Per
riflettere su questo tema, apparentemente semplice ma in realtà assai
complesso e delicato (anche a causa di una certa polisemìa delle
parole), mi sono anzitutto riletto il documento presinodale. Scorrendo
la traduzione italiana dell’Instrumentum laboris in preparazione
alla XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (“La nuova
evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”) ho misurato,
con sorpresa, la sproporzione tra l’attenzione dedicata alla “Parola” e
quella dedicata al “Silenzio”. La prima è citata oltre trenta volte, il
secondo solo tre volte, e neppure molto significative.
Più
Parola che silenzio
“Silenzio” s’incontra al n. 62, con riferimento al mondo della
comunicazione oggi (nuovi strumenti…): “si assiste all’indebolimento e
alla perdita di valore oggettivo di esperienze profondamente umane quali
la riflessione e il silenzio…”; al n. 114 si parla del rapporto tra
monachesimo, contemplazione ed evangelizzazione, esperienza importante e
centrale per la Chiesa “dando un senso al silenzio e ad ogni altra
attività per la gloria di Dio”; e al n. 69, ove si riferisce che nelle
risposte ai Lineamenta si parla di una “apostasia silenziosa”,
cioè l’abbandono della fede da parte di molti (e qui l’idea di silenzio
non è certo positiva…).
“Parola” (di Dio, del Vangelo, nella vita della Chiesa…) ricorre invece
oltre trenta volte. Tre volte, come Parola del Signore, già nella
“Prefazione”.
Sottolineo questa sproporzione non per criticare gli autori del testo,
ma per riconoscere che è più facile parlare della Parola che del
silenzio, giacchè il silenzio spontaneamente si addice al silenzio. Ma
non bisogna dimenticare che esso non è solo assenza di parole, ma
capacità di presenza, una creatività apparentemente sottile e debole, ma
in realtà straordinaria.
Elie Wiesel conclude il suo straordinario libro Al sorgere delle
stelle (in Italia curato da Pietro Stefani per Marietti) congedando
i suoi personaggi, i morti evocati, con queste parole: «il silenzio, più
della parola, rimane la sostanza e il segno di ciò che fu il loro
universo e, come la parola, il silenzio s'impone e chiede di essere
trasmesso».
La quarta dimensione
Lo ricorda Giuseppe Dossetti, che conclude così la sua introduzione
(“Non restare in silenzio, mio Dio”) al volume Le querce di Monte
Sole (curato da Luciano Gherardi nel 1987 per Il Mulino): «… occorre
rendere possibile, consolidare e potenziare il pensare e l'agire per la
pace in nome di Cristo con un ultimo elemento, il silenzio: molto
silenzio, al posto dell'assordante fragore che ora impera. Il silenzio è
una quarta dimensione di tutto.
Nella Scrittura, la sapienza nei suoi vari significati - di sapienza
propriamente religiosa e di sapienza della prassi, di sapienza
personificata e di sapienza nomistica - è sempre connessa con la
disciplina della parola e con il silenzio; cioè richiede sempre una
accumulazione di potenza e di energia che può raggiungere solo colui
che tace con calma. […]. Silenzio, calma, quiete ed abbandono,
riposo vanno sempre più opposte all'urlo incessante della stampa, della
radio e della televisione. Invece anche da parte dei cristiani ci si
inchina all'idolo: si attribuisce all'inflazione delle parole stampate e
delle immagini una potenza che non hanno.
Non si vuole negare che esista il problema di un'adeguata diffusione del
Vangelo e di una corretta e vasta informazione e formazione: ma non può
essere una soluzione vera la moltiplicazione quantitativa della
verbalizzazione o della suggestione immaginativa, dei quotidiani, dei
rotocalchi, delle reti televisive, dei festivals, sempre più complessi e
sempre più costosi, che non si possono pagare senza compromessi con la
giustizia e con la verità, senza indulgere più o meno coscientemente a
violenza di linguaggi e di metodi.
Il linguaggio, appunto, il metodo e lo stile preoccupato e agitato, la
ritorsione polemica non concorrono ad edificare gli abiti virtuosi della
sapienza, ma piuttosto vellicano i vizi del mondo - anche se pretendono
di combatterli - così che, al di là delle intenzioni proclamate, operano
non per il chiarimento delle idee ma per un'ulteriore confusione, non
portano al rispetto e al riscatto dell'uomo, ma al suo asservimento
ulteriore alla schiavitù dei sensi e delle emozioni. In definitiva
contribuiscono non alla pace, ma alla guerra. Non c'è una accumulazione
di energia cristiana, ma una dispersione colpevole. E quel che è ancora
peggio, in questo modo, non si spezzano, ma anche dai cristiani si
rafforzano, quelli che Moltmann ha chiamato i circuiti satanici della
morte, del potere, della estraniazione razzista e culturale, della
distruzione della natura, del non senso e dell'abbandono di Dio …». Così
Giuseppe Dossetti.
Dunque: Silenzio e Parola, insieme, per aiutare la nuova
evangelizzazione. Del resto, se l’attenzione dell’Instrumentum
laboris appare un po’ troppo sbilanciata verso la parola a
danno del silenzio, si potrebbe avere la stessa impressione
cercando i termini “parola” e “silenzio” nelle traduzioni italiane dei
Vangeli. Ma dobbiamo riconoscere che il Vangelo - che pure è
inevitabilmente costituito di parole, ed anzi è in certo modo
identificato con la “Parola di Dio” - offre esempi importantissimi di
silenzio significativo. Magari non è espresso il termine preciso, ma si
sente la presenza, il “gesto” del silenzio. E non è solo quello di Gesù
di fronte alla tempesta o a Pilato, ma anche quello di sua Madre, e
quello di Maria sorella di Marta… E prima ancora, a cominciare dal
silenzio di Zaccaria fino a quello, che s’indovina sbigottito, degli
apostoli.
