n. 9
settembre 2012

 

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La vita buona del Vangelo
Percorsi educativi nella scuola

GIUSEPPE SAVAGNONE

 

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La scuola oggi opera in un contesto culturale molto diverso da quello di cinquant’anni fa. Non tenerne conto significherebbe, per l’educatore, suicidarsi in quanto educatore, perché parlerebbe a interlocutori inesistenti e si renderebbe incomprensibile a quelli reali.

Il primo compito di chi educa, oggi, è perciò quello dell’ascolto. Si tratta di percepire le esigenze del mondo che sta nascendo e rimettere in discussione quello in cui si era cresciuti, non per negarlo, ma per operare un necessario discernimento di ciò che è veramente essenziale.

Oggi c’è chi ritiene il cambiamento culturale in corso un pericolo e basta. In realtà, ciò che sta  accadendo presenta dei rischi, e nel concetto di rischio è implicito, certamente, l’idea di un pericolo, ma anche quella di opportunità che gli sono connesse e che possono spingere ad affrontarlo con la speranza di un guadagno.

La pericolosità della cultura contemporanea deriva spesso dalla distorsione di istanze in sé positive, che è necessario purificare, non respingere in blocco. Ciò significa che non si tratta di tornare indietro (davvero vorremmo tornare alla società di cinquanta, di cento anni fa?), ma di andare avanti, per cercare nuovi e più umani equilibri.

In questo spirito ci accosteremo al problema dell’educazione nella scuola, partendo da una prima presa di coscienza di ciò che accade nella società e degli aspetti problematici o negativi che il cambiamento in atto comporta. Però controbilanciata dalla scoperta di ciò che di positivo è insito in esso, rispetto al passato, per giungere infine al punto che in questa sede più specificamente ci interessa, e cioè l’individuazione delle risposte che la scuola può dare.

Delle quattro grandi dimensioni che sono proprie dell’educazione - perché lo sono della persona umana - , vale a dire l’essere (identità personale), l’essere-da (origine e storia), l’essere-con (sfera relazionale e comunitaria), l’essere-per (il senso, nella duplice accezione di “significato” e di “direzione”),1 qui svilupperemo solo la prima.

L’eclisse del soggetto

Assistiamo al tramonto delle identità forti, monolitiche. Don Camillo e Peppone erano ancora personalità tutte d’un pezzo. Un esempio degli uomini e delle donne che l’età moderna aveva plasmato. Del resto, il tema dell’io è stato centrale in tutta la cultura moderna, in filosofia (dal cogito cartesiano all’Io kantiano, all’Io assoluto dell’idealismo), nella letteratura (la figura più o meno titanica dell’ “eroe” delle tragedie e dei romanzi moderni), nelle arti figurative (il ritratto), nella musica (dove i notturni di Chopin e le sinfonie di Beethoven fanno emergere in modo toccante la sfera della soggettività.

Per avere una rappresentazione sintetica di ciò che è accaduto nella postmodernità si può forse confrontare l’immagine del volto umano, così come era raffigurato dai grandi pittori dal Rinascimento in poi, con quella che si può trovare in un dipinto di Picasso: da una visione armonica, composta, unificata dalla legge della prospettiva, a un groviglio di linee e di colori tesi a rappresentare i tratti del viso sotto prospettive diverse e incompatibili fra di loro, fino a renderlo irriconoscibile.

Qualcosa di simile si è verificato anche nella letteratura (Uno, nessuno, centomila di Pirandello), nella musica (pensiamo a quella dodecafonica), nella filosofia. Per Nietzsche l’io è solo «una favola, una finzione, un gioco di parole».2 Esso altro non è - a suo avviso - se non una maschera che nasconde il fluire caotico delle pulsioni contraddittorie da cui l’uomo, come del resto l’intera realtà, è attraversato.

Sulla scia di questo pensatore, tutta la riflessione contemporanea sembra avere come obiettivo quello di «decostruire la soggettività classica e in tal modo disfare la presunta unità del soggetto».3 Al di là del soggetto s’intitola il saggio di uno dei più noti pensatori italiani di questi ultimi anni, Gianni Vattimo.

Questa frammentazione dell’io assume, nella concretezza dell’esperienza quotidiana, la forma di una radicale difficoltà dei giovani – ma non solo loro - di trovare una propria unità interiore. Complice la sovrabbondanza di stimoli, di messaggi, di opportunità, di esperienze, offerta - meglio: imposta - dalla società consumistica. Essi tendono a disperdersi in mille identità diverse, tutte coesistenti dentro di loro. Uno studente, qualche anno fa, scriveva in un tema: «Tento vanamente di essere il socio di maggioranza di quella società per azioni a maggioranze variabili che è il mio io».

Per questo è diventato difficile, oggi, parlare di vocazione, alla vita religiosa, ma anche al matrimonio o alla politica o ad un certo lavoro.Se al posto dell’unico soggetto c’è una miriade di pulsioni e di istanze - una nebulosa -, se questa nebulosa per di più è in continuo cambiamento, chi dovrebbe essere il soggetto della chiamata?

La ricchezza delle potenzialità

Per quanto problematico, questo quadro non va tuttavia considerato in chiave solo negativa. Non vogliamo ritornare al modello delle identità “forti” e univoche. È stato in base ad esso che tante persone – le donne, soprattutto – hanno dovuto rinunziare alla ricchezza di aspirazioni, attitudini, doti naturali, per sovrapporre al loro vero volto la maschera di ferro di una identità unica, rispetto a cui questa ricchezza era uno scandalo.

