo di custode del giardino (Gen 2,15), anche di quello interiore, e il compito di dare un nome (Gen 2,19) alla realtà che lo circonda esprimono questa richiesta da parte di Dio di una collaborazione, di una partecipazione alla crescita di quanto è stato creato e, di conseguenza, allo sviluppo del dono ricevuto dall’uomo.

Con il peccato questa cooperazione s’infrange parzialmente, ma grazie alla Pasqua del Cristo noi veniamo di nuovo pienamente inseriti in questa Vita divina. Il Battesimo, che in essa ci introduce, ci affida anche la responsabilità di lasciarcene sempre più permeare, di fare in modo che essa penetri intimamente tutte le fibre del nostro essere.

Formare se stessi

Il compito di educare se stessi, dunque, non è una realtà a se stante rispetto all’esperienza di fede e alla vocazione personale. Esso risponde invece alle esigenze insite nel Battesimo e, di conseguenza, nella vocazione religiosa. Si tratta, infatti, di avere cura e di far crescere un dono prezioso, che ci è stato affidato. Questo compito deve essere svolto con impegno e serietà, perché ciò che deve maturare e svilupparsi è molto di più di una semplice dimensione della nostra vita, ma riguarda invece la globalità dell’esistenza.

La formazione di un religioso, infatti, non può interessare solo un ambito della personalità: la conoscenza, la cultura, lo sviluppo intellettuale o morale, la competenza. Essa non può fare a meno di coinvolgere la vita intera, in tutte le sue dimensioni. Questa vita è una realtà dinamica, simile a un germe bisognoso di essere custodito e coltivato, per svilupparsi sempre più.

Parlare di dinamismo, quindi, significa far riferimento a un orientamento, una direzione verso la quale convogliare il movimento dello sviluppo. Per educare se stessi è dunque indispensabile definire la finalità di questo percorso formativo. Esso, infatti, può essere concepito in termini diversi. Qualcuno può interpretarlo come un accrescimento del proprio Io: in tal caso l’interesse della persona è orientato verso tutto ciò che può procurarle una gratificazione a livello psicologico, per esempio il potere, il successo, l’ammirazione. Se però noi ci riconosciamo come creature abitate dalla Vita di Dio, allora anche il fine della nostra formazione personale dovrà avere un nesso, un legame con questa Vita e il formarsi dovrà trovare uno scopo capace di trascendere la soddisfazione del singolo. Il modo di pensare se stessi, quindi, definisce anche il fine del percorso educativo e interpella in merito al suo orientamento. Diventa così doverosa la domanda su che cosa riteniamo centrale, fondamentale in questo percorso: il nostro Io, con le sue potenzialità di sviluppo, o la crescita di quel dono ricevuto nel Battesimo, che è la Vita di Dio da Lui comunicata nel sacramento?

Interrogarsi

Educare se stessi all’arte dell’esistenza significa quindi interrogarsi, esplicitamente o in forma indiretta, rispetto a ciò che personalmente consideriamo come esistenza. Si tratta di una domanda fondamentale per ogni essere umano e quindi anche per noi religiose, le cui risposte teoriche possono essere perfette, ma anche difensive, se non ci lasciamo interpellare dalla concretezza del quotidiano, domandandoci ciò che per noi, ogni giorno, significa vivere.

La Vita in Dio non può essere certo definita dalle nostre povere parole umane; nel vocabolario comune troviamo però dei termini capaci di evocare qualcosa di tale mistero: comunione, dono di sé, accoglienza, relazione, ma anche dinamicità e movimento, purché non vissuti come fini a se stessi, ma inseriti in un continuo scambio d’amore. Formare se stessi all’arte del vivere implica, di conseguenza, il verificare se nella nostra esistenza può trovare spazio e può crescere ciò che caratterizza la Vita di Dio. Spesso ci sentiamo rimproverare si è imborghesita.

