Come
persone umane viviamo nella storia e ogni giorno ci misuriamo con la
dimensione della temporalità. Il contatto vivo con il nostro passato ci
permette di capire chi siamo e lo sguardo al futuro motiva e sostiene il
nostro agire e le nostre scelte. Infatti le persone che, a causa di
qualche trauma o incidente, soffrono di amnesie e non ricordano aspetti
di se stesse o parti della loro storia, vivono un dolore spesso
profondo. Similmente quanti non vedono un futuro dinanzi ai loro occhi o
sono demotivati, scoraggiati o depressi, coloro che non nutrono desideri
per l’avvenire, sono portatori di una sofferenza interna talvolta molto
intensa. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Dove manca una guida il
popolo va in rovina» (Pr 11,14).
Ogni “io” ha un passato
Il passato è il “luogo” dove ognuno di noi è diventato
ciò che è, dove alcune potenzialità si sono attuate mentre altre non
hanno trovato fioritura o si sono realizzate in modo ridotto; proprio
perché il passato è parte della nostra vita, possiamo dire che il
passato è dentro di noi piuttosto che essere dietro di
noi. Siamo venuti al mondo con un certo corpo e un cero volto, in un
dato luogo geografico e all’interno di una specifica famiglia, ci ha
accolto e modellato una determinata cultura che, come l’aria che
respiriamo, è diventata parte di noi. E tutto questo è avvenuto senza
una nostra scelta deliberata.
Relazioni, affetti, eventi, occasioni e fatiche,
opportunità e ostacoli, gioie e sofferenze hanno accompagnato e segnato
la nostra esistenza: sono io perché ho questa storia.
In parte la mia storia è semplicemente un dato ricevuto o, al limite,
subìto; in parte posso assumermi la responsabilità di gesti, azioni,
errori, scelte che hanno accompagnato il mio divenire. Ma in entrambi i
casi una cosa è certa: non possiamo cambiare il nostro passato.
«Marina, una donna di circa 30 anni era stata invitata
a narrare la propria storia personale nel contesto di un discernimento
vocazionale. Il suo racconto sembrava procedere a salti: una narrazione
approfondita dell’infanzia e della fanciullezza, poche battute
sull’adolescenza, una lettura particolareggiata della giovinezza fino al
presente. Dopo alcuni incontri personali, la guida chiese a Marina come
mai il racconto sull’adolescenza fosse così ristretto. Marina rispose
che non ricordava altro, ma dopo qualche resistenza scoppiò in lacrime
dicendo che aveva vissuto delle esperienze difficili in quegli anni, ma
che tutto doveva essere già stato risolto perché alcuni anni prima aveva
rielaborato la sua adolescenza dolorosa nel contesto di un
accompagnamento e non poteva accettare, dopo tanto tempo, di risentire
nuovamente la sofferenza della sua storia».
Rifiuto, rassegnazione o
responsabilità?
Forse ognuno di noi può raccontare un’esperienza simile:
ci sono eventi dolorosi o fatiche della nostra storia che abbiamo già
affrontato e ci aspettiamo di non sentire più il loro influsso nella
nostra vita. Ma si tratta di una attesa irrealistica: rielaborare o
assumere un’esperienza difficile della propria storia non significa
cancellarla dalla mente o dal cuore come se non fosse mai esistita.
Anche quando abbiamo avuto la possibilità di aprire certe ferite e di
essere aiutati a entrare in un processo di guarigione, possiamo talvolta
risentire nel presente delle vecchie sofferenze, soprattutto se qualche
evento attuale assomiglia a quanto vissuto nel passato.
La questione cruciale non è tanto che questo avvenga,
cioè che io possa risentire la sofferenza, ma quale atteggiamento io
assumo di fronte ad essa: un’emozione che sentiamo, in questo caso di
dolore o di malessere, è sempre una specie di “messaggero”. Essa,
infatti, ci dice qualcosa di noi stessi, del nostro rapporto con la
realtà e con chi ci è accanto, e risveglia in noi delle domande. Cosa mi
dice quel dolore che oggi io sento, ma che nello stesso tempo appartiene
al passato?
«Così Marina accettò la sfida proposta dalla guida
spirituale permettendosi di riascoltare nuovamente le ferite della sua
adolescenza. Da molto tempo si era fatta una ragione riguardo
all’abbandono della famiglia da parte del padre, quando Marina aveva
dieci anni; allo stesso modo aveva capito che le reazioni talvolta
impulsive e altre volte depressive della madre, e che tanto avevano
ferito Marina, non erano espressione di noncuranza verso la figlia, ma
semplicemente l’unico modo in cui era stata capace di reagire
all’abbandono».
Possiamo ritornare al nostro passato per motivi
molto diversi! Posso nascondermi dietro la maschera del
mio passato affermando passivamente o con rassegnazione che «sono
così, non posso farci nulla», evitando la responsabilità di una
possibile crescita e apertura realistica al futuro che
richiedono, però, fatica e impegno.
Oppure posso trasformare un passato doloroso in una
ricerca di risarcimento, spesso infantile: «Siccome io ho tanto
sofferto, adesso la vita, voi, mi dovete risarcire e dovete prendervi
cura di me». Il passato può anche diventare paradossalmente un’àncora
comoda alla quale rimanere attaccati: meglio un passato che conosco e
che, pur con i suoi limiti, mi offre delle sicurezze, piuttosto che un
futuro che mi chiede di accettare l’insicurezza e, inevitabilmente, di
assumere il rischio (e il rischio della fede).
Non raramente alcune persone assumono atteggiamenti che
diventano negazione del passato quando il ricordo è selettivo e
minimizza o elimina le ombre esaltando - al limite in modo irrealistico
e fantasioso - gli aspetti positivi e le esperienze piacevoli: «Nella
mia storia è andato sempre tutto benissimo, non cambierei nulla»
(quadretto familiare stile “mulino bianco”!).
