n. 7-8-9
luglio-agosto-
 settembre 2010

 

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Promessa e libertà in San Paolo

di GUIDO BENZI

 

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"Se appartenete a Cristo,
allora siete discendenza di Abramo,
eredi secondo la promessa"

(Gal 3,29)

Avete assegnato alla mia relazione il titolo: "Promessa e libertà in San Paolo" ed io ho aggiunto come sottotitolo il versetto 3,29 della Lettera ai Galati: "Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa". Essere eredi di una promessa ci pone fuori da ogni logica di calcolo, e d’altra parte pone nella situazione di dover verificare nella libertà se la promessa può essere mantenuta. Metterci dunque di fronte alla promessa di Dio nel Signore Gesù Cristo ci mette al riparo da ogni calcolo di convenienza e ci pone di fronte, nella libertà, ad una relazione profonda di fede e fiducia.

"Non c’è un altro Vangelo!"

La Lettera ai Galati è una lettera molto importante, da alcuni ritenuta un po’ difficile, ma si adatta bene al tema che state svolgendo in questa vostra Assemblea, appunto il tema della promessa e la promessa in Cristo. Possiamo anzitutto partire da un versetto di Paolo, molto gustoso, anche un po’ problematico: "O stolti Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso!" (Gal 3,1). La traduzione della CEI è una traduzione elegante del testo, Paolo infatti dice anoetoi, una parola usata non tanto nelle accademie, quanto nella commedia. Significa "senza testa", senza nous, senza cervello.

E poi troviamo un altro termine popolare "chi vi ha incantati?", il verbo baskanizo, che indica l’affascinare di un mago o di una fattucchiera. È un termine un po’ offensivo, certamente sarcastico, nel senso che - dice - "vi siete proprio lasciati abbindolare da un mago da strapazzo".

"Proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Cristo crocifisso!". Il problema esegetico di questo versetto è il significato del verbo "fu rappresentato". Il senso generale lo capiamo: voi avete ricevuto il dono del Vangelo di Gesù ed invece siete andati dietro a delle chiacchiere superstiziose. Ma cosa intende Paolo quando dice: "fu rappresentato al vivo?" Alcuni commentatori pensano che Paolo utilizzasse delle immagini. Quindi Cristo è stato rappresentato: il verbo proegrapho tradotto letteralmente significa "scrivo davanti", ed in realtà il verbo indica anche "fare un disegno, un affresco". Paolo avrebbe fatto dei disegni? Credo proprio di no: sapete che l’ebraismo e di conseguenza anche il primissimo cristianesimo era aniconico, cioè senza rappresentazioni. Paolo non faceva quadri della passione di Gesù. Dobbiamo dunque pensare di dare a questo verbo una certa enfasi, nel senso di una interpretazione teatrale di alto profilo, la ripresentazione di un personaggio dunque, e sappiamo quale valore aveva il teatro nel mondo greco- ellenistico del tempo di Paolo. Egli mette qui in gioco se stesso.

"Ai vostri occhi, Galati, io ho ripresentato/rappresentato Gesù Cristo crocifisso non nel senso dell’ambasciatore, o del pittore, ma nel senso di colui che in un certo modo fa rivivere, ripresenta il dramma". In definitiva Paolo, rifiutato da queste comunità della Galazia, è come Gesù che è rifiutato dai suoi. Paolo è come "messo in croce", ma questa croce - sappiamo - nel pensiero paolino è grazia, e quindi l’Apostolo che dentro la comunità vive l’autorità per un servizio di autorevolezza, nel momento in cui viene in qualche modo contrastato ripresenta, interpreta Gesù crocifisso.

Questo versetto esprime proprio la configurazione di Paolo con Gesù. Pochi versetti prima aveva detto: "Sono stato (con)crocifisso - sunestauromai - con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me" (Gal 2,19-20). C’è una consegna da parte del Padre - come vedremo tra poco - del Figlio, una consegna per Paolo, e Paolo che si consegna a questa comunità, appunto come Gesù si è consegnato. Voi avete messo come titolo al vostro convegno "In Cristo per umanizzare la vita": Paolo ci parla di una umanizzazione che non viene tanto dall’esterno, ma che viene dall’interno e che noi per così dire "respiriamo" attraverso l’incarnazione del Figlio. Il Concilio Vaticano II ci dice in Gaudium et Spes 22 che in Gesù noi scopriamo il vero volto dell’uomo, la vera immagine di Dio che è stata scolpita nell’uomo. Paolo questa dottrina, nel 55 d.C., quindi appena pochi anni dopo la morte di Gesù, l’aveva già capita e la esprime con lucidità. Ecco, è proprio in questo quadro così importante che possiamo condurre la nostra riflessione.