Non sono però solo le persone distanti dalla Chiesa ad affermarlo: più volte, infatti, lo stesso Papa Benedetto XVI lo ha ripetuto, invitandoci così a riflettere e a convertirci. Uno dei tratti salienti di tale imborghesimento ha forse dei profondi nessi con il tema della formazione, perché si può esprimere come perdita della dinamicità dell’esistenza. Spesso, infatti, più che vivere noi tendiamo a sopravvivere, a proteggere ciò che siamo o abbiamo. Le nostre resistenze al cambiamento si configurano sovente come dei no pronunciati nei confronti di una Vita che non è accolta e ciò in nome delle nostre paure, della difesa del benessere personale, della difficoltà a dilatare il cuore, sintonizzandolo sulla lunghezza d’onda delle necessità della Chiesa e del mondo.

Far crescere la Vita

Il rischio è che questo sia vero a livello personale e istituzionale. Non sono solo i singoli individui, infatti, che possono, anche senza volerlo, rifiutarsi di accogliere e far crescere la Vita. Spesso vengono a mancare gli stimoli da parte dell’Istituto che, arroccato sulle sue posizioni finalizzate alla sopravvivenza, non stimola le comunità o i singoli membri a sviluppare dinamiche di collaborazione, di scambio o a riflettere e interrogarsi su come accogliere e far crescere quella "Vita abbondante" che ci è promessa nel Vangelo.

L’autoformazione, soprattutto all’interno di una comunità religiosa, non si configura come conseguenza di un’iniziativa individuale, ma dà frutto solo se è pensata in modo organico e interpersonale. Educare se stessi non può mai essere un dovere imposto dall’alto e subìto come un peso schiacciante, ma nemmeno un’esperienza frammentaria, in cui ogni singolo individuo cerca di sviluppare un aspetto della sua personalità. Il formarsi è un’esperienza coerente e strutturata, orientata da un fine, capace di prendere in considerazione non solo gli interessi e gli scopi del singolo, ma anche gli obiettivi della comunità all’interno della quale si è inseriti. Il sovrapporsi di finalità, diverse nelle intenzioni dei membri rispetto alle decisioni della comunità o dei superiori, può creare tensioni pesanti da portare.

Pensiamo, per esempio, a tutte quelle situazioni in cui manca la necessaria chiarezza rispetto all’importanza attribuita alla preparazione professionale di un componente della fraternità; tale ambivalenza finisce a volte per scontrarsi con la necessità inderogabile per gli altri di mantenere in piedi una struttura. Il "formarsi" diventa allora una scelta di cui colpevolizzare l’altro o un diritto da rivendicare e non una dimensione della crescita individuale, da integrare all’interno di un progetto di vita attento a leggere nei segni dei tempi, nei talenti personali e comunitari, nel carisma ricevuto, negli orientamenti tratti dal Vangelo, le indicazioni per le scelte particolari e collettive.

I voti: alta scuola di formazione

L’atto formativo necessita, come abbiamo messo in risalto, di modi capaci di guidare un percorso di crescita; esso ha bisogno però anche di strumenti. La vita religiosa, con la sua struttura e le sue esigenze, prima fra tutte la ricerca del Signore, ne mette a disposizione molti. I voti, per esempio, possono diventare per noi dei mezzi privilegiati, che ci educano all’arte del vivere. Molti sono gli ambiti della nostra esistenza in cui essi ci fanno crescere. Fra le diverse possibilità, mi piace mettere in risalto una dimensione profondamente legata al mistero della vita, quale lo abbiamo descritto all’inizio. I voti, infatti, possono rappresentare per noi dei mezzi per accogliere la Vita, quel respiro di Dio che ci abita. Diventare recettività rispetto ai doni di Dio, mettendo da parte la possessività del nostro modo di amare, il bisogno di trattenere e gestire autonomamente l’esistenza: ecco l’alta scuola di formazione che ci presenta la vita consacrata attraverso questi tre mezzi, capaci di farci crescere e indirizzarci verso la piena maturità di Cristo (Ef 4,13).

Anna Bissi
Psicoterapeuta
Basilica sant’Andrea - p.za Roma 35
13100 Vercelli

 

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