n. 12
dicembre 2009

 

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«L’uomo nascosto nel cuore»
Si vestirà di luce

di ANTONIETTA AUGRUSO

 

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Nella sua prima venuta
fu avvolto in fasce
e posto in una stalla,
nella seconda si vestirà
di luce come di un manto

(SAN CIRILLO DI GERUSALEMME)

 

L'attesa è compagna del movimento: attendere senza cedere alla pigrizia e all’immobilismo, né lasciarsi prendere da frenetici preparativi esterni. Parlo di un movimento spesso non  percepibile a occhio nudo, una dinamica dell’interiorità, diversa dall’intimismo. Una preparazione attenta e delicata che non sommerga l’atteso, nel groviglio dei preparativi rumorosi e a volte vuoti. La comprensione degli eventi, del loro senso, dipende anche dal tempo che vi si dedica, cercando forme sane di sosta e di progettazione. Un peso rilevante ce l’ha il silenzio: credo che sia uno degli ornamenti principali del nostro uomo nascosto nel cuore. Più volte in questa rubrica abbiamo condiviso il desiderio di un silenzio sano e profondo che è alla radice di ogni percorso inteso come ricerca della verità.

Vorrei che la preparazione a questo nuovo Natale fosse così, per avere il senso che merita. Non è la frase quasi rituale e scontata: «Il Natale non è importante per i regali!». E poi l’attenzione ai regali assorbe parecchio della nostra attesa e gioia. Bisogna tentare di non cadere nella rassegnazione della routine e ritrovare motivi per stupirsi d’altro, pur essendo consapevoli che i gesti, i riti e le celebrazioni saranno quelli di sempre.

Come la rosa

Una pianta mi ha stupita! L’associo al percorso spirituale della vita di ognuno: è la rosa di Gerico, detta pianta della risurrezione. Apparentemente senza vita, diventa un bozzolo secco in condizioni avverse, ma resiste a lungo e si prepara alla vita. A contatto con l’acqua dischiude completamente i propri rami acquisendo un vellutato color verde e assume un aspetto completamente diverso.

Ci sono tante leggende legate a questa pianta. La più diffusa narra che la Vergine Maria, sulla strada di Nazaret, si dissetò con l’acqua racchiusa nel cuore della rosa e, grata alla pianta, la benedisse donandole vita eterna: è quasi il paradigma della vita dei credenti. Ci accartocciamo su noi stessi, veniamo sballottati dalle tempeste improvvise del vento, correndo a velocità superiori alle forze che possediamo, e in tutto questo la nostra bellezza viene nascosta, ma l’incontro può definitivamente trasformarci. La visita della donna di Nazaret cambia il destino della rosa di Gerico: l’acqua le restituisce la bellezza originaria! Incontrare Maria significa poter accedere all’acqua per sempre.

Paradossalmente questo dipende anche da noi, dal desiderio d’apertura verso la storia, dalla coscienza di un kairòs da riconoscere, custodire, coltivare. È l’atteggiamento che aiuta a non mettere tra parentesi la consapevolezza, più o meno serena, che siamo sospesi tra un “già” e un “non ancora”. Come la rosa attendiamo l’acqua e pronunciamo le parole della donna di Samaria: «Signore, dammi di quest’acqua» (Gv 4,15).

Attingere a pozzi nuovi

L’ascolto è una delle vie importanti per conoscersi, vale per ogni rapporto umano, ma vale anche nella relazione che, nella fede, viviamo con il Signore (2Cor 5,6-8).

Solo dopo il dialogo e l’ascolto attivo la samaritana corre e manifesta agli altri la meraviglia dell’incontro (cf Gv 4,29). Nel dialogo tra Gesù e la donna non c’è ombra di umiliazione o moralismo, per questo non c’è menzogna! Gesù chiede a lei da bere e la conduce ad auto comprendersi in una nuova prospettiva (cf Gv 4,13-15). Il tempo per attingere è tempo di dubbi, di scontri, di verifiche dolorose, ma anche di ripartenze. E ancor prima di attingere a volte ci vuole la pazienza di scavare in luoghi impensati, per accorgersi che esistono altre possibilità.