Tutti questi atteggiamenti che talvolta possiamo assumere
o vedere intorno a noi, non sono certamente espressioni di accettazione
del passato. L’accettazione autentica chiede al soggetto un’assunzione
umile e responsabile del dato (di quanto avvenuto e delle sue
conseguenze) e, aprendo a una nuova e più profonda comprensione di se
stesso e della sua storia, lo impegna attivamente ad affrontare
situazioni nuove. Non si tratta, allora, di ritornare ossessivamente a
leggere un vecchio capitolo della propria vita, ma di scriverne uno
nuovo: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Un contatto risanante
Se durante la notte ci svegliamo a causa di un passeggero
malessere e dopo un breve tempo di veglia, torniamo a sognare,
facilmente al mattino sembra avere più impatto su di noi la mezz’ora di
sonno perduto piuttosto che le molte ore di riposo. Non raramente usiamo
lo stesso criterio quando guardiamo alla nostra storia: se ci sono delle
fatiche o delle ferite, queste sembrano avere il potere di annullare,
nella nostra percezione interiore e nel nostro ricordare, il bene
ricevuto, vissuto, donato. Non esiste un passato senza ombre o
un’infanzia “perfetta”. La nostra umanità, plasmata a immagine e
somiglianza di Dio, è misteriosamente abitata da una dimensione di
limite che, nella nostra esistenza si traduce in concreti limiti
intellettuali, fisici, spirituali, affettivi, morali a noi stessi più o
meno consapevoli. Ciò significa che come uomini e come donne amiamo in
modo limitato e, similmente, abbiamo ricevuto un amore segnato dal
limite, ma esso non smette di essere amore.
Riappropriarsi del passato, entrando in un contatto
risanante con le proprie ferite, è un percorso necessario che ogni
persona è chiamata a compiere. Si tratta di un’operazione umana,
psicologica e al contempo spirituale, un’operazione che può aiutarci a
scoprire la misteriosa opera di Dio nelle pieghe oscure della nostra
storia.
«Un po’ alla volta Marina riuscì a legittimare la sua
sofferenza, concedendosi il permesso di risentire il dolore causato
dall’assenza emotiva della madre o dalla durezza nei suoi confronti. Ma
Marina riuscì anche a crescere in un atteggiamento sincero di empatia
verso la madre cercando di comprendere la grande sofferenza che lei
stessa aveva vissuto con l’abbandono del marito e rendendosi conto che
in quel momento la mamma poteva amare la figlia solo in quel modo
limitato. In seguito Marina cercò anche di riavvicinare il padre e di
riprendere un dialogo con lui».
Il presente progettuale
Ma la lettura della storia personale non ha unicamente un
valore terapeutico rispetto alla sofferenza sperimentata o a un trauma
vissuto; essa costituisce anche il gesto tipico del credente che, nella
storia, cerca e contempla i segni della presenza operante e trasformante
di Dio. Egli ha fatto della storia umana il luogo della sua presenza e
se ha scelto di entrare nella storia vuol dire che la considera luogo
degno della sua dimora.
Nella Bibbia il Signore invita continuamente Israele a
ricordare e a celebrare i passaggi di Dio nella sua vita: un ricordare
che significa fare memoria, cioè possibilità di vivere e gustare oggi i
frutti di un avvenimento cronologicamente lontano (cf Dt 8,2-5). Nella
mentalità biblica ciò che vale per il popolo è valido anche per il
singolo credente: è compito mio imparare a leggere e a vivere la mia
storia come storia di salvezza, cioè come il luogo concreto in cui Dio
ha scelto di incontrarmi e fare amicizia con me.
L’integrazione attiva di passato, presente e futuro, che
accetta con rispetto e responsabilità la propria storia, implica vivere
il presente in una dimensione progettuale, come una chiamata all’amore,
all’incontro con l’altro umano e con Dio. Quando il proprio passato è
assunto in modo maturo e con atteggiamento di fede, senza negarlo e
senza rimanerne imprigionati, possiamo come Abramo uscire dalla nostra
terra per andare dove il Signore ci indicherà. Passato e futuro trovano
la sintesi nel presente in cui, di fatto, viviamo.
L’aveva ben compreso santa Teresa di Lisieux, come
testimoniano le strofe della sua poesia «Il mio canto d’oggi»: «Tu lo
sai, mio Dio, che per amarti sulla terra non ho altro che l'oggi! T'amo,
Gesù, tende a te la mia anima... Sii tu il mio dolce sostegno, regnami
in cuore, dammi il tuo sorriso, per un giorno solo, per oggi, per oggi!
Che importa, Signore, se l'avvenire è oscuro... No, io non posso
pregarti per il domani. Mantieni puro il mio cuore, coprimi con la tua
ombra, e non sia che per oggi!».
Samuela
Rigon
Formatrice vocazionale e psicologa
samu.rig@libero.it
F. IMODA,
Sviluppo
umano. Psicologia e mistero,
Piemme, Casale Monferrato 1993, 85-96; A. PERUFFO, «Cosa ne facciamo
del nostro passato?», in
Tredimensioni
4 (2007)
182-192.
B. MAGGIONI,
La cruna
e il cammello. Percorsi evangelici e umanità di Gesù,
Àncora, Milano 2006, 47-48.
TERESA DI LISIEUX, «Il mio canto d’oggi», 1° giugno 1894, in
COMUNITÀ DI SAN LEONINO (a cura di),
Meditazioni quotidiane
con i santi del Carmelo. La fertile montagna, Edizioni
OCD, Roma 2007, 63.