Stabili nella fede

Qual è dunque il contesto della Lettera ai Galati? Lo si capisce bene dai primi versetti (Gal 1,1-10). Queste comunità avevano accolto Paolo in un momento di malattia (egli stesso ne fa un breve cenno in 4,13), e Paolo ha comunicato il suo Vangelo, il Vangelo di Gesù salvatore, l’unico salvatore: nessuna opera di religione, nessun precetto, neppure la circoncisione (che era per gli ebrei il segno dell’alleanza) può liberarci come Gesù ci libera, noi non possiamo liberarci da soli. Le opere acquistano significato solo come opere della fede, cioè come risposta di conversione e di amore alla gratuita e preveniente grazia della salvezza che abbiamo in Gesù, nella sua passione, morte e risurrezione.1

Dopo l’evangelizzazione della Galazia, Paolo prosegue la sua missione, ma viene a sapere, probabilmente a Corinto (alcuni dicono a Efeso), che queste comunità hanno subìto una contromissione, da parte di alcuni cristiani giudaizzanti, cioè ebrei convertiti al cristianesimo che però imponevano come elemento essenziale per la salvezza l’osservanza della circoncisione e delle tradizioni giudaiche. Qui si tratta di una questione delicata e complessa delle prime comunità cristiane. Il fatto cioè di sottomettere la liberazione che viene dal Vangelo alla pratica della Legge: Gesù ci libera, ma solo se entriamo nell’Alleanza di Abramo, e dunque se viviamo la circoncisione, se eseguiamo le opere della Legge. Paolo reagisce vigorosamente a quella che appare come una limitazione del dono di libertà e salvezza che viene solo da Gesù Cristo e che non può essere sottomesso a nessun elemento di cultura religiosa.

Paolo lo dice in modo chiaro: "Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo" (Gal 1,6-7). Questo inizio della Lettera ai Galati è certamente forte, e ci dice come Paolo sia angosciato, preoccupato, offeso. Non c’è un altro Vangelo, non c’è nulla che liberi come Cristo libera, anzi! Non esiste nessuna libertà, se non nella libertà che è portata in Cristo.

Potremmo già qui fare una riflessione che riguarda l’idea di una stabilità nella quale si riceve la promessa. Paolo dice ai Galati che per gustare la libertà in Cristo si deve essere stabili: la stabilità nella fede. Questo non significa non essere dei cercatori di Dio, delle persone che s’interrogano e indagano, che cercano con la propria ragione, ma anche con la propria emotività e con la propria vita, di capire sempre di più qual è la promessa di libertà che il Signore ci consegna. Tuttavia Paolo ci dà subito un criterio, il criterio della stabilità, che non è un criterio esterno, non si tratta della stabilitas che raccomandava san Benedetto ai suoi monaci.

Si tratta di una stabilità interiore, cioè l’ascoltare una chiamata, una chiamata che certamente ha preso la forma di una vita religiosa, ma prima ancora di essere tale è una chiamata posta dentro la nostra esistenza. Cioè, come cristiani, e ancor più come consacrati, dobbiamo sentire quello che dice il profeta Geremia all’inizio del suo libro: dal grembo di nostra madre siamo stati chiamati (Ger 1,5-10). L’uomo e la donna, per noi cristiani, non sono il risultato di una concatenazione biologica, ma l’uomo e la donna, ciascuno ed ognuno, siamo dei chiamati e chiamati alla vita spirituale. Dio in modo misterioso è intervenuto nell’accendersi della nostra vita biologica e laddove si formavano le cellule che sarebbero diventate il nostro corpo, Dio ha creato la nostra anima.

