Nella sua prima
venuta
fu avvolto in fasce
e posto in una stalla,
nella seconda si vestirà
di luce come di un manto
(SAN CIRILLO DI
GERUSALEMME)
L'attesa
è compagna del movimento: attendere senza cedere alla pigrizia e
all’immobilismo, né lasciarsi prendere da frenetici preparativi esterni.
Parlo di un movimento spesso non percepibile a occhio nudo, una
dinamica dell’interiorità, diversa dall’intimismo. Una preparazione
attenta e delicata che non sommerga l’atteso, nel groviglio dei
preparativi rumorosi e a volte vuoti. La comprensione degli eventi, del
loro senso, dipende anche dal tempo che vi si dedica, cercando forme
sane di sosta e di progettazione. Un peso rilevante ce l’ha il silenzio:
credo che sia uno degli ornamenti principali del nostro
uomo nascosto nel cuore.
Più volte in questa rubrica abbiamo condiviso il desiderio di un
silenzio sano e profondo che è alla radice di ogni percorso inteso come
ricerca della verità.
Vorrei che la preparazione a questo
nuovo Natale fosse così, per avere il senso che merita. Non è la frase
quasi rituale e scontata: «Il Natale non è importante per i regali!». E
poi l’attenzione ai regali assorbe parecchio della nostra attesa e
gioia. Bisogna tentare di non cadere nella rassegnazione della routine e
ritrovare motivi per stupirsi d’altro, pur essendo consapevoli che i
gesti, i riti e le celebrazioni saranno quelli di sempre.
Come la rosa
Una pianta mi ha stupita! L’associo
al percorso spirituale della vita di ognuno: è la rosa di Gerico, detta
pianta della risurrezione. Apparentemente senza vita, diventa un bozzolo
secco in condizioni avverse, ma resiste a lungo e si prepara alla vita.
A contatto con l’acqua dischiude completamente i propri rami acquisendo
un vellutato color verde e assume un aspetto completamente diverso.
Ci sono tante leggende legate a
questa pianta. La più diffusa narra che la Vergine Maria, sulla strada
di Nazaret, si dissetò con l’acqua racchiusa nel cuore della rosa e,
grata alla pianta, la benedisse donandole vita eterna: è quasi il
paradigma della vita dei credenti. Ci accartocciamo su noi stessi,
veniamo sballottati dalle tempeste improvvise del vento, correndo a
velocità superiori alle forze che possediamo, e in tutto questo la
nostra bellezza viene nascosta, ma l’incontro può definitivamente
trasformarci. La visita della donna di Nazaret cambia il destino della
rosa di Gerico: l’acqua le restituisce la bellezza originaria!
Incontrare Maria significa poter accedere all’acqua per sempre.
Paradossalmente questo dipende anche
da noi, dal desiderio d’apertura verso la storia, dalla coscienza di un
kairòs
da riconoscere, custodire, coltivare.
È l’atteggiamento che aiuta a non mettere tra parentesi la
consapevolezza, più o meno serena, che siamo sospesi tra un “già” e un
“non ancora”. Come la rosa attendiamo l’acqua e pronunciamo le parole
della donna di Samaria: «Signore, dammi di quest’acqua» (Gv 4,15).
Attingere a pozzi
nuovi
L’ascolto è una delle vie importanti
per conoscersi, vale per ogni rapporto umano, ma vale anche nella
relazione che, nella fede, viviamo con il Signore (2Cor 5,6-8).
Solo dopo il dialogo e l’ascolto
attivo la samaritana corre e manifesta agli altri la meraviglia
dell’incontro (cf Gv 4,29). Nel dialogo tra Gesù e la donna non c’è
ombra di umiliazione o moralismo, per questo non c’è menzogna! Gesù
chiede a lei da bere e la conduce ad auto comprendersi in una nuova
prospettiva (cf Gv 4,13-15). Il tempo per attingere è tempo di dubbi, di
scontri, di verifiche dolorose, ma anche di ripartenze. E ancor prima di
attingere a volte ci vuole la pazienza di scavare in luoghi impensati,
per accorgersi che esistono altre possibilità.
