n. 5
maggio 2012

 

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Lo sguardo di Cristo cambia la realtà
Una suora francescana in trincea

MARCELLA CATOZZA

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«Vai a Waf Jeremie e porta Cristo e la Chiesa alla mia gente». La proposta del vescovo è diventata la bussola per la mia missione.* Dopo dieci anni passati in Albania e cinque in Amazzonia, da sette mi trovo ad Haiti. L’estrema miseria che ho conosciuto qui non l’ho vista da nessuna parte: Haiti è il Paese più povero dell’emisfero occidentale e tra i più poveri in assoluto al mondo. La morte è una presenza costante, eppure intorno a me vedo volti di gente che sorride. E gli occhi dicono che una possibilità più grande esiste e che persino il terremoto – per quanto doloroso e devastante - non ha l’ultima parola sulle persone.

*Testimonianza tenuta a Lecco (ottobre 2011) su invito del gruppo missionario locale. Testo raccolto da Gerolamo Fazzini e pubblicato nella rivista Mondo e Missione, n. 2/2012, 56-59; lo riprendiamo col consenso della direzione della rivista.

Nell’inferno di Haiti

Waf Jeremie è una baraccopoli alla periferia di Port-au-Prince, sorta una ventina di anni fa su una discarica comunale, ad opera di disperati che volevano essere i primi ad avere accesso ai carretti che scaricavano i rifiuti. Sulla carta accoglie 70.000 persone, in realtà sono tre volte tanto. Lo Stato qui non esiste. Ufficialmente, quindi, nemmeno queste persone esistono: nessuno si occupa di loro, dei loro desideri di libertà, di speranza, di bellezza.

Quando vi sono arrivata quasi sette anni fa, mi sono presentata all’arcivescovo Miot chiedendo come avrei potuto servire Cristo e la Chiesa. Egli mi chiese di entrare in questo quartiere. Rimasi molto perplessa davanti alla proposta: da dove potevo incominciare? Si sa che questo è uno dei posti più pericolosi della capitale, dove le bande armate la fanno da padrone… Solo il fatto che io sono bianca mi faceva vedere l’idea come una pazzia. L’arcivescovo mi sorprende dicendo: «Vai a Waf Jeremie e porta Cristo e la Chiesa alla mia gente».

Questo ha spazzato via ogni incertezza. Non risolveva il problema (noi bianchi continuavamo a non poter entrare), ma mi metteva davanti al compito della mia vocazione. La questione diventava una sfida sull’essenziale: «porta Cristo e la Chiesa». Per un missionario questo è il compito. Lo è per tutti, ma specificamente per chi è scelto da Cristo per portare il suo abbraccio agli uomini di tutto il mondo. Capivo allora che le parole dell’arcivescovo erano quanto di più bello e vero mi potesse capitare nella vita. Era la Chiesa che mi stava mandando ad annunciare Cristo a chi non esisteva neppure per il proprio governo.

I cancelli si sono aperti

Ogni situazione ci costringe a dire un sì. E l’occasione che l’arcivescovo mi ha offerto ha spalancato a me e a un’altra suora la possibilità di entrare in questo quartiere. Neanche il colore della mia pelle, a quel punto, era più un problema: se ho un mandato così grande - mi dicevo - il buon Dio ci indicherà la via. Ci sono voluti tre mesi. Tutte le mattine arrivavamo all’ingresso della baraccopoli e non ci lasciavano entrare. Pian piano abbiamo cercato di rapportarci con la gente del posto. Senza la pretesa che capisse perché eravamo lì, ma semplicemente con la docilità di chi sta obbedendo ad un disegno di un Altro. «Questa missione non è mia, mi è stata data», mi dicevo. E pregavo la Madonna che guidasse i nostri passi.

Poi, un giorno, un tifone spazza via una parte di baracche e trascina con sé sette neonati e un anziano malato. La gente mi chiede aiuto. Ma cosa posso fare? Solo stare accanto a una donna che aveva perso il suo bambino, chiedendo al buon Dio che usasse la mia umanità per abbracciare lei e il suo dolore. L’aver passato una giornata a cercare nel fango le persone ci aprì le porte. La gente non si sentiva più abbandonata. Da quel giorno i cancelli si sono aperti per noi e per i nostri amici venuti a condividere questo cammino.

Appena entrate, ci siamo rese conto che lì c’era bisogno di tutto. Le case sono baracche senza luce, acqua, fognature... Ci vive un ammasso di gente che cerca di arrivare a sera, immersa in una disperazione che è data soprattutto dal percepire l’abbandono, l’incapacità di cambiare la circostanze faticose in cui si vive.

