n. 5
maggio 2012

 

Altri articoli disponibili

English

Il passato nell'esperienza personale e spirituale

SAMUELA RIGON

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Come persone umane viviamo nella storia e ogni giorno ci misuriamo con la dimensione della temporalità. Il contatto vivo con il nostro passato ci permette di capire chi siamo e lo sguardo al futuro motiva e sostiene il nostro agire e le nostre scelte. Infatti le persone che, a causa di qualche trauma o incidente, soffrono di amnesie e non ricordano aspetti di se stesse o parti della loro storia, vivono un dolore spesso profondo. Similmente quanti non vedono un futuro dinanzi ai loro occhi o sono demotivati, scoraggiati o depressi, coloro che non nutrono desideri per l’avvenire, sono portatori di una sofferenza interna talvolta molto intensa. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Dove manca una guida il popolo va in rovina» (Pr 11,14).

Ogni “io” ha un passato

Il passato è il “luogo” dove ognuno di noi è diventato ciò che è, dove alcune potenzialità si sono attuate mentre altre non hanno trovato fioritura o si sono realizzate in modo ridotto; proprio perché il passato è parte della nostra vita, possiamo dire che il passato è dentro di noi piuttosto che essere dietro di noi. Siamo venuti al mondo con un certo corpo e un cero volto, in un dato luogo geografico e all’interno di una specifica famiglia, ci ha accolto e modellato una determinata cultura che, come l’aria che respiriamo, è diventata parte di noi. E tutto questo è avvenuto senza una nostra scelta deliberata.

Relazioni, affetti, eventi, occasioni e fatiche, opportunità e ostacoli, gioie e sofferenze hanno accompagnato e segnato la nostra esistenza: sono io perché ho questa storia[1]. In parte la mia storia è semplicemente un dato ricevuto o, al limite, subìto; in parte posso assumermi la responsabilità di gesti, azioni, errori, scelte che hanno accompagnato il mio divenire. Ma in entrambi i casi una cosa è certa: non possiamo cambiare il nostro passato.

«Marina, una donna di circa 30 anni era stata invitata a narrare la propria storia personale nel contesto di un discernimento vocazionale. Il suo racconto sembrava procedere a salti: una narrazione approfondita dell’infanzia e della fanciullezza, poche battute sull’adolescenza, una lettura particolareggiata della giovinezza fino al presente. Dopo alcuni incontri personali, la guida chiese a Marina come mai il racconto sull’adolescenza fosse così ristretto. Marina rispose che non ricordava altro, ma dopo qualche resistenza scoppiò in lacrime dicendo che aveva vissuto delle esperienze difficili in quegli anni, ma che tutto doveva essere già stato risolto perché alcuni anni prima aveva rielaborato la sua adolescenza dolorosa nel contesto di un accompagnamento e non poteva accettare, dopo tanto tempo, di risentire nuovamente la sofferenza della sua storia».

Rifiuto, rassegnazione o responsabilità?

Forse ognuno di noi può raccontare un’esperienza simile: ci sono eventi dolorosi o fatiche della nostra storia che abbiamo già affrontato e ci aspettiamo di non sentire più il loro influsso nella nostra vita. Ma si tratta di una attesa irrealistica: rielaborare o assumere un’esperienza difficile della propria storia non significa cancellarla dalla mente o dal cuore come se non fosse mai esistita. Anche quando abbiamo avuto la possibilità di aprire certe ferite e di essere aiutati a entrare in un processo di guarigione, possiamo talvolta risentire nel presente delle vecchie sofferenze, soprattutto se qualche evento attuale assomiglia a quanto vissuto nel passato.

La questione cruciale non è tanto che questo avvenga, cioè che io possa risentire la sofferenza, ma quale atteggiamento io assumo di fronte ad essa: un’emozione che sentiamo, in questo caso di dolore o di malessere, è sempre una specie di “messaggero”. Essa, infatti, ci dice qualcosa di noi stessi, del nostro rapporto con la realtà e con chi ci è accanto, e risveglia in noi delle domande. Cosa mi dice quel dolore che oggi io sento, ma che nello stesso tempo appartiene al passato?

«Così Marina accettò la sfida proposta dalla guida spirituale permettendosi di riascoltare nuovamente le ferite della sua adolescenza. Da molto tempo si era fatta una ragione riguardo all’abbandono della famiglia da parte del padre, quando Marina aveva dieci anni; allo stesso modo aveva capito che le reazioni talvolta impulsive e altre volte depressive della madre, e che tanto avevano ferito Marina, non erano espressione di noncuranza verso la figlia, ma semplicemente l’unico modo in cui era stata capace di reagire all’abbandono».

Possiamo ritornare al nostro passato per motivi molto diversi! Posso nascondermi dietro la maschera del mio passato affermando passivamente o con rassegnazione che «sono così, non posso farci nulla», evitando la responsabilità di una possibile crescita e apertura realistica al futuro che richiedono, però, fatica e impegno.

Oppure posso trasformare un passato doloroso in una ricerca di risarcimento, spesso infantile: «Siccome io ho tanto sofferto, adesso la vita, voi, mi dovete risarcire e dovete prendervi cura di me». Il passato può anche diventare paradossalmente un’àncora comoda alla quale rimanere attaccati: meglio un passato che conosco e che, pur con i suoi limiti, mi offre delle sicurezze, piuttosto che un futuro che mi chiede di accettare l’insicurezza e, inevitabilmente, di assumere il rischio (e il rischio della fede)[2].