Nessuna delle tappe che si vivono è
priva di senso, ma è di vitale importanza interrogarsi e dare un nome
alle cose, come ha dovuto fare Isacco presso Gerar, dove si accaniva a
custodire i vecchi pozzi del padre Abramo. Soltanto dopo il confronto
con la storia di conflitti e litigi e il coraggio di migrare, si giunge
all’acqua del nuovo pozzo Recobot (che significa “spazioso”), si
costruisce un altare e si pianta la tenda (cf Gen 26,22).
La sorprendente unità della Parola
nelle Scritture permette al credente di individuare dimensioni che
sembrano caratteristiche strutturali dell’uomo. Secondo il racconto,
Isacco deve mettersi in cammino perché la sua relazione con il popolo
che lo ospita è ormai a rischio. È una relazione ferita apparentemente
dall’invidia dei Filistei: «Abimelech disse ad Isacco: “Vattene via da
noi, perché tu sei molto più potente di noi”» (Gen 26,16).
Ma in realtà Isacco aveva fatto il
furbo - come aveva già fatto Abramo - mentendo sul suo rapporto con
Rachele (Gen 26,7). Quando accetta di porsi in una forma diversa con
l’altro, stabilendo la distanza senza esasperare il conflitto, scorge
vicino a sé anche il Signore, e la benedizione si ripete (Gen 26,24).
Allora Isacco potrà attingere altra acqua in spazi liberi (Gen 26,32s).
Egli impara a non cedere al delirio di onnipotenza, a sottrarsi e
prendere il largo.
Capita ad ogni essere umano di capire
i limiti delle situazioni, ma succede spesso il contrario, che il senso
d’orgoglio cocciuto e testardo renda ostinati e rigidi, e così l’acqua
non si trova: «L’onnipotenza è la non accettazione da parte dell’essere
umano dei limiti della sua condizione.
L’onnipotenza consiste
nell’abbandonare la condizione umana per accedere a ciò che non si è: e
diventare dei, l’essere umano, allora farà a meno di Dio o si
considererà Dio».1 Gli stessi discepoli non
sono immuni da un simile atteggiamento (cf Mt 18,1-5).
Tra Betlemme e il
cielo
E Dio si fa bambino, riportandoci in
tutt’altra prospettiva: la speranza riparte dai piccoli. Bambino è anche
sinonimo di vulnerabilità, Betlemme ancora oggi ce lo ricorda. Così come
il suo impoverimento ci mette sotto gli occhi i frutti della
devastazione dei poteri forti. Eppure a molti è quasi sconosciuta la
storia di tante comunità schiacciate dal delirio di onnipotenza di
altri: «Ogni potere è violenza sugli uomini, verrà l’ora in cui non ci
sarà il potere di Cesare, né qualunque altro potere. L’uomo entrerà nel
regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario alcun
potere».2
La Chiesa nelle celebrazioni
liturgiche suggerisce di non dimenticare che la tentazione
dell’onnipotenza è nel cuore di ogni singola persona. Anche per questo
nella preparazione al Natale un verbo frequente è: vegliate! La
vigilanza permette di stare desti, di non lasciarsi andare e trascinare
dalle correnti. Ma l’aspetto più bello del vigilare è il condurci alla
delicatezza dei rapporti, alla trasfigurazione del cuore, mettendolo in
guardia dalla tentazione di diventare cuore di pietra (Ez 36,26). Si
tratta di uno stile di vita che è prima di tutto dono di grazia, ma è
anche frutto della consapevolezza che siamo pellegrini verso uno
scenario nuovo (1Cor 5,1-10), e attendiamo, come nelle doglie del parto,
la rivelazione dei figli di Dio (cf LG 48). La Bibbia ci conduce ad una
interiorizzazione ricca di significato, vigilare è l’atteggiamento
fondamentale del credente. È desto chi attende e si adopera con fiducia
per un mondo che cambierà, pur sapendo che passa la scena di questo
mondo, perché Egli trasfigurerà il nostro corpo mortale (Fil 3,20-21).
