n. 9
settembre 2012

 

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Silenzio e parola per la nuova evangelizzazione
 

ANGELO BERTANI

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Per riflettere su questo tema, apparentemente semplice ma in realtà assai complesso e delicato (anche a causa di una certa polisemìa delle parole), mi sono anzitutto riletto il documento presinodale. Scorrendo la traduzione italiana dell’Instrumentum laboris in preparazione alla XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (“La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”) ho misurato, con sorpresa, la sproporzione tra l’attenzione dedicata alla “Parola” e quella dedicata al “Silenzio”. La prima è citata oltre trenta volte, il secondo solo tre volte, e neppure molto significative.

 Più Parola che silenzio

“Silenzio” s’incontra al n. 62, con riferimento al mondo della comunicazione oggi (nuovi strumenti…): “si assiste all’indebolimento e alla perdita di valore oggettivo di esperienze profondamente umane quali la riflessione e il silenzio…”; al n. 114 si parla del rapporto tra monachesimo, contemplazione ed evangelizzazione, esperienza importante e centrale per la Chiesa “dando un senso al silenzio e ad ogni altra attività per la gloria di Dio”; e al n. 69, ove si riferisce che nelle risposte ai Lineamenta si parla di una “apostasia silenziosa”, cioè l’abbandono della fede da parte di molti (e qui l’idea di silenzio non è certo positiva…).

 “Parola” (di Dio, del Vangelo, nella vita della Chiesa…) ricorre invece oltre trenta volte. Tre volte, come Parola del Signore, già nella “Prefazione”.

Sottolineo questa sproporzione non per criticare gli autori del testo, ma per riconoscere che è più facile parlare della Parola che del silenzio, giacchè il silenzio spontaneamente si addice al silenzio. Ma non bisogna dimenticare che esso non è solo assenza di parole, ma capacità di presenza, una creatività apparentemente sottile e debole, ma in realtà straordinaria.

Elie Wiesel conclude il suo straordinario libro Al sorgere delle stelle (in Italia curato da Pietro Stefani per Marietti) congedando i suoi personaggi, i morti evocati, con queste parole: «il silenzio, più della parola, rimane la sostanza e il segno di ciò che fu il loro universo e, come la parola, il silenzio s'impone e chiede di essere trasmesso».

La quarta dimensione

Lo ricorda Giuseppe Dossetti, che conclude così la sua introduzione (“Non restare in silenzio, mio Dio”) al volume Le querce di Monte Sole (curato da Luciano Gherardi nel 1987 per Il Mulino): «… occorre rendere possibile, consolidare e potenziare il pensare e l'agire per la pace in nome di Cristo con un ultimo elemento, il silenzio: molto silenzio, al posto dell'assordante fragore che ora impera. Il silenzio è una quarta dimensione di tutto.

Nella Scrittura, la sapienza nei suoi vari significati - di sapienza propriamente religiosa e di sapienza della prassi, di sapienza personificata e di sapienza nomistica - è sempre connessa con la disciplina della parola e con il silenzio; cioè richiede sempre una accumulazione di potenza e di energia che può raggiungere solo colui che tace con calma. […]. Silenzio, calma, quiete ed abbandono, riposo vanno sempre più opposte all'urlo incessante della stampa, della radio e della televisione. Invece anche da parte dei cristiani ci si inchina all'idolo: si attribuisce all'inflazione delle parole stampate e delle immagini una potenza che non hanno.

Non si vuole negare che esista il problema di un'adeguata diffusione del Vangelo e di una corretta e vasta informazione e formazione: ma non può essere una soluzione vera la moltiplicazione quantitativa della verbalizzazione o della suggestione immaginativa, dei quotidiani, dei rotocalchi, delle reti televisive, dei festivals, sempre più complessi e sempre più costosi, che non si possono pagare senza compromessi con la giustizia e con la verità, senza indulgere più o meno coscientemente a violenza di linguaggi e di metodi.

Il linguaggio, appunto, il metodo e lo stile preoccupato e agitato, la ritorsione polemica non concorrono ad edificare gli abiti virtuosi della sapienza, ma piuttosto vellicano i vizi del mondo - anche se pretendono di combatterli - così che, al di là delle intenzioni proclamate, operano non per il chiarimento delle idee ma per un'ulteriore confusione, non portano al rispetto e al riscatto dell'uomo, ma al suo asservimento ulteriore alla schiavitù dei sensi e delle emozioni. In definitiva contribuiscono non alla pace, ma alla guerra. Non c'è una accumulazione di energia cristiana, ma una dispersione colpevole. E quel che è ancora peggio, in questo modo, non si spezzano, ma anche dai cristiani si rafforzano, quelli che Moltmann ha chiamato i circuiti satanici della morte, del potere, della estraniazione razzista e culturale, della distruzione della natura, del non senso e dell'abbandono di Dio …». Così Giuseppe Dossetti.

Dunque: Silenzio e Parola, insieme, per aiutare la nuova evangelizzazione. Del resto, se l’attenzione dell’Instrumentum laboris appare un po’ troppo sbilanciata verso la parola a danno del silenzio, si potrebbe avere la stessa impressione cercando i termini “parola” e “silenzio” nelle traduzioni italiane dei Vangeli. Ma dobbiamo riconoscere che il Vangelo - che pure è inevitabilmente costituito di parole, ed anzi è in certo modo identificato con la “Parola di Dio” - offre esempi importantissimi di silenzio significativo. Magari non è espresso il termine preciso, ma si sente la presenza, il “gesto” del silenzio. E non è solo quello di Gesù di fronte alla tempesta o a Pilato, ma anche quello di sua Madre, e quello di Maria sorella di Marta… E prima ancora, a cominciare dal silenzio di Zaccaria fino a quello, che s’indovina sbigottito, degli apostoli.

