n. 10
ottobre 2012

 

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Economia e società
Anatomia di una crisi

GIANPAOLO SALVINI

 

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Da diversi anni ormai l’economia mondiale si trova in una crisi dalla quale non riesce ancora ad uscire, anche se periodicamente si afferma che «il peggio è passato ». Essa è arrivata in modo sostanziale inaspettata, anche se non mancavano indizi che avrebbero potuto aiutare a prevederla. Ma, come è noto, l’economia è stata definita dall’autorevole rivista inglese The Economist, la scienza che studia come mai le sue previsioni non si avverano.

Di fatto, si è innescata una spirale perversa che, nei Paesi industrializzati dell’Occidente, ha provocato una crisi anzitutto finanziaria, ma che ha avuto pesanti ricadute anche sull’economia cosiddetta reale, in forma di recessione, provocando calo dei consumi, fallimenti prima di banche, poi di imprese, disoccupazione ecc. Se le falle peggiori, secondo alcuni, sembrano essere state tappate, non si vede ancora una ripresa generalizzata che consenta di invertire la tendenza. Gli Autori divergono nello stabilire le cause remote della crisi, anche se concordano su quelle più prossime. Anzitutto si è espansa a dismisura la finanza, che opera quasi senza controllo, consentendo manovre speculative molto azzardate. Per spiegare il malcontento e la sfiducia diffusa, si può dire che la nostra società è in preda a una grande crisi di distribuzione, alla quale non si è ancora riusciti a porre rimedio.

Nel dopoguerra si è innescata una vera corsa al benessere, considerato un ideale da mantenere a qualunque prezzo, perché la sua diminuzione comporta un costo politico insostenibile nelle nostre democrazie, che si reggono sul consenso popolare. Una società ben ordinata prospera finché riesce a distribuire in modo equo il benessere che produce. All’inizio, dovendo ricostruire sulle rovine della guerra, è stato facile, grazie ai forti aumenti di produttività e allo slancio della ricostruzione. Più tardi, si è fatto ricorso all’inflazione, che consentiva di distribuire più denaro (ma svalutato) e poi, quando è stata bloccata per evitarne gli effetti perversi, si è fatto ricorso al debito pubblico o privato (un sistema non poi tanto diverso). Ma la distribuzione della ricchezza si è rivelata sempre più iniqua.

Questo sembra costituire il vero «peccato originale» del nostro sistema economico, dal quale non siamo ancora riusciti a liberarci.

 

Lo scoppio del bubbone

Concretamente il bubbone è scoppiato nel 2008 negli Stati Uniti dove molte banche hanno concesso un enorme numero di crediti a famiglie (molte addirittura prive di reddito) desiderose di acquistare una casa, e sicure, in caso di necessità, di poterla rivendere e ripagare così il debito contratto. Ma quando le cose sono andate male, il mercato delle case è crollato ed esse sono risultate invendibili. Oltre 200 banche sono fallite, tra le quali alcune molto grandi, come la Lehman Brothers, giudicate anzi troppo grandi per poter fallire. Si è diffuso il panico al quale il Governo americano ha posto rimedio pompando enormi quantità di denaro nel sistema, in modo da evitare nuovi fallimenti, ma rischiando di diffondere inflazione nel mondo.

In un’economia globalizzata come quella attuale, la crisi si è rapidamente estesa anche all’Europa e in particolare ai Paesi più deboli dell’area dell’euro. I Paesi europei infatti sono ancora molto diversi tra loro. La Grecia, l’anello più debole della catena, aveva falsificato i bilanci per poter entrare nella zona euro e, quando i nodi sono venuti al pettine, si è trovata sull’orlo del fallimento. Irlanda, Portogallo e Spagna (Paese in cui le banche avevano pure concesso enormi crediti all’edilizia privata) si sono trovati a loro volta in difficoltà. L’Unione Europea, di cui fanno parte, ha concesso cospicui aiuti, ma in cambio di misure di austerità che riducessero la spesa pubblica e rimettessero i conti in ordine. Cioè proprio quelle misure che i Governi non vorrebbero mai prendere e che, in Grecia, hanno causato disordini e rivolte sociali.