La veglia non è solo uno stato
mentale, è un modo di vivere, coltivando l’attesa. Ciò aiuta a non
assolutizzare se stessi, e a cogliere con realismo i bagliori della
novità nella stessa opacità degli scenari della storia, come dice il
profeta: «Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde:
“Viene il mattino poi anche la notte, se volete domandare domandate,
convertitevi, venite!”» (Is 21,11-12). Bisogna coltivare il desiderio di
tornare a Betlemme, per ricordare il cielo. È un paradosso che Gesù
stesso ha vissuto nella sua vita così umana e così perfettamente divina!
Rimanere tra Betlemme e il cielo, ed essere presenti: «Non limitiamoci a
meditare solo la prima venuta, ma viviamo in funzione della seconda».3
Il senso dell’Avvento è anche la
scoperta di questa umile cooperazione che il Signore ci ha consegnato
per la nascita del mondo nuovo. Umile: perché radicata nella vita dei
piccoli della terra (Mt 25,45), e costruita sulla vocazione fondamentale
di tutti e di ciascuno: la vocazione all’amore (1Cor 13). Dunque,
radicata profondamente nell’humus,
ma con lo sguardo rivolto oltre.
Scendere nel cuore
Molti degli incidenti stradali
notturni, di cui si parla sui giornali, e tanti conflitti familiari
finiti in tragedia, sono frutto di un atteggiamento malato nei confronti
della vita. Che dire poi delle grandi scelte strategiche che si
concludono con massacri di popolazioni intere! Il cammino verso Betlemme
e la preparazione al Natale non possono presentarsi come semplice
folklore, devono condurci ad una riflessione profonda. È sano alimentare
domande che aiutano a crescere e a stare in guardia dalle fughe
costruite a tavolino: l’ossessione della carriera, l’immagine di un
corpo impeccabile e sempre giovane, la notorietà pubblica, il denaro
facile e abbondante, ecc. Tutti palliativi contro la consapevolezza che
non siamo Dio.
Eppure siamo a sua immagine:
«Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?» (Sal 90,12-13). Contare i nostri
giorni è un esercizio liberante, perché dispone ad una considerazione
nuova della storia.
I maestri di spiritualità c’insegnano
che la preghiera è un oceano di rigenerazione dove l’incontro con la
misericordia del Signore permette di vivere una sorta di trasfigurazione
continua: interrogarsi ma anche affidarsi per non cedere alla
desolazione. Quando il pellegrino va dallo
starets
per comprendere la pratica della
preghiera perpetua il maestro gli dice: «Ti è stato concesso di capire
che né la saggezza di questo mondo né un mero desiderio di conoscenza
conducono alla luce celeste dell’orazione perpetua, ma che al contrario,
essa si trova nella povertà di spirito e nell’esperienza attiva di un
cuore semplice».4 Nel viaggio verso Betlemme
la dimensione della ricerca, della fiducia, della lode non può mancare.
La preghiera aiuta a non rimanere
cardiolesi
e ci sollecita al discernimento:
«Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne a me lo spirito
di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la
ricchezza al suo confronto» (Sap 7,7-8). Come faceva Salomone, anche per
noi la sapienza va invocata, ricercata, riconosciuta, perché essa: «Pur
rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso i secoli, passando
nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti» (Sap 7,27).
La contemplazione della Natività di
Gesù è memoria della Sapienza che ha assunto la natura umana, e in
questo meraviglioso scambio
(Leone Magno) si rinnova
l’invito a ravvivare la coscienza della vita come viaggio. E nel
silenzio della vigilanza si comprende l’urgenza di costruire la
grammatica del dialogo che fa germogliare pace e giustizia, segni
visibili della terra che si apre al cielo: «Non con la spada infatti
conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma la tua
destra e il tuo volto, perché tu li amavi» (Sal 44,4).
1 S. PACOT,
Torna alla vita,
Queriniana, Brescia 2003, 85.
2 M. A. BULGAKOV,
Il maestro e Margherita,
Newton Compton, Roma 2009, 28.
3 «Dalle Catechesi di
S. Cirillo di Gerusalemme, vescovo», citato in
Liturgia delle Ore,
I, 139.
4 racconti di un
pellegrino russo, Rusconi, Milano 1977, 30.
Antonietta Augruso
Docente di Religione
Via Eurialo, 91 - 00181
Roma