La
scuola oggi opera in un contesto culturale molto diverso da quello di
cinquant’anni fa. Non tenerne conto significherebbe, per l’educatore,
suicidarsi in quanto educatore, perché parlerebbe a interlocutori
inesistenti e si renderebbe incomprensibile a quelli reali.
Il primo compito di chi educa, oggi, è perciò quello
dell’ascolto. Si tratta di percepire le esigenze del mondo che sta
nascendo e rimettere in discussione quello in cui si era cresciuti, non
per negarlo, ma per operare un necessario discernimento di ciò che è
veramente essenziale.
Oggi c’è chi ritiene il cambiamento culturale in corso un
pericolo e basta. In realtà, ciò che sta accadendo presenta dei rischi,
e nel concetto di rischio è implicito, certamente, l’idea di un
pericolo, ma anche quella di opportunità che gli sono connesse e che
possono spingere ad affrontarlo con la speranza di un guadagno.
La pericolosità della cultura contemporanea deriva spesso
dalla distorsione di istanze in sé positive, che è necessario
purificare, non respingere in blocco. Ciò significa che non si tratta di
tornare indietro (davvero vorremmo tornare alla società di cinquanta, di
cento anni fa?), ma di andare avanti, per cercare nuovi e più umani
equilibri.
In questo spirito ci accosteremo al problema
dell’educazione nella scuola, partendo da una prima presa di coscienza
di ciò che accade nella società e degli aspetti problematici o negativi
che il cambiamento in atto comporta. Però controbilanciata dalla
scoperta di ciò che di positivo è insito in esso, rispetto al passato,
per giungere infine al punto che in questa sede più specificamente ci
interessa, e cioè l’individuazione delle risposte che la scuola può
dare.
Delle quattro grandi dimensioni che sono proprie
dell’educazione - perché lo sono della persona umana - , vale a dire
l’essere (identità personale), l’essere-da (origine e storia), l’essere-con
(sfera relazionale e comunitaria), l’essere-per (il senso, nella duplice
accezione di “significato” e di “direzione”),1
qui svilupperemo solo la prima.
L’eclisse del soggetto
Assistiamo al tramonto delle identità forti, monolitiche.
Don Camillo e Peppone erano ancora personalità tutte d’un pezzo. Un
esempio degli uomini e delle donne che l’età moderna aveva plasmato. Del
resto, il tema dell’io è stato centrale in tutta la cultura moderna, in
filosofia (dal cogito cartesiano all’Io kantiano, all’Io assoluto
dell’idealismo), nella letteratura (la figura più o meno titanica dell’
“eroe” delle tragedie e dei romanzi moderni), nelle arti figurative (il
ritratto), nella musica (dove i notturni di Chopin e le sinfonie di
Beethoven fanno emergere in modo toccante la sfera della soggettività.
Per avere una rappresentazione sintetica di ciò che è
accaduto nella postmodernità si può forse confrontare l’immagine del
volto umano, così come era raffigurato dai grandi pittori dal
Rinascimento in poi, con quella che si può trovare in un dipinto di
Picasso: da una visione armonica, composta, unificata dalla legge della
prospettiva, a un groviglio di linee e di colori tesi a rappresentare i
tratti del viso sotto prospettive diverse e incompatibili fra di loro,
fino a renderlo irriconoscibile.
Qualcosa di simile si è verificato anche nella
letteratura (Uno, nessuno, centomila di Pirandello), nella musica
(pensiamo a quella dodecafonica), nella filosofia. Per Nietzsche l’io è
solo «una favola, una finzione, un gioco di parole».2
Esso altro non è - a suo avviso - se non una maschera che nasconde il
fluire caotico delle pulsioni contraddittorie da cui l’uomo, come del
resto l’intera realtà, è attraversato.
Sulla scia di questo pensatore, tutta la riflessione
contemporanea sembra avere come obiettivo quello di «decostruire la
soggettività classica e in tal modo disfare la presunta unità del
soggetto».3 Al di là del soggetto
s’intitola il saggio di uno dei più noti pensatori italiani di questi
ultimi anni, Gianni Vattimo.
Questa frammentazione dell’io assume, nella concretezza
dell’esperienza quotidiana, la forma di una radicale difficoltà dei
giovani – ma non solo loro - di trovare una propria unità interiore.
Complice la sovrabbondanza di stimoli, di messaggi, di opportunità, di
esperienze, offerta - meglio: imposta - dalla società consumistica. Essi
tendono a disperdersi in mille identità diverse, tutte coesistenti
dentro di loro. Uno studente, qualche anno fa, scriveva in un tema:
«Tento vanamente di essere il socio di maggioranza di quella società per
azioni a maggioranze variabili che è il mio io».
Per questo è diventato difficile, oggi, parlare di
vocazione, alla vita religiosa, ma anche al matrimonio o alla politica o
ad un certo lavoro.Se al posto dell’unico soggetto c’è una miriade di
pulsioni e di istanze - una nebulosa -, se questa nebulosa per di più è
in continuo cambiamento, chi dovrebbe essere il soggetto della chiamata?
La ricchezza delle
potenzialità
Per quanto problematico, questo quadro non va tuttavia
considerato in chiave solo negativa. Non vogliamo ritornare al modello
delle identità “forti” e univoche. È stato in base ad esso che tante
persone – le donne, soprattutto – hanno dovuto rinunziare alla ricchezza
di aspirazioni, attitudini, doti naturali, per sovrapporre al loro vero
volto la maschera di ferro di una identità unica, rispetto a cui questa
ricchezza era uno scandalo.