Il timbro spirituale che portiamo è un intervento diretto del Dio creatore. Paolo questo lo sente molto, tant’è vero che descrive la sua vocazione (o conversione) di Damasco proprio come un atto creativo di Dio: "E Dio, che disse: "Rifulga la luce dalle tenebre", rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo" (2Cor 4,6). Paolo ci mostra la rivelazione di questa origine che ogni uomo ha in Dio. In nome di questa stabilità Paolo dice che Cristo è venuto a liberarci; non ci ha liberato soltanto dagli obblighi, non ci ha liberato soltanto da una oppressione fideistica che poteva nascere da sensi di colpa, cioè non è un effetto di purificazione esterna, quello che ha operato Gesù! Egli ci ha ridato fermezza in questa vocazione originale ed originante, ci ha ridato confidenza in Dio.

Come Abramo ebbe fede

I capitoli centrali della Lettera ai Galati sono straordinari per capire il tema della libertà. Sono i capitoli 3, 4 e 5, là dove Paolo comincia ad argomentare proprio la liberazione che Cristo ha portato. E direi che questi capitoli possono essere esposti proprio con questi tre passaggi: il radicamento della promessa (Gal 3), la modalità spazio-temporale della promessa (Gal 4), l’identità stessa della promessa (Gal 5).

Il capitolo 3 è dunque quello del radica mento: Paolo, per dire come Cristo ci ha liberati, non fa un discorso teologico sulla vita di Gesù. A parte che siamo ancora in un tempo in cui le comunità cristiane respiravano testimonianze dirette su Gesù. Siamo nel 55 d.C.: esistevano ancora persone che avevano conosciuto Gesù, e Paolo, che non l’aveva conosciuto può portare anche la loro testimonianza. Pur non avendo bisogno del racconto sulla vita di Gesù in forma scritta, Paolo va ad attingere alle Scritture, all’Antico Testamento, il radicamento della promessa di libertà. Infatti, nel capitolo 3 si occupa della discendenza di Abramo: "Come Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia, riconoscete dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede. E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunciò ad Abramo: In te saranno benedette tutte le nazioni. Di conseguenza, quelli che vengono dalla fede sono benedetti insieme ad Abramo, che credette " (Gal 3,6-9).

Qual è l’argomento di Paolo? Il radicamento della promessa non è un codice legislativo, né un’operazione di fondazione religiosa così sublime come quella di Mosé, ovviamente ispirato da Dio. Esso viene prima di Mosè ed è posto nel fatto che un uomo si è fidato di Dio.

Nel capitolo dodicesimo della Genesi, dove incomincia la storia di Abramo, troviamo proprio all’inizio un vero passaggio, un vero cambiamento. Fino al capitolo 11 c’è tutta una storia di peccato e di progressivo ed inesorabile allontanamento da Eden: si parla del peccato originale, cioè il primo e radicale allontanamento di sfiducia operato dalla creatura, una sfiducia che opera il crollo dei rapporti tra la creatura e Dio suo creatore, tra la creatura e le creature; poi si parla di Caino ed Abele, quindi del peccato che dilaga nella compagine sociale: la storia di Noé e della torre di Babele.

In questo crollo. Abramo senza nessun motivo esterno (non c’è il tema del castigo e del diluvio come nella storia di Noè) recupera il rapporto frontale con Dio, un rapporto di chiamata. Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia. Qui Paolo cita Genesi 15,6. Che cosa riguarda questa promessa? Non si tratta della terra, né della libertà; si tratta della discendenza. Nel mondo antico avere un figlio era la condizione del possesso della terra e dell’identità che fonda la libertà. Un uomo senza figli, senza discendenza era senza futuro. Non è un caso che la promessa prende nella Bibbia spesso la "forma" di un figlio.