Non separare Parola e silenzio

Ma dal Vangelo è facile trarre una riflessione decisiva: parola e silenzio sono legati tra loro. Lungi dall’essere l’opposto – l’uno la contraddizione o l’assenza dell’altra – sono due momenti della creatività e della verità. E dunque della vita. Il silenzio infatti viene, per così dire, prima della parola. C’era silenzio, e vuoto, prima che Iddio pronunciasse la Parola che fece nascere il cosmo. E c’era silenzio prima che pronunciasse la Parola della redenzione, del perdono e della salvezza: quella parola che si è fatta carne ed è venuta in mezzo a noi. Da ciò dovrebbe essere facile trarre un primo insegnamento pratico. Anche per la nuova evangelizzazione serve questa logica: la parola non è, non può essere improvvisata; ma dev’essere preparata, deve maturare. In un certo senso anzi è chiamata a far piazza pulita di tante parole inutili, secondo quanto diceva il grande cristiano e poeta Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie!».

L’evangelizzazione (la chiamiamo nuova, ma essa in realtà non è né vecchia né nuova…) non può che nascere dal silenzio cioè dalla meditazione, dalla fede, dalla lotta con l’angelo, dall’opzione fondamentale di credere con tutta la vita… e dunque anche con le parole. Non a caso l’annuncio realizzato senza parole visibili dalla testimonianza dei contemplativi, degli umili, dei silenziosi… è spesso più limpido ed efficace di quello realizzato… dai “microfoni di Dio”. Ma anche i “microfoni di Dio” (i predicatori famosi, i grandi mass media…) possono essere utili ed efficaci, ma alla sola condizione, a mio avviso, che nascano dal silenzio ed abbiano conosciuto la dialettica interiore tra ciò che è indicibile e la necessità di parlarne. È fondamentale che anche la nuova evangelizzazione conosca ed esprima e si nutra dell’umiltà di chi parla, ma sa bene quanto le sue parole sono insufficienti. E dunque chi vuole contribuire all’evangelizzazione è bene che sappia parlare (con umiltà, con chiarezza…) ma soprattutto sappia tacere, meditare ed ascoltare e correggersi.

Certo: ogni realtà che vive nel tempo partecipa di un’inevitabile ambivalenza e va continuamente purificata nel fuoco dell’esame di coscienza (non solo individuale, ma anche comunitario ed ecclesiale): la parola può essere dominata dalla vanità, il silenzio dall’opportunismo. Ma ciò avviene tanto più facilmente se si crede troppo, e si è troppo sbilanciati solo sull’una o sull’altra.

Le troppe parole, la “presenza” e la “testimonianza” fatta solo di parole non solo annoia e mette in sospetto i nostri interlocutori, ma costruisce in noi una presunzione di capacità, una falsa sicurezza che tradisce il mistero che dobbiamo vivere prima ancora che annunciare. Ma anche il silenzio, da solo, non è privo di presunzione, quasi un delirio di autosufficienza e di disprezzo per gli altri, i comuni mortali che si inebriano di parole che suonano così bene.

Verità e amore di Dio

Bene: dunque per l’evangelizzazione (nuova o antica che sia, lo sappiamo da 2000 anni!) servono sia la parola che il silenzio, e l’una e l’altro si purificano e si rafforzano insieme, in un’integrazione reciproca. Ma come fare a farli stare assieme, in una dialettica positiva e non distruttiva? Non è facile, e infatti noi vediamo spesso che le persone sonotentate di scegliere drasticamente l’una e non l’altro, l’uno contro l’altra. Affinché si crei un circuito virtuoso tra parola e silenzio è necessario che essi si integrino e non si contrappongano, come accade anche con le migliori intenzioni a quelli che dividono fin troppo rigidamente le due dimensioni e le misurano e ripartiscono col bilancino come fossero veleni.

Per farli stare assieme bene e con frutto invece bisogna riuscire ad amare l’uno e l’altra, senza cuore diviso: la parola e il silenzio (non sono l’una positiva e l’altro negativo o viceversa), sono entrambi doni di Dio e risorse positive e straordinarie. Leggendo e rileggendo il Vangelo ed immaginando, quasi ri-vivendo la vita di Gesù possiamo far nostro questo equilibrio dinamico, questa sinergia. E così possiamo sperimentare il tempo del silenzio e quello della parola e la virtù di entrambi e il

loro comune servizio al Vangelo, che anche oggi come sempre merita di essere annunciato con cuore sereno e indiviso. Ricordandoci che vale anche per l’evangelizzazione quella legge che dovrebbe illuminare tutta la nostra vita: la comunicazione più vera è quella amichevole, cioè che usa parole e silenzi con comprensione, simpatia, empatia per il destinatario, il colloquiante. In qualche modo non è a senso unico la comunicazione, neppure attraverso un giornale, se chi scrive pensa di parlare al lettore e s’immagina e cerca e spera le reazioni, le risposte. Magari cerca anche di intessere un dialogo (lettere ai giornali, adesso con internet è anche più facile). Allora sì: parola e ascolto, voce e silenzio, pulpiti e meditazioni, carta stampata e lettori si incontrano in un dialogo non solo in un rapporto univoco di ascolto.

Angelo Bertani
Giornalista e scrittore
Via Fonte di Fauno, 20 – 00153 Roma

 

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