Per l’Italia il caso è leggermente diverso, nel senso che le famiglie sono poco indebitate (siamo anzi tra i popoli più risparmiatori) ma è lo Stato ad essere sommerso dai debiti, il cui totale ammonta a oltre il 120% di tutto il PIL (Prodotto Interno Lordo), cioè è maggiore di tutto quanto si produce in un anno. Entrando nell’euro, anche l’Italia si era impegnata a far scendere il proprio debito pubblico al 60%, valore, per la verità, che attualmente nessun Governo europeo (né gli USA) è riuscito a mantenere, vista la necessità di spendere per sostenere l’economia. In Italia però nessuna banca è fallita.

 

Conseguenze in Europa

In realtà le cose sono molto più complesse di quello che stiamo descrivendo. I grandi aiuti concessi alla Grecia, in un primo tempo, non erano tanto destinati ad aiutare il Paese in difficoltà, quanto ad aiutare le banche francesi e tedesche che (attirati dagli alti rendimenti) avevano acquistato grandi quantità di titoli del debito pubblico greco (equivalenti ai nostri Bot e Btp), che rischiavano di diventare carta straccia in caso di fallimento della Grecia, travolgendo anche le banche che li avevano acquistati.

Gli Stati Uniti, dimenticandosi di aver provocato la crisi, nata a casa loro, hanno poi chiesto con vigore all’Europa di mettere ordine in casa propria, per rimettere in marcia l’economia mondiale. La cosa non è così semplice. Gli Stati Uniti infatti hanno un governo e una banca centrale che ha un potere effettivo e le cui misure monetarie e creditizie possono essere imposte a tutta la federazione. Non è così per l’Europa che, al termine di un lungo e faticoso cammino di unificazione, ancora tutt’altro che completato, ha compiuto il coraggioso passo di adottare una moneta unica.

Questo è possibile, e durevole, solo se si unificano anche le economie e le politiche, cosa che non è affatto avvenuto. I vantaggi della moneta unica (che speriamo irreversibile) sono evidenti e indiscutibili, ma la sua sopravvivenza è legata a un maggiore controllo sui bilanci e sulle misure prese da ogni Stato da parte delle autorità centrali. Gli Stati sono molto gelosi delle proprie prerogative sovrane e non vogliono perdere fette di sovranità. Così è vero che la politica monetaria comune viene decisa a Francoforte, ma ogni Stato ha un regime fiscale diverso, può stabilire età di pensionamento diverse, leggi sui licenziamenti e sulle assunzioni molto differenti e così via.

Unificare o uniformare tutto questo significa realizzare un’unione politica che gli Stati europei non sembrano aver nessuna voglia di attuare. Inoltre, ogni Paese ha un proprio parlamento e proprie elezioni, e prima di prendere misure impopolari (anche se necessarie) ogni governante pensa alle prossime scadenze elettorali, diverse da Stato a Stato e pesantemente condizionanti.

Per quanto riguarda l’Italia, il Governo precedente si è accorto di avere perso ogni credibilità internazionale e ha avuto l’accortezza di dimettersi prima di essere sfiduciato. Ha affidato a un gruppo di ministri «tecnici» (con un’anomalia per una democrazia moderna) il compito di operare le dolorose riforme necessarie che esso non avrebbe mai avuto la forza di adottare. In realtà il Governo tecnico ha soltanto il potere che i partiti gli conferiscono, visto che i singoli provvedimenti devono poi essere approvati in Parlamento, formato da politici.

 

Come ritrovare fiducia

Le prime indispensabili misure prese dal Governo, molto più autorevole del precedente anche in campo internazionale, erano dirette soprattutto a far tornare i conti, abolendo ad esempio le pensioni di anzianità, esistenti solo in Italia, concesse quando il boom economico italiano sembrava inarrestabile, e che ovviamente andavano soppresse. Il mettere mano all’eliminazione o al ridimensionamento di caste e di corporazioni molto protette, si è rivelato arduo e delicato. In pratica il sistema italiano è protettivo per chi ha già un lavoro, penalizzando però chi il lavoro non ce l’ha e in particolare i giovani. Tutti sono a favore delle riforme, purché vengano fatte a spese degli altri, senza toccare i loro privilegi.