"E alla tua discendenza"

Questo aspetto è importante anche per dire la spiritualità cristiana, che è una spiritualità di relazione, ancor più, una relazione generante. La spiritualità cristiana non è, se non genera. Ovviamente, non è soltanto la generatività biologica, è una generatività più forte, più interiore, che comincia dal generare il vero uomo, la vera donna. Questa promessa del generare un figlio ritorna nella Bibbia. Ad esempio in 2 Samuele 7, Davide si presenta come un altro Abramo. Qui non c’è il problema della sterilità, egli ha già molti figli, ma vuole costruire il tempio, pensandolo più o meno come una cappella della sua reggia. Forse c’è anche un certo calcolo politico... Il profeta Natan applaude al re: Sì, grande Davide, hai costruito il regno, adesso fai anche il tempio. Ma nella notte Dio si rivela al profeta e gli dice di andare da Davide e dirgli: non tu farai una casa a me, ma io darò a te un casato.

C’è questo gioco di parole. Il profeta continua: "Un figlio nato dalle tue viscere mi costruirà il tempio". E qui appare un altro aspetto della promessa: essa è sempre davanti a noi, ma si distanzia perché è oggetto non del possesso, ma del desiderio. Ricordiamo che la narrazione della storia di Mosé occupa ben quattro libri biblici. Eppure Mosè non entra nella terra promessa! Dio gliela fa vedere da lontano, dal monte Nebo. Così anche Abramo: "Ti darò tutta questa terra… ". Poi Abramo muore possedendo solo 2 metri quadrati di terra: è la tomba dove lui verrà seppellito con Sara, pagando una cifra esorbitante agli Ittiti. La promessa è davanti a te, è una promessa di generatività, una promessa che esce da te, ma che si realizza in una vita "altra". Perché un figlio è qualcosa che ti appartiene, ma non è "tuo": per la madre il figlio è stato per nove mesi una parte di sé e la madre è stata per nove mesi parte del figlio.

Per il figlio, il padre s’identifica col mondo: è il primo "altro da sé" che il bambino conosce. È il mondo, è la vita. Quindi un figlio ti appartiene, ma è anche "qualcun altro", e non crescerà equilibrato se i genitori per primi non riconosceranno ed educheranno questa sua "alterità". La promessa si realizzerà se esce da te e non la tieni inglobata in te stesso.

Paolo dice: Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia. La fede di Abramo è proprio questa fede estroversa, questa capacità di uscire da sé e di donarsi in una relazione con Dio. Dunque, il radicamento della promessa è una dimensione di figliolanza e qui Paolo affronta tutto il problema, del rapporto tra legge e promessa: "Fratelli, ecco, vi parlo da uomo: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: "E ai discendenti", come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo. Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una Legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa" (Gal 3,15-17).

Dal pedagogo al Cristo

Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla Legge, non sarebbe più in base alla promessa. Dio invece ha fatto grazia ad Abramo mediante la promessa. Paolo con un raffinato gioco di esegesi ebraica dice: la Legge di Mosé non è superiore a questa promessa originaria, ma ne dipende. La Legge è stata data perché Israele non riusciva ad essere fedele al desiderio segnato da questa promessa originaria. Dunque la Legge - dirà Paolo - evidenzia il peccato, evidenzia la fragilità. Noi abbiamo bisogno di una Legge perché il comportamento che essa sancisce è un comportamento dannoso. Il giudaismo farisaico, che fondava sull’applicazione della Torah, facendone il punto forte d’identificazione, viene sfidato da Paolo rimandando ad Abramo e non a Mosè.

Perché allora la Legge? Essa fu data a motivo delle trasgressioni (Gal 3,19). È quello che abbiamo detto: una legge trova il suo senso rivelando il peccato. Dunque, la Legge non può liberare. Leggiamo in Paolo: "Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa" (Gal 3,23-29).

C’è un essere battezzati in Cristo, quindi sacramentalmente immersi nella promessa, e un rivestirsi di Cristo, quindi anche una partecipazione nostra. Questo è il tesoro che abbiamo, non le opere giuste e doverose che compiamo. Esse prendono importanza alla luce della grande notizia che Paolo comunica: essere battezzati e rivestiti di Cristo. Questo evidenzia che siamo generati ad un Vangelo di libertà.

