Nel
1970, un oncologo, Van Rensslaer Potter pubblica sulla rivista
Perspectives in Biology and Medicine
un
articolo intitolato:«Bioethics. The Science of Survival»: l’anno
dopo costituisce il primo capitolo del suo libro
Bioethics. Bridge to the Future.
Il sorgere della
bioetica
Nasce così il termine bioetica per definire una nuova disciplina: la
radice
bio
rappresenta la conoscenza biologica, il termine
etica
indica la conoscenza dei sistemi dei valori umani. Nella sua
prospettiva, Potter era convinto che, per la sopravvivenza umana, fosse
necessario considerare insieme il sapere scientifico e quello
umanistico, poiché leggeva il progresso scientifico-tecnologico un
pericolo per l’umanità e la stessa sopravvivenza della vita sulla terra.
Infatti designa la bioetica come la scienza della sopravvivenza, la
Science of Survival
del
titolo del suo articolo. Naturalmente, il pericolo non era il progresso
considerato in toto, ma le degenerazioni che potevano nascere da un
cattivo uso delle nuove potenzialità che l’uomo aveva a disposizione.
L’unica soluzione doveva essere realizzare un ponte
(Bridge)
tra
le due culture, quella scientifica e quella morale; una bioetica, che
nella prospettiva di Potter, doveva considerare l’appropriatezza di ogni
intervento scientifico sulla vita in generale. Questa esigenza sollecitò
un famoso ostetrico di origine olandese Andrè Hellegers a fondare il
Kennedy Institute of Ethics of Human Reproduction and Bioethics, nel
1971, presso la Georgetown University a Washington, per realizzare un
dialogo tra medicina, filosofia, etica. Così il termine bioetica entra
nel mondo universitario.
Questa visione della bioetica, come disciplina applicata alle scienze
biomediche, influenza la definizione del termine apparsa nell’edizione
del 1978 della
Encyclopedia
of
Bioethics,
pubblicata dal Kennedy Institute, ove si configura come «studio
sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e
della salute, in quanto esaminata alla luce di valori e principi
morali».
In
Italia, mons. Elio Sgreccia pubblica nel 1988 il
Manuale di Bioetica,
riedito più volte, che conserva
ancor oggi tutta la sua validità.
Nel
1985 era stato istituito il
Centro di Bioetica, cui si affiancherà
nel
1992 l’Istituto di Bioetica,
nella Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore. Unitamente alla rivista
Medicina e Morale,
il cui direttore è lo stesso Sgreccia, queste iniziative e le successive
pubblicazioni, che estenderanno la loro importanza e influsso anche in
ambito internazionale, contribuiscono in modo notevole nel nostro Paese
al dibattito sulla bioetica.
L’oggetto di studio
Si
può definire l’oggetto di studio della bioetica, nei suoi aspetti
riguardanti la vita umana, con le parole di Giovanni Paolo II della
Lettera enciclica
Evangelium vitae.
Il Papa ribadisce che - accanto alle minacce della vita quali:
l’omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e le altre forme
storiche di offesa alla dignità umana - «la stessa medicina, che per sua
vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni
suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare atti contro la
persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice se stessa e
avvilisce la dignità di quanti la esercitano» (EV 4).
Queste minacce alla vita umana derivano dal progresso scientifico che
permette all’uomo di manipolare lo stesso sorgere della vita. Come
denuncia la
Carta degli
Operatori Sanitari
del
Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari che
afferma: «Le conoscenze sempre più estese del patrimonio genetico
(genoma) umano, l’individuazione e la mappatura in atto dei geni, con la
possibilità di trasferirli, modificarli o sostituirli, apre inedite
prospettive alla medicina e contemporaneamente pone nuovi e delicati
problemi etici» (n. 12).
I
nuovi problemi però non riguardano solo la nascita, ma il rispetto della
vita umana in ogni sua fase e situazione. Accanto al progresso
scientifico occorre anche sottolineare un diverso
ethos
culturale che dà meno valore alla vita umana nelle condizioni di
disabilità e anzianità; nella fase terminale di una malattia, fino a far
apparire la vita come un “bene disponibile” affidato alla volontà
personale. Di conseguenza, minacce non meno gravi incombono sui malati
inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che,
rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la
tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla
radice, con l’anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno.
In
questo contesto si colloca la bioetica, che nel suo riflettere sul
significato e il valore della vita umana, si pone come disciplina che si
prefigge di stabilire i criteri fondamentali, perché gli interventi
sulla vita umana siano sempre a misura dell’uomo stesso. Secondo
Giovanni Paolo II la bioetica deve essere una riaffermazione precisa e
ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, un appello
in nome di Dio a rispettare, difendere, amare e servire la vita, ogni
vita umana (cf EV 5).