Bisogna anche dire che riforme incisive comportano un sacrificio immediato per chi ne è colpito, mentre i vantaggi per l’intera economia sono per adesso soltanto previsioni e non si sa bene quando si verificheranno. Purtroppo i primi a dare il cattivo esempio sono stati i politici che hanno operato soltanto esigui tagli ai propri privilegi e vantaggi. A questo atteggiamento corporativo si aggiunge il pensiero delle prossime elezioni alle quali nessun partito vorrebbe arrivare pesantemente svantaggiato dalle misure che ha approvato. Per fortuna nessuno, per ora, della strana coalizione che sostiene Mario Monti, vuole assumersi la colpa di far cadere un governo, ritenuto l’ultima chance per rimettere le cose in ordine e per riacquistare credibilità internazionale.

Ma se il Governo è riuscito a rimettere i conti abbastanza in ordine, la strada per la seconda metà del compito, cioè riavviare il sistema economico in modo che si facciano investimenti, si assumano lavoratori, si produca reddito…, è tutta in salita.

Si tratta infatti di infondere fiducia, senza la quale nessuno si impegna o fa investimenti, e questa non la si diffonde per decreto. Inoltre non è un compito che dipenda soltanto dai nostri governanti. L’economia italiana, ad es., vive molto di esportazione, ma se le cose all’estero vanno male, si compreranno pochi prodotti italiani e così via. È una delicata partita quella che si gioca per uscire dalla crisi, cosa che tutti vorrebbero, e per istituire regole che impediscano il suo ripetersi. Tutti invocano nuove regole, quando le cose vanno male, ma si dimenticano non appena il peggio sembra alle spalle. Inoltre si comincia subito a litigare non appena si scende al concreto per decidere quali regole, chi deve farle e chi deve farle osservare.

 

Un’occasione di solidarietà

È necessario regolare la speculazione internazionale, creare sostegni efficaci per gli Stati in difficoltà, rendere operante la solidarietà internazionale. Occorre poi eliminare alcuni meccanismi perversi. Ad esempio, se l’Italia, che resta pur sempre una grande potenza industriale, è giudicata poco affidabile a causa dell’elevato debito pubblico, per ottenere finanziamenti sul mercato (cioè per invogliare all’acquisto di Bot e Btp) dovrà alzare i tassi di remunerazione, accumulando una spesa per interessi che può rivelarsi a lungo andare insostenibile e che sottrae risorse che si sarebbero potute utilizzare per fare investimenti o per ridurre il debito.

La Germania, viceversa, giudicata più solida e affidabile, attira capitali che sperano di rischiare molto meno in quel Paese, anche se vengono remunerati a tassi irrisori. Il risultato è che i Paesi più poveri e a rischio, finanziano i Paesi che meno ne hanno bisogno, come la   Germania, perché vedono i loro capitali emigrare alla ricerca di collocamenti «sicuri». Ma nel frattempo, mancando un panorama di stabilità e di certezze (soprattutto politiche), le Borse sono in fibrillazione e la speculazione si scatena con un’altalena quotidiana che tiene tutti col fiato sospeso e che rende assai difficile una razionale progettazione economica.

L’economia ha quindi bisogno di riacquistare fiducia, ma anche un’anima che la renda più solidale; saper regolamentare i mercati (che hanno dimostrato di non saperlo fare da soli), e ritrovare anche all’interno dell’Unione Europea (la grande e positiva novità degli ultimi 60 anni) la compattezza e l’equità che a volte sembra aver perduto per il timore dei vari componenti di perdere il benessere acquisito e che sono stati invece alla base del grandioso progetto ideale dei suoi fondatori. Far crollare il progetto sarebbe una catastrofe per tutti. Come dice Benedetto XVI, la crisi può essere una grande occasione per uscirne creando un mondo migliore per tutti.

GianPaolo Salvini sj
Scrittore di
La Civiltà Cattolica
Via di Porta Pinciana, 1 - 00197 Roma

 

 

 

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