Non separare Parola e silenzio
Ma dal Vangelo è facile trarre una riflessione decisiva: parola e
silenzio sono legati tra loro. Lungi dall’essere l’opposto – l’uno la
contraddizione o l’assenza dell’altra – sono due momenti della
creatività e della verità. E dunque della vita. Il silenzio infatti
viene, per così dire, prima della parola. C’era silenzio, e vuoto, prima
che Iddio pronunciasse la Parola che fece nascere il cosmo. E c’era
silenzio prima che pronunciasse la Parola della redenzione, del perdono
e della salvezza: quella parola che si è fatta carne ed è venuta in
mezzo a noi. Da ciò dovrebbe essere facile trarre un primo insegnamento
pratico. Anche per la nuova evangelizzazione serve questa logica: la
parola non è, non può essere improvvisata; ma dev’essere preparata, deve
maturare. In un certo senso anzi è chiamata a far piazza pulita di tante
parole inutili, secondo quanto diceva il grande cristiano e poeta
Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie!».
L’evangelizzazione (la chiamiamo nuova, ma essa in realtà non è né
vecchia né nuova…) non può che nascere dal silenzio cioè dalla
meditazione, dalla fede, dalla lotta con l’angelo, dall’opzione
fondamentale di credere con tutta la vita… e dunque anche con le parole.
Non a caso l’annuncio realizzato senza parole visibili dalla
testimonianza dei contemplativi, degli umili, dei silenziosi… è spesso
più limpido ed efficace di quello realizzato… dai “microfoni di Dio”. Ma
anche i “microfoni di Dio” (i predicatori famosi, i grandi mass media…)
possono essere utili ed efficaci, ma alla sola condizione, a mio avviso,
che nascano dal silenzio ed abbiano conosciuto la dialettica interiore
tra ciò che è indicibile e la necessità di parlarne. È fondamentale che
anche la nuova evangelizzazione conosca ed esprima e si nutra
dell’umiltà di chi parla, ma sa bene quanto le sue parole sono
insufficienti. E dunque chi vuole contribuire all’evangelizzazione è
bene che sappia parlare (con umiltà, con chiarezza…) ma soprattutto
sappia tacere, meditare ed ascoltare e correggersi.
Certo: ogni realtà che vive nel tempo partecipa di un’inevitabile
ambivalenza e va continuamente purificata nel fuoco dell’esame di
coscienza (non solo individuale, ma anche comunitario ed ecclesiale): la
parola può essere dominata dalla vanità, il silenzio dall’opportunismo.
Ma ciò avviene tanto più facilmente se si crede troppo, e si è troppo
sbilanciati solo sull’una o sull’altra.
Le troppe parole, la “presenza” e la “testimonianza” fatta solo di
parole non solo annoia e mette in sospetto i nostri interlocutori, ma
costruisce in noi una presunzione di capacità, una falsa sicurezza che
tradisce il mistero che dobbiamo vivere prima ancora che annunciare. Ma
anche il silenzio, da solo, non è privo di presunzione, quasi un delirio
di autosufficienza e di disprezzo per gli altri, i comuni mortali che si
inebriano di parole che suonano così bene.
Verità e amore di Dio
Bene: dunque per l’evangelizzazione (nuova o antica che sia, lo sappiamo
da 2000 anni!) servono sia la parola che il silenzio, e l’una e l’altro
si purificano e si rafforzano insieme, in un’integrazione reciproca. Ma
come fare a farli stare assieme, in una dialettica positiva e non
distruttiva? Non è facile, e infatti noi vediamo spesso che le persone
sonotentate di scegliere drasticamente l’una e non l’altro, l’uno contro
l’altra. Affinché si crei un circuito virtuoso tra parola e silenzio è
necessario che essi si integrino e non si contrappongano, come accade
anche con le migliori intenzioni a quelli che dividono fin troppo
rigidamente le due dimensioni e le misurano e ripartiscono col bilancino
come fossero veleni.
Per farli stare assieme bene e con frutto invece bisogna riuscire ad
amare l’uno e l’altra, senza cuore diviso: la parola e il silenzio (non
sono l’una positiva e l’altro negativo o viceversa), sono entrambi doni
di Dio e risorse positive e straordinarie. Leggendo e rileggendo il
Vangelo ed immaginando, quasi ri-vivendo la vita di Gesù possiamo far
nostro questo equilibrio dinamico, questa sinergia. E così possiamo
sperimentare il tempo del silenzio e quello della parola e la virtù di
entrambi e il
loro comune servizio al Vangelo, che anche oggi come sempre merita di
essere annunciato con cuore sereno e indiviso. Ricordandoci che vale
anche per l’evangelizzazione quella legge che dovrebbe illuminare tutta
la nostra vita: la comunicazione più vera è quella amichevole, cioè che
usa parole e silenzi con comprensione, simpatia, empatia per il
destinatario, il colloquiante. In qualche modo non è a senso unico la
comunicazione, neppure attraverso un giornale, se chi scrive pensa di
parlare al lettore e s’immagina e cerca e spera le reazioni, le
risposte. Magari cerca anche di intessere un dialogo (lettere ai
giornali, adesso con internet è anche più facile). Allora sì: parola e
ascolto, voce e silenzio, pulpiti e meditazioni, carta stampata e
lettori si incontrano in un dialogo non solo in un rapporto univoco di
ascolto.
Angelo Bertani
Giornalista e
scrittore
Via Fonte di
Fauno, 20 – 00153 Roma