Nessuna delle tappe che si vivono è priva di senso, ma è di vitale importanza interrogarsi e dare un nome alle cose, come ha dovuto fare Isacco presso Gerar, dove si accaniva a custodire i vecchi pozzi del padre Abramo. Soltanto dopo il confronto con la storia di conflitti e litigi e il coraggio di migrare, si giunge all’acqua del nuovo pozzo Recobot (che significa “spazioso”), si costruisce un altare e si pianta la tenda (cf Gen 26,22).

La sorprendente unità della Parola nelle Scritture permette al credente di individuare dimensioni che sembrano caratteristiche strutturali dell’uomo. Secondo il racconto, Isacco deve mettersi in cammino perché la sua relazione con il popolo che lo ospita è ormai a rischio. È una relazione ferita apparentemente dall’invidia dei Filistei: «Abimelech disse ad Isacco: “Vattene via da noi, perché tu sei molto più potente di noi”» (Gen 26,16).

Ma in realtà Isacco aveva fatto il furbo - come aveva già fatto Abramo - mentendo sul suo rapporto con Rachele (Gen 26,7). Quando accetta di porsi in una forma diversa con l’altro, stabilendo la distanza senza esasperare il conflitto, scorge vicino a sé anche il Signore, e la benedizione si ripete (Gen 26,24). Allora Isacco potrà attingere altra acqua in spazi liberi (Gen 26,32s). Egli impara a non cedere al delirio di onnipotenza, a sottrarsi e prendere il largo.

Capita ad ogni essere umano di capire i limiti delle situazioni, ma succede spesso il contrario, che il senso d’orgoglio cocciuto e testardo renda ostinati e rigidi, e così l’acqua non si trova: «L’onnipotenza è la non accettazione da parte dell’essere umano dei limiti della sua condizione.

L’onnipotenza consiste nell’abbandonare la condizione umana per accedere a ciò che non si è: e diventare dei, l’essere umano, allora farà a meno di Dio o si considererà Dio».1 Gli stessi discepoli non sono immuni da un simile atteggiamento (cf Mt 18,1-5).

Tra Betlemme e il cielo

E Dio si fa bambino, riportandoci in tutt’altra prospettiva: la speranza riparte dai piccoli. Bambino è anche sinonimo di vulnerabilità, Betlemme ancora oggi ce lo ricorda. Così come il suo impoverimento ci mette sotto gli occhi i frutti della devastazione dei poteri forti. Eppure a molti è quasi sconosciuta la storia di tante comunità schiacciate dal delirio di onnipotenza di altri: «Ogni potere è violenza sugli uomini, verrà l’ora in cui non ci sarà il potere di Cesare, né qualunque altro potere. L’uomo entrerà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario alcun potere».2

La Chiesa nelle celebrazioni liturgiche suggerisce di non dimenticare che la tentazione dell’onnipotenza è nel cuore di ogni singola persona. Anche per questo nella preparazione al Natale un verbo frequente è: vegliate! La vigilanza permette di stare desti, di non lasciarsi andare e trascinare dalle correnti. Ma l’aspetto più bello del vigilare è il condurci alla delicatezza dei rapporti, alla trasfigurazione del cuore, mettendolo in guardia dalla tentazione di diventare cuore di pietra (Ez 36,26). Si tratta di uno stile di vita che è prima di tutto dono di grazia, ma è anche frutto della consapevolezza che siamo pellegrini verso uno scenario nuovo (1Cor 5,1-10), e attendiamo, come nelle doglie del parto, la rivelazione dei figli di Dio (cf LG 48). La Bibbia ci conduce ad una interiorizzazione ricca di significato, vigilare è l’atteggiamento fondamentale del credente. È desto chi attende e si adopera con fiducia per un mondo che cambierà, pur sapendo che passa la scena di questo mondo, perché Egli trasfigurerà il nostro corpo mortale (Fil 3,20-21).