Mi sono detta: come posso rispondere? Grazie all’amicizia con un medico lombardo, il dottor Gianfranco Dedivitiis, decidiamo di aprire un ambulatorio pediatrico in un ex deposito di carbone. Un giorno, mentre sto verniciando i muri, arriva un giovanotto che mi toglie di mano il pennello e va avanti a verniciare. Gli dico: «Meglio che te ne vada, non ho soldi per pagarti». Ma lui replica: «Se lo fai tu per il mio Paese lo posso fare anch’io». Si chiama Lucien; a lui si affiancano il fratello Alex, poi James e altri… Insomma, in poco tempo si è formato un piccolo gruppo di giovani intorno a me.

In ginocchio con Haiti

Lucien ora non è più con noi, è stato barbaramente ucciso da chi nella baraccopoli non ci vuole bene e ha voluto punirlo per la scelta di aver messo le sue energie in qualcosa di bello. Era il mio braccio destro, punto di riferimento per i ragazzi. Aveva 40 anni. Davanti al suo cadavere massacrato, sulla strada, la prima reazione è stata quella di dire: «È finito tutto, il male è veramente troppo». Ma l’unica ipotesi vera è che la vita ha in serbo un destino buono per ciascuno. Dopo il primo momento di smarrimento, sono caduta in ginocchio. Ho chiamato il nunzio, gli ho raccontato quello che era successo. Non chiedevo una soluzione, ma avevo bisogno di essere confermata che quella morte non era l’ultima parola.

Sì, perché la vita è una continua provocazione. Lo è stato anche il terremoto, devastante, del 12 gennaio 2010: 300.000 morti, il 75% del centro città crollato, 17 ministeri su 18 distrutti... Enormi anche le perdite per la Chiesa, tanto in persone (a cominciare dal vescovo) quanto in strutture (la cattedrale, molte parrocchie, i tre seminari, le scuole cattoliche, la radio…). Haiti è in ginocchio e noi con Haiti. In quel periodo mi trovavo in Italia per accompagnare mia mamma al suo destino: aveva avuto una diagnosi di tre settimane di vita ed è morta la notte di Natale. Il giorno del terremoto provo a mettermi in contatto con i miei ragazzi. Invano. Decido allora di aggregarmi all’intervento di emergenza promosso dalla Regione Lombardia per Haiti. Al mio arrivo, incontro una città distrutta: gente che vagava sotto shock in cerca di amici e parenti... Arrivo là con il dolore del cuore per la morte della mamma, al quale si aggiunge una nuova sofferenza per quanto vedo intorno a me. Difficile, se non impossibile, trovare un appiglio per ricominciare.

A Waf Jeremie sono cadute solo le poche case, ma le baracche sono in piedi. Ovunque, però, genitori, mogli, mariti sperano che i loro cari siano ancora vivi da qualche parte, in qualche ospedale… Ma l’ambulatorio è crollato. Arriva Lucien, con una gamba rotta; i ragazzi ci sono tutti, stanno bene. Vedendo quello che è successo, mi rendo conto che non posso più fare niente. Ci vuole qualcuno molto capace, con più possibilità. «Non sono io la persona indicata», mi dico. Quasi mi dimentico il motivo per cui ero lì: il mandato dell’arcivescovo, «porta Cristo e la Chiesa». So di non essere utile professionalmente, ma è allora che sento di essere chiamata a portare qualcosa che nessun altro può portare.

Ho capito l’essenziale

Mentre sto pensando a queste cose, arriva la mamma di un ragazzo, piangendo e cantando una nenia locale. «Adesso so che il Signore ci vuole bene - mi dice a bassa voce - e che non ci ha abbandonato». Per me è stato come uno schiaffo: solo per avermi vista lì, quella donna si sentiva amata da Dio. Ben sapendo che non avevo con me milioni di euro per poter rifare tutto. Eppure, per la storia di questi anni, per come ci ha visto lavorare nell’ambulatorio, con i ragazzi, ha capito l’essenziale: ha legato la nostra vicenda con la misericordia di Dio per lei.

Allora intuisco una volta di più che il punto non è risolvere i problemi, ma condividere la fatica di vivere. Così ridecidiamo di partire: ma da dove? Il buon Dio ci dà un segno: veniamo contattati da un italiano, responsabile di una Ong, che mi offre la ricostruzione di un laboratorio. Io non so cosa fare: l’iniziativa è tutt’altro che semplice. E poi, mi chiedo, chi la manderà avanti? Morto l’arcivescovo, non avevo più un riferimento immediato con cui confrontarmi. Col telefono satellitare riesco a chiamare Roma e mi viene detto che una proposta del genere è proprio un segno e io la leggo come la riconferma del compito che il Signore mi sta dando.