Generati al Vangelo di libertà

Il capitolo 4 della Lettera ai Galati delinea la modalità spaziotemporale della promessa. Paolo la esprime attraverso il tema della figliolanza: "Dico ancora: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, benché sia padrone di tutto, ma dipende da tutori e amministratori fino al termine prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo" (Gal 4,1-3). L’espressione elementi del mondo è strana, non si sa bene cosa fossero queste idee sincretiste alle quali facevano riferimento i Galati, probabilmente si collegavano le feste religiose ebraiche ai tempi astrali; quindi gli elementi del mondo potrebbero essere il lunario, il calendario, anche una certa astrologia, cioè, "pratiche" religiose.

Ad esse Paolo contrappone: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: "Abbà! Padre!". Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio" (Gal 4,4-7). Paolo parla della promessa e del suo compimento, usando il linguaggio del concepimento e della nascita. Pleroma significa pienezza ed il suo compimento che si rivela dall’interno, esattamente come il grembo gravido della donna agli ultimi mesi di attesa. Il kronos è il tempo reale, quello degli orologi, dei calendari: è come se Paolo dicesse "quando venne un tempo incinto", quella "pienezza del tempo" non è semplicemente l’arrivo al traguardo, è lo svelamento e la rivelazione piena ed insieme straordinaria della promessa.

Il luogo, lo spazio e il tempo della promessa non sono dunque qualcosa di esterno. Cristo è la pienezza della storia, il suo svelamento più profondo, perché radicato nell’insondabile ed inesprimibile promessa di Dio; quella storia ad un certo punto – come dicono i profeti - era una donna incapace di generare, sterile. Sembra di ascoltare quella poesia di Orazio (uno dei vertici del pensiero pagano): una schiava mentre gli versa il vino nella coppa lo interroga sul futuro e lui le risponde di non interrogare il domani, di essere saggia, e le dedica il famoso "carpe diem" "cogli l’attimo".

Questa è la storia nel senso pagano: un "attimo fuggente". Ed invece dice Paolo che è avvenuto il riempimento del tempo, il pleroma del kronos, cioè la storia "partorisce" una novità. È chiaro per noi credenti il riferimento a Maria, anche se probabilmente Paolo non vuole fare un discorso mariologico: l’espressione "nato da donna" potrebbe essere solo generale, cioè indicare l’effettiva umanità del figlio. Ma noi possiamo riconoscere che qui Paolo sta dicendo qualcosa che si è effettivamente realizzato in Maria, in colei che ha detto "sì" per prima e ha detto quel "sì" assoluto per cui tutta la storia, ad opera dello Spirito Santo, è diventata una storia di novità, di parto, di promessa mantenuta.

Una libertà "liberata"

"Nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli". Qual è allora la promessa? Essa possiede una identità: il Figlio mandato da Dio. E prosegue: "Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: "Abbà! Padre!"": è lo stesso atto divino.

Come il Verbo, la seconda persona della santissima Trinità, si è incarnato nel grembo di Maria vergine e la storia ha potuto dire: "ecco qui finalmente c’è qualcosa che mai prima avevamo udito e mai prima avevamo visto", così è l’inabitazione dello Spirito nel cuore dei credenti. È la stessa operazione: Dio mandò il suo Figlio, Dio mandò lo Spirito.

Paolo fa un’equazione. L’identità della promessa non è soltanto un Figlio, il Figlio, cioè Cristo, e attraverso di lui, qualcosa di più: il poter essere noi figli come Cristo è Figlio. Da Cristo in poi ogni bimbo è una novità nella storia, come lo è stato Cristo. Per questo noi possiamo dire che ripetiamo in noi la promessa. Ognuno di noi è la promessa, la nostra vita, la vostra vita consegnata anche attraverso la consacrazione è la promessa. Ogni peccatore che torna alla casa del Padre può essere riconosciuto e ristabilito come figlio, può essere perdonato e rigenerato nell’amore, perché ora la promessa è più forte e determinante della Legge. La libertà dei cristiani non è una "libertà condizionata". Per questo Paolo potrà dire: "Cristo ci ha liberati per la libertà" (Gal 5,1). Non è una liberazione sociologica o un affrancamento soltanto ideale: è l’averci consegnato questa identità d’origine per cui non siamo più figli della schiava Agar, ma della promessa, siamo i figli della donna libera, Sara.