La veglia non è solo uno stato mentale, è un modo di vivere, coltivando l’attesa. Ciò aiuta a non assolutizzare se stessi, e a cogliere con realismo i bagliori della novità nella stessa opacità degli scenari della storia, come dice il profeta: «Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: “Viene il mattino poi anche la notte, se volete domandare domandate, convertitevi, venite!”» (Is 21,11-12). Bisogna coltivare il desiderio di tornare a Betlemme, per ricordare il cielo. È un paradosso che Gesù stesso ha vissuto nella sua vita così umana e così perfettamente divina! Rimanere tra Betlemme e il cielo, ed essere presenti: «Non limitiamoci a meditare solo la prima venuta, ma viviamo in funzione della seconda».3

Il senso dell’Avvento è anche la scoperta di questa umile cooperazione che il Signore ci ha consegnato per la nascita del mondo nuovo. Umile: perché radicata nella vita dei piccoli della terra (Mt 25,45), e costruita sulla vocazione fondamentale di tutti e di ciascuno: la vocazione all’amore (1Cor 13). Dunque, radicata profondamente nell’humus, ma con lo sguardo rivolto oltre.

 

Scendere nel cuore

Molti degli incidenti stradali notturni, di cui si parla sui giornali, e tanti conflitti familiari finiti in tragedia, sono frutto di un atteggiamento malato nei confronti della vita. Che dire poi delle grandi scelte strategiche che si concludono con massacri di popolazioni intere! Il cammino verso Betlemme e la preparazione al Natale non possono presentarsi come semplice folklore, devono condurci ad una riflessione profonda. È sano alimentare domande che aiutano a crescere e a stare in guardia dalle fughe costruite a tavolino: l’ossessione della carriera, l’immagine di un corpo impeccabile e sempre giovane, la notorietà pubblica, il denaro facile e abbondante, ecc. Tutti palliativi contro la consapevolezza che non siamo Dio.

Eppure siamo a sua immagine: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando?» (Sal 90,12-13). Contare i nostri giorni è un esercizio liberante, perché dispone ad una considerazione nuova della storia.

I maestri di spiritualità c’insegnano che la preghiera è un oceano di rigenerazione dove l’incontro con la misericordia del Signore permette di vivere una sorta di trasfigurazione continua: interrogarsi ma anche affidarsi per non cedere alla desolazione. Quando il pellegrino va dallo starets per comprendere la pratica della preghiera perpetua il maestro gli dice: «Ti è stato concesso di capire che né la saggezza di questo mondo né un mero desiderio di conoscenza conducono alla luce celeste dell’orazione perpetua, ma che al contrario, essa si trova nella povertà di spirito e nell’esperienza attiva di un cuore semplice».4 Nel viaggio verso Betlemme la dimensione della ricerca, della fiducia, della lode non può mancare.

La preghiera aiuta a non rimanere cardiolesi e ci sollecita al discernimento: «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne a me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto» (Sap 7,7-8). Come faceva Salomone, anche per noi la sapienza va invocata, ricercata, riconosciuta, perché essa: «Pur rimanendo  in se stessa, tutto rinnova e attraverso i secoli, passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti» (Sap 7,27).

La contemplazione della Natività di Gesù è memoria della Sapienza che ha assunto la natura umana, e in questo meraviglioso scambio (Leone Magno) si rinnova l’invito a ravvivare la coscienza della vita come viaggio. E nel silenzio della vigilanza si comprende l’urgenza di costruire la grammatica del dialogo che fa germogliare pace e giustizia, segni visibili della terra che si apre al cielo: «Non con la spada infatti conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma la tua destra e il tuo volto, perché tu li amavi» (Sal 44,4).

1 S. PACOT, Torna alla vita, Queriniana, Brescia 2003, 85.

2 M. A. BULGAKOV, Il maestro e Margherita, Newton Compton, Roma 2009, 28.

3 «Dalle Catechesi di S. Cirillo di Gerusalemme, vescovo», citato in Liturgia delle Ore, I, 139.

4 racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano 1977, 30.

Antonietta Augruso
Docente di Religione
Via Eurialo, 91 - 00181 Roma

 

 

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