Così il laboratorio è stato riscostruito diventando Clinica San Francesco: oggi è un poliambulatorio con cinque sale, un ambulatorio pediatrico, con studio dentistico, attività nutrizionale e accompagnamento della donna durante la gravidanza e pronto soccorso. Accanto ad esso sono sorte una serie di altre iniziative a servizio della gente. Nei mesi successivi è nato il «Vilaj Italyen», 122 casette in cui abitano un migliaio di persone: all’interno della baraccopoli rappresenta un’oasi di speranza, per ricordare alla gente che anche la situazione più drammatica non è mai senza via d’uscita. Perché l’ultima parola sulla vita e sulla realtà è quella di Gesù, che duemila anni fa ha cambiato il corso della storia.

Ne ho trovato conferma attraverso un segno che Dio mi ha inviato. Un giorno sulla porta di una baracca trovo scritto con vernice nera: «Verbum caro factum est». Leggere una frase in latino nel contesto di una bidonville haitiana è quanto di più impensabile uno possa immaginare. Cerco l’uomo che abita nella casa e gli chiedo cosa voglia dire la frase. Mi risponde che esattamente non lo sa, però racconta che quando era piccolo il papà diceva una preghiera lunghissima in una lingua sconosciuta. Di essa ricorda solo quella frase. Perché il padre gli aveva detto: «Qualsiasi cosa ti succeda nella vita c’è sempre un punto da cui tu puoi ripartire. Ed è questo».

Una marcia in più: Cristo fa la differenza

Il giorno del terremoto, da lì, si vedeva benissimo la cattedrale, crollata. E quell’uomo mi raccontava: «Vedevo solo macerie, gente che urlava. Tutto, intorno a me, sembrava morte. Guardando i miei figli e pensando a cosa avrei potuto dire loro per dare speranza, mi è venuta in mente quella frase della preghiera. Ho preso la vernice e me la sono scritta sulla porta, perché ogni mattina potessi ricordarmelo». Questa persona forse non era neanche cattolica. Ma, per l’esperienza avuta tramite suo padre, era certa che quella frase rispondeva alla promessa che aveva nel cuore. Per me è stata una grazia. Per mesi ho incominciato la mia giornata andando ogni mattina a quella porta a recitare l’Angelus.

Attualmente siamo gli unici ad aver ricostruito qualcosa in Haiti. Abbiamo ricevuto diversi giornalisti e politici attratti dal nostro lavoro. Ebbene, cosa fa la differenza? La fa Cristo, non io. Quello che sta accadendo qui è l’opera di un Altro: l’aver detto sì ha permesso che Cristo cambiasse la realtà. Perché ha cambiato noi. Abbiamo cominciato a guardare la realtà non come un problema da risolvere, ma partendo dallo sguardo di Cristo su ciascuno di noi. Così facendo, la realtà cambia, cambi tu e la vita diventa veramente bella. Guardando a quanto facciamo, io spero che si dica non: «Quanto è brava suor Marcella», ma: «Gloria a Dio per quello che è accaduto».

Qualcuno mi ha chiesto: da dove nasce questa «marcia in più», questa tua libertà? La risposta è: nasce dalla coscienza della propria vocazione. La vocazione non è, in primis, essere suora, prete, medico, ma qualcosa che a che fare con il tuo rapporto personale con Cristo. Il punto è: desidero essere afferrata da Cristo? Possiamo appartenere a un gruppo ecclesiale, fare tante cose, ma non lasciarci afferrare da Cristo. Vale anche per me suora: ogni giorno posso rimangiarmi il “sì” detto a vent’anni. Così è per il marito che si rimangia cento volte al giorno il “sì” per sempre che ha detto alla moglie davanti a Dio: non vuol dire che necessariamente tradisca la moglie, semplicemente non la guarda più come “cammino vocazionale” che gli è dato. Tradire la vocazione è dimenticare il fatto che Cristo ti ha afferrato totalmente e ti vuole tutto per sé. Al contrario, la libertà di rispondere nasce dal fatto che ti rendi conto che la tua umanità non è definita da ciò che sei tu, ma da un Altro che ti ama. Io sono Cristo che mi vuole bene. Se prendi sul serio questa convinzione, le circostanze non sono più un peso.

Marcella Catozza
Fraternità Francescana Missionaria
Haiti - Mar dei Caraibi

 

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