È vero. Ora il dubbio è diventato il compagno inseparabile, piuttosto che il nemico, della fede. La problematicità del cammino ha sostituito la sicurezza sovrana con cui un tempo lo si percorreva. Ma siamo così sicuri che questa debolezza non sia in fondo più vicina al Vangelo del titanismo dell’io moderno? Che il modello cristiano della kenosis non si trovi meglio rappresentato in questi travagliati percorsi a zig zag, che nelle strade senza bivio del passato? E la vulnerabilità non è forse, nell’ottica cristiana, il contrassegno di un Dio che, per farsi simile

a noi, ha voluto essere povero, indifeso, smarrito?

La sfida odierna - e non solo per i cattolici! - è di correre il rischio della complessità e della fragilità determinate dal nuovo clima culturale, vincendo la tentazione di demonizzarle, senza però rinunziare, al tempo stesso, a recuperare un centro interiore del soggetto, che gli consenta di essere se stesso anche in questa molteplicità di aspetti e di esperienze. È chiaro il ruolo che può e deve avere in questo l’educazione. Qui ci proponiamo di prendere in considerazione quella che si svolge nell’ambito della scuola.

Oltre la scissione tra cultura e vita

Ciò che colpisce e che dovrebbe allarmare, nell’esperienza scolastica, non è l’ignoranza degli alunni - quella è fisiologica, altrimenti non frequenterebbero la scuola - ma la loro noia. Le cose che studiano non li interessano. Perché la scuola non riesce ad evidenziare il loro rapporto

con la vita reale di questi ragazzi. Nella migliore delle ipotesi li porta all’interno di un mondo incantato di conoscenze che, per quanto in sé interessanti, non hanno nulla a che fare con i loro problemi di ogni giorno. E, quando, al suono dell’ultima campana, gli studenti escono dalle aule e dai laboratori, essi si lasciano alle spalle con un sospiro di sollievo quel mondo, per immergersi nelle occupazioni che li interessano davvero e che, simmetricamente, non hanno ai loro occhi nulla a che fare con le cose studiate la mattina. Il dramma del nostro sistema scolastico, più che dai ministri (anche da loro, certo!), dipende da questa triste oscillazione tra le lunghe ore della mattinata (e in certi casi di parte del pomeriggio) impiegate nel coltivare una cultura senza vita, e il resto della giornata, dedicato a una vita senza cultura.

In questo modo la scuola contribuisce a spezzare l’unità della persona, piuttosto che a ricomporla. Non solo perché introduce la schizofrenia fra l’alunno e il ragazzo reale, ma perché – con tale scissione non fornisce a quest’ultimo l’aiuto di cui avrebbe bisogno per trovare chiavi di lettura che gli consentano di unificare le sue esperienze esistenziali. Piuttosto che costituire lo spazio di riflessione e di presa di coscienza necessarie allo scopo di fare ordine in esse, la scuola si trasforma in una di queste esperienze - forse quella meno piacevole – complicando ulteriormente la vita del ragazzo.

La soluzione sta nel puntare su un tipo di studio che valorizzi il rapporto tra le diverse discipline con la vita di ogni giorno, dando così “carne e sangue” alle une e luce all’altra.

Educare a pensare

Un secondo modo con cui la scuola, nella sua specifica funzione culturale, può fronteggiare e aiutare a superare la disintegrazione del soggetto, è quello di educare a pensare. Il pensare non è la stessa cosa del conoscere.

La nostra scuola spesso fa studiare le varie discipline senza situarle in una visione d’insieme. Perfino all’interno delle singole materie non si cura di frequente il collegamento fra i loro diversi aspetti. Nella maggior parte dei casi, si cura l’analisi, ma difetta la sintesi.

Non si trovano i punti di collegamento perché si studiano le risposte senza passare attraverso le domande. La scuola, sulla scia della famiglia, dovrebbe insegnare a pensare. Si tratta di stabilire collegamenti tra i propri stati d’animo, i propri desideri, le proprie sensazioni. Pensare è il modo per unificarsi. È significativo che il verbo greco lego, da cui deriva il sostantivo logos, “pensiero”, “ragione”, “discorso articolato”, significhi in quella lingua anche “unisco”, “collego”. Pensare è un collegare gli atomi dispersi, i flash della vita, un raccoglierli in unità. E la scuola, se vuole aiutare i giovani a ritrovarsi, in una società che invece fa di tutto per disperderli, deve spingerli, prima che a “imparare”, a fermarsi, a riflettere, a mettere insieme i frammenti caotici delle loro esperienze.

 

1 Per questa impostazione complessiva, cf G. SAVAGNONE-A. BRIGUGLIA, Il coraggio di educare, LDC, Torino (Leumann) 2009 (ristampato nel 2010), a cui ci permettiamo di rinviare.

2 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, Mondadori, Milano 1975, 72.

3 R. BRAIDOTTI, «La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg chedea», in D. J. HARAWAY, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995, 23.

 

Giuseppe Savagnone
Direttore del Centro diocesano
per la pastorale della cultura
Via Francesco Ferrara, 8 - 90141 Palermo

 

 

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