È vero. Ora il dubbio è diventato il compagno
inseparabile, piuttosto che il nemico, della fede. La problematicità del
cammino ha sostituito la sicurezza sovrana con cui un tempo lo si
percorreva. Ma siamo così sicuri che questa debolezza non sia in fondo
più vicina al Vangelo del titanismo dell’io moderno? Che il modello
cristiano della kenosis non si trovi meglio rappresentato in
questi travagliati percorsi a zig zag, che nelle strade senza bivio del
passato? E la vulnerabilità non è forse, nell’ottica cristiana, il
contrassegno di un Dio che, per farsi simile
a noi, ha voluto essere povero, indifeso, smarrito?
La sfida odierna - e non solo per i cattolici! - è di
correre il rischio della complessità e della fragilità determinate dal
nuovo clima culturale, vincendo la tentazione di demonizzarle, senza
però rinunziare, al tempo stesso, a recuperare un centro interiore del
soggetto, che gli consenta di essere se stesso anche in questa
molteplicità di aspetti e di esperienze. È chiaro il ruolo che può e
deve avere in questo l’educazione. Qui ci proponiamo di prendere in
considerazione quella che si svolge nell’ambito della scuola.
Oltre la scissione tra
cultura e vita
Ciò che colpisce e che dovrebbe allarmare,
nell’esperienza scolastica, non è l’ignoranza degli alunni - quella è
fisiologica, altrimenti non frequenterebbero la scuola - ma la loro
noia. Le cose che studiano non li interessano. Perché la scuola non
riesce ad evidenziare il loro rapporto
con la vita reale di questi ragazzi. Nella migliore delle
ipotesi li porta all’interno di un mondo incantato di conoscenze che,
per quanto in sé interessanti, non hanno nulla a che fare con i loro
problemi di ogni giorno. E, quando, al suono dell’ultima campana, gli
studenti escono dalle aule e dai laboratori, essi si lasciano alle
spalle con un sospiro di sollievo quel mondo, per immergersi nelle
occupazioni che li interessano davvero e che, simmetricamente, non hanno
ai loro occhi nulla a che fare con le cose studiate la mattina. Il
dramma del nostro sistema scolastico, più che dai ministri (anche da
loro, certo!), dipende da questa triste oscillazione tra le lunghe ore
della mattinata (e in certi casi di parte del pomeriggio) impiegate nel
coltivare una cultura senza vita, e il resto della giornata, dedicato a
una vita senza cultura.
In questo modo la scuola contribuisce a spezzare l’unità
della persona, piuttosto che a ricomporla. Non solo perché introduce la
schizofrenia fra l’alunno e il ragazzo reale, ma perché – con tale
scissione non fornisce a quest’ultimo l’aiuto di cui avrebbe bisogno per
trovare chiavi di lettura che gli consentano di unificare le sue
esperienze esistenziali. Piuttosto che costituire lo spazio di
riflessione e di presa di coscienza necessarie allo scopo di fare ordine
in esse, la scuola si trasforma in una di queste esperienze - forse
quella meno piacevole – complicando ulteriormente la vita del ragazzo.
La soluzione sta nel puntare su un tipo di studio che
valorizzi il rapporto tra le diverse discipline con la vita di ogni
giorno, dando così “carne e sangue” alle une e luce all’altra.
Educare a pensare
Un secondo modo con cui la scuola, nella sua specifica
funzione culturale, può fronteggiare e aiutare a superare la
disintegrazione del soggetto, è quello di educare a pensare. Il pensare
non è la stessa cosa del conoscere.
La nostra scuola spesso fa studiare le varie discipline
senza situarle in una visione d’insieme. Perfino all’interno delle
singole materie non si cura di frequente il collegamento fra i loro
diversi aspetti. Nella maggior parte dei casi, si cura l’analisi, ma
difetta la sintesi.
Non si trovano i punti di collegamento perché si studiano
le risposte senza passare attraverso le domande. La scuola, sulla scia
della famiglia, dovrebbe insegnare a pensare. Si tratta di stabilire
collegamenti tra i propri stati d’animo, i propri desideri, le proprie
sensazioni. Pensare è il modo per unificarsi. È significativo che il
verbo greco lego, da cui deriva il sostantivo logos,
“pensiero”, “ragione”, “discorso articolato”, significhi in quella
lingua anche “unisco”, “collego”. Pensare è un collegare gli atomi
dispersi, i flash della vita, un raccoglierli in unità. E la
scuola, se vuole aiutare i giovani a ritrovarsi, in una società che
invece fa di tutto per disperderli, deve spingerli, prima che a
“imparare”, a fermarsi, a riflettere, a mettere insieme i frammenti
caotici delle loro esperienze.
1 Per questa impostazione complessiva, cf G. SAVAGNONE-A.
BRIGUGLIA, Il coraggio di educare, LDC, Torino (Leumann) 2009
(ristampato nel 2010), a cui ci permettiamo di rinviare.
2 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli,
Mondadori, Milano 1975, 72.
3 R. BRAIDOTTI, «La molteplicità: un’etica per la nostra
epoca, oppure meglio cyborg chedea», in D. J. HARAWAY, Manifesto
cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L.
Borghi, Feltrinelli, Milano 1995, 23.
Giuseppe Savagnone
Direttore del Centro diocesano
per la pastorale della cultura
Via Francesco Ferrara, 8 - 90141 Palermo