Alcuni principi
Naturalmente, nel formulare un giudizio etico, assume un’importanza di
base il riferimento a un sistema di principi su cui fondare le
argomentazioni. Qui si farà riferimento ai due sistemi più diffusi: il
sistema dei principi nordamericani e la bioetica personalista.
Quando si parla del
sistema
dei
princípi
si
fa riferimento a T. L. Beuchamp e F.F. Childress, autori del volume
Principles of biomedical
ethics,
(trad. in italiano:
Principi di etica biomedica).
Tali Autori propongono l’utilizzo di tre principi - autonomia,
beneficialità/non maleficenza, giustizia – per risolvere le controversie
etiche nelle situazioni pratiche.
Il
principio di
autonomia
sottolinea la libertà della persona malata che deve poter esprimere il
proprio consenso autonomo e informato e poter scegliere un trattamento
medico basato sui valori personali. Basti pensare al rifiuto consapevole
delle cure, alla comunicazione della verità sulle reali condizioni
cliniche, all’espressione di richieste di sospensione di eventuali
terapie. Naturalmente possono esistere delle obiezioni se si pensa che
non può esistere una autonomia illimitata e, ancor più rilevante, se si
pensa all’impossibilità di poter esprimere una propria scelta nelle
situazioni di non consapevolezza.
Il
principio di
beneficialità/non
maleficenza
trova le sue radici nella tradizione ippocratica, per la quale il medico
s’impegna a non far nulla che possa danneggiare il suo paziente, ma,
attraverso l’elementodella beneficialità, a prevenire la sofferenza e ad
agire avendo come fine il bene del paziente. La non maleficenza richiama
stati clinici come l’accanimento terapeutico, cioè il caso di terapie
eccessive nella situazione clinica ormai irrecuperabile della persona
malata; la beneficialità richiama situazioni quali la terapia del dolore
e la donazione degli organi. La difficoltà maggiore che tale principio
sottende è nel definire il bene e il male in assenza di una teoria etica
di riferimento, motivo per cui si può generare una condizione di
conflitto con il principio di autonomia nel momento in cui l’idea del
bene del medico curante non coincide con quella del paziente.
Il
principio di
giustizia,
infine, richiede di valutare casi uguali allo stesso modo,
razionalizzando gli interventi medici allo scopo di garantire le cure a
ogni paziente. Anche in questo caso si possono sollevare obiezioni sia
sulla possibilità di casi clinici da poter valutare uguali sia sulla
mancanza di un criterio oggettivo che consenta di determinare il minimo
delle cure da garantire e le priorità da rispettare nella allocazione
delle risorse, molte volte limitate.
Quale antropologia?
Le
critiche che si muovono a questi principi è che sono puramente formali,
perché non viene mai affermato che cosa si debba in tendere
praticamente per autonomia e giustizia o quale sia il bene o il male per
la persona. Ciò è reso ancora più evidente per la mancanza di una chiara
gerarchia fra essi, la quale permetta di risolvere le situazioni
conflittuali, per l’assenza di una antropologia di riferimento.
Nell’ambito del modello personalista, che troviamo nell’opera di E.
Sgreccia, il riferimento ai princípi risulta inserito nel quadro teorico
unitario del personalismo ontologicamente fondato, nel quale il centro
della decisione etica è la visione unitaria della persona. Il principio
diviene così una chiave di lettura delle singole situazioni reali e il
riferimento alla globalità della persona determina una gerarchia di
principi che evita le situazioni di conflitto.
Il
personalismo vede nella persona un’unità, una unitotalità di corpo e
spirito che rappresenta il suo valore oggettivo. Di fronte ad ogni
riflessione, la persona si presenta come punto di riferimento, fine e
non mezzo, realtà trascendente per la società, l’economia, il diritto.
La rivelazione cristiana, con la verità della creazione, dà poi a questa
visione personalista un ampliamento di orizzonti e di valori che tocca
il divino.
La
bioetica personalista analizza, nella determinazione della liceità di un
intervento sull’uomo, tre diverse componenti: analisi del dato biomedico
nella sua fondatezza scientificamente accertata; approfondimento
antropologico-filosofico, ossia l’insieme dei valori riferiti alla vita,
all’integrità e alla dignità della persona; la soluzione del problema
etico, cioè l’individuazione dei valori da tutelare e delle risorse da
rispettare in rapporto alla centralità del valore persona ed alla
gerarchia dei valori in essa armonizzati. Dal momento del concepimento
fino alla morte, in ogni situazione di sofferenza o salute, la persona
deve essere punto di riferimento e di misura tra il lecito e non lecito.
Un’ultima considerazione: oggi i Comitati Etici, costituiti da un’équipe
di esperti multidisciplinari sono chiamati a risolvere i problemi etici
che possono sorgere in determinati contesti (istituti assistenziali,
istituti di ricerca, laboratori, ecc.).
Massimo Petrini
Università Cattolica Gemelli – Roma
petrinimassimo.m@libero.it