Non raramente alcune persone assumono atteggiamenti che diventano negazione del passato quando il ricordo è selettivo e minimizza o elimina le ombre esaltando - al limite in modo irrealistico e fantasioso - gli aspetti positivi e le esperienze piacevoli: «Nella mia storia è andato sempre tutto benissimo, non cambierei nulla» (quadretto familiare stile “mulino bianco”!).

Tutti questi atteggiamenti che talvolta possiamo assumere o vedere intorno a noi, non sono certamente espressioni di accettazione del passato. L’accettazione autentica chiede al soggetto un’assunzione umile e responsabile del dato (di quanto avvenuto e delle sue conseguenze) e, aprendo a una nuova e più profonda comprensione di se stesso e della sua storia, lo impegna attivamente ad affrontare situazioni nuove. Non si tratta, allora, di ritornare ossessivamente a leggere un vecchio capitolo della propria vita, ma di scriverne uno nuovo: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).

Un contatto risanante

Se durante la notte ci svegliamo a causa di un passeggero malessere e dopo un breve tempo di veglia, torniamo a sognare, facilmente al mattino sembra avere più impatto su di noi la mezz’ora di sonno perduto piuttosto che le molte ore di riposo. Non raramente usiamo lo stesso criterio quando guardiamo alla nostra storia: se ci sono delle fatiche o delle ferite, queste sembrano avere il potere di annullare, nella nostra percezione interiore e nel nostro ricordare, il bene ricevuto, vissuto, donato. Non esiste un passato senza ombre o un’infanzia “perfetta”. La nostra umanità, plasmata a immagine e somiglianza di Dio, è misteriosamente abitata da una dimensione di limite che, nella nostra esistenza si traduce in concreti limiti intellettuali, fisici, spirituali, affettivi, morali a noi stessi più o meno consapevoli. Ciò significa che come uomini e come donne amiamo in modo limitato e, similmente, abbiamo ricevuto un amore segnato dal limite, ma esso non smette di essere amore.

Riappropriarsi del passato, entrando in un contatto risanante con le proprie ferite, è un percorso necessario che ogni persona è chiamata a compiere. Si tratta di un’operazione umana, psicologica e al contempo spirituale, un’operazione che può aiutarci a scoprire la misteriosa opera di Dio nelle pieghe oscure della nostra storia.

«Un po’ alla volta Marina riuscì a legittimare la sua sofferenza, concedendosi il permesso di risentire il dolore causato dall’assenza emotiva della madre o dalla durezza nei suoi confronti. Ma Marina riuscì anche a crescere in un atteggiamento sincero di empatia verso la madre cercando di comprendere la grande sofferenza che lei stessa aveva vissuto con l’abbandono del marito e rendendosi conto che in quel momento la mamma poteva amare la figlia solo in quel modo limitato. In seguito Marina cercò anche di riavvicinare il padre e di riprendere un dialogo con lui».

Il presente progettuale

Ma la lettura della storia personale non ha unicamente un valore terapeutico rispetto alla sofferenza sperimentata o a un trauma vissuto; essa costituisce anche il gesto tipico del credente che, nella storia, cerca e contempla i segni della presenza operante e trasformante di Dio. Egli ha fatto della storia umana il luogo della sua presenza e se ha scelto di entrare nella storia vuol dire che la considera luogo degno della sua dimora.

Nella Bibbia il Signore invita continuamente Israele a ricordare e a celebrare i passaggi di Dio nella sua vita: un ricordare che significa fare memoria, cioè possibilità di vivere e gustare oggi i frutti di un avvenimento cronologicamente lontano (cf Dt 8,2-5). Nella mentalità biblica ciò che vale per il popolo è valido anche per il singolo credente: è compito mio imparare a leggere e a vivere la mia storia come storia di salvezza, cioè come il luogo concreto in cui Dio ha scelto di incontrarmi e fare amicizia con me.

L’integrazione attiva di passato, presente e futuro, che accetta con rispetto e responsabilità la propria storia, implica vivere il presente in una dimensione progettuale, come una chiamata all’amore, all’incontro con l’altro umano e con Dio. Quando il proprio passato è assunto in modo maturo e con atteggiamento di fede, senza negarlo e senza rimanerne imprigionati, possiamo come Abramo uscire dalla nostra terra per andare dove il Signore ci indicherà. Passato e futuro trovano la sintesi nel presente in cui, di fatto, viviamo.

L’aveva ben compreso santa Teresa di Lisieux, come testimoniano le strofe della sua poesia «Il mio canto d’oggi»: «Tu lo sai, mio Dio, che per amarti sulla terra non ho altro che l'oggi! T'amo, Gesù, tende a te la mia anima... Sii tu il mio dolce sostegno, regnami in cuore, dammi il tuo sorriso, per un giorno solo, per oggi, per oggi! Che importa, Signore, se l'avvenire è oscuro... No, io non posso pregarti per il domani. Mantieni puro il mio cuore, coprimi con la tua ombra, e non sia che per oggi!»[3].

Samuela Rigon
Formatrice vocazionale e psicologa
samu.rig@libero.it


 

[1] F. IMODA, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, 85-96; A. PERUFFO, «Cosa ne facciamo del nostro passato?», in Tredimensioni 4 (2007) 182-192.

 

[2] B. MAGGIONI, La cruna e il cammello. Percorsi evangelici e umanità di Gesù, Àncora, Milano 2006, 47-48.

 

[3] TERESA DI LISIEUX, «Il mio canto d’oggi», 1° giugno 1894, in COMUNITÀ DI SAN LEONINO (a cura di), Meditazioni quotidiane con i santi del Carmelo. La fertile montagna, Edizioni OCD, Roma 2007, 63.

 

Torna indietro