Essere figli della promessa significa, dunque, sentire che la liberazione che Cristo ha operato in noi è autentica perché ci consegna la nostra origine. Dice Paolo: "Quanto a noi, per lo Spirito, in forza della fede, attendiamo fermamente la giustizia sperata. Perché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5,5-6). Sembra di ascoltare Giovanni: "In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre" (Gv 14,12). Il cristiano, ogni cristiano non è semplicemente un imitatore di Gesù, è un alter Christus. Ne compirà di più grandi non perché Gesù ha fatto un miracolo e noi ne facciamo tre, ma perché noi possiamo, per sua grazia e nello Spirito Santo, ripetere questa novità dentro la storia. La vita di Gesù, la vita per, con e in Cristo, allora diventa la possibilità di moltiplicare le novità dello svelamento della promessa nella storia. Voi farete cose più grandi. Questa novità può diventare un progetto di vita.

Promessa, libertà e vita religiosa

Per concludere. C’è un progetto depositato nella mia vita, quindi posso riconciliarmi con la morte: la promessa sgorga dalla mia vita, so di avere un futuro, un domani. Ma la proposta della Scrittura è ancora più radicale perché a riconciliarsi con la morte ci hanno provato un po’ tutti, come dimostra anche il pensiero di Freud. Gli antichi si riconciliavano con la

morte attraverso l’idea dell’eroismo che portava gloria e fama: "è bello morire per la patria". Non tutti sono capaci di morire da eroe, ma tutti ci provano. Rimaneva però un grande interrogativo sulla fragilità della vita.

La Bibbia non solo ci chiede di riconciliarci con la morte, ma con la nascita e non essere più come Giobbe o Geremia che davanti alla sofferenza maledice la sua nascita: "Maledetto il giorno in cui io nacqui… perché non mi fece morire nel grembo; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre " (Ger 20,14-18).

Riconciliarsi con la nascita. Sono anch’io nato nella fragilità: non allattato, non accudito, non curato nei primi mesi di vita sarei morto… Adesso sono un eroe, ma lo sono diventato perché sono nato nel limite, cioè nella fragilità accolta dall’amore. Riconciliarsi con la nascita è più faticoso che riconciliarsi con la morte. E la nascita nessuno se la può dare da solo. Purtroppo, in un atto estremo, noi potremmo anche darci la morte. Ma la nascita non se la può dare nessuno. Solo Gesù, nella pienezza del tempo ci ha consegnato questa novità. Egli dice a Nicodemo: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio" (Gv 3,3).

La vita religiosa mi sembra che sia proprio dentro questo progetto di libertà: non siamo custoditi dalle nostre regole, bensì dalla promessa di libertà. Questa è la vita religiosa: una promessa di libertà che entra dentro le cose, dentro la vita e ce la fa vedere con lo sguardo dello Spirito.

Terminiamo con una pagina di santa Teresa di Lisieux, riferendosi al viaggio in Italia: "Non riesco ancora a capire perché le donne in Italia vengano scomunicate così facilmente. Ad ogni piè sospinto ci si diceva: "Non entrare qui, non entrare là, sarete scomunicate". O, povere donne, come sono disprezzate! Tuttavia amano il buon Dio in ben maggior numero che non gli uomini e durante la passione di nostro Signore le donne ebbero più coraggio degli apostoli perché sfidarono gli insulti dei soldati ed osarono asciugare il volto adorabile di Gesù" (Storia di un’anima, Manoscritto A, 184).

1 Per approfondire questo tema si può vedere la felice sintesi del Catechismo della Chiesa Cattolica ai nn. 1987-1995.

Guido Benzi
Biblista e Direttore Ufficio Catechistico Nazionale
Circonvallazione Aurelia 50
00165 Roma

Bibliografia

FABRIS, R., Paolo l’apostolo delle genti, Paoline, Milano 1997.

PITTA, A., Lettera ai Galati, Dehoniane, Bologna 1997.

VANHOYE, A., Lettera ai Galati, Paoline, Milano 2000.

BENZI, G., Paolo e il suo Vangelo, Queriniana, Brescia 2001.

UCN-SETTORE APOSTOLATO BIBLICO, In cammino con San Paolo, Elledici, Leumann (Torino) 2008.

BIANCHINI, F., Lettera ai Galati, Città Nuova, Roma 2009.

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