Da
diversi anni ormai l’economia mondiale si trova in una crisi dalla quale
non riesce ancora ad uscire, anche se periodicamente si afferma che «il
peggio è passato ». Essa è arrivata in modo sostanziale inaspettata,
anche se non mancavano indizi che avrebbero potuto aiutare a prevederla.
Ma, come è noto, l’economia è stata definita dall’autorevole rivista
inglese
The
Economist,
la scienza che studia come mai le sue previsioni non si avverano.
Di
fatto, si è innescata una spirale perversa che, nei Paesi
industrializzati dell’Occidente, ha provocato una crisi anzitutto
finanziaria, ma che ha avuto pesanti ricadute anche sull’economia
cosiddetta reale, in forma di recessione, provocando calo dei consumi,
fallimenti prima di banche, poi di imprese, disoccupazione ecc. Se le
falle peggiori, secondo alcuni, sembrano essere state tappate, non si
vede ancora una ripresa generalizzata che consenta di invertire la
tendenza. Gli Autori divergono nello stabilire le cause remote della
crisi, anche se concordano su quelle più prossime. Anzitutto si è
espansa a dismisura la finanza, che opera quasi senza controllo,
consentendo manovre speculative molto azzardate. Per spiegare il
malcontento e la sfiducia diffusa, si può dire che la nostra società è
in preda a una grande crisi di distribuzione, alla quale non si è ancora
riusciti a porre rimedio.
Nel
dopoguerra si è innescata una vera corsa al benessere, considerato un
ideale da mantenere a qualunque prezzo, perché la sua diminuzione
comporta un costo politico insostenibile nelle nostre democrazie, che si
reggono sul consenso popolare. Una società ben ordinata prospera finché
riesce a distribuire in modo equo il benessere che produce. All’inizio,
dovendo ricostruire sulle rovine della guerra, è stato facile, grazie ai
forti aumenti di produttività e allo slancio della ricostruzione. Più
tardi, si è fatto ricorso all’inflazione, che consentiva di distribuire
più denaro (ma svalutato) e poi, quando è stata bloccata per evitarne
gli effetti perversi, si è fatto ricorso al debito pubblico o privato
(un sistema non poi tanto diverso). Ma la distribuzione della ricchezza
si è rivelata sempre più iniqua.
Questo sembra costituire il vero «peccato originale» del nostro sistema
economico, dal quale non siamo ancora riusciti a liberarci.
Lo
scoppio del bubbone
Concretamente il bubbone è scoppiato nel 2008 negli Stati Uniti dove
molte banche hanno concesso un enorme numero di crediti a famiglie
(molte addirittura prive di reddito) desiderose di acquistare una casa,
e sicure, in caso di necessità, di poterla rivendere e ripagare così il
debito contratto. Ma quando le cose sono andate male, il mercato delle
case è crollato ed esse sono risultate invendibili. Oltre 200 banche
sono fallite, tra le quali alcune molto grandi, come la Lehman
Brothers, giudicate anzi troppo grandi per poter fallire. Si è
diffuso il panico al quale il Governo americano ha posto rimedio
pompando enormi quantità di denaro nel sistema, in modo da evitare nuovi
fallimenti, ma rischiando di diffondere inflazione nel mondo.
In
un’economia globalizzata come quella attuale, la crisi si è rapidamente
estesa anche all’Europa e in particolare ai Paesi più deboli dell’area
dell’euro. I Paesi europei infatti sono ancora molto diversi tra loro.
La Grecia, l’anello più debole della catena, aveva falsificato i bilanci
per poter entrare nella zona euro e, quando i nodi sono venuti al
pettine, si è trovata sull’orlo del fallimento. Irlanda, Portogallo e
Spagna (Paese in cui le banche avevano pure concesso enormi crediti
all’edilizia privata) si sono trovati a loro volta in difficoltà.
L’Unione Europea, di cui fanno parte, ha concesso cospicui aiuti, ma in
cambio di misure di austerità che riducessero la spesa pubblica e
rimettessero i conti in ordine. Cioè proprio quelle misure che i Governi
non vorrebbero mai prendere e che, in Grecia, hanno causato disordini e
rivolte sociali.
Per
l’Italia il caso è leggermente diverso, nel senso che le famiglie sono
poco indebitate (siamo anzi tra i popoli più risparmiatori) ma è lo
Stato ad essere sommerso dai debiti, il cui totale ammonta a oltre il
120% di tutto il PIL (Prodotto Interno Lordo), cioè è maggiore di tutto
quanto si produce in un anno. Entrando nell’euro, anche l’Italia si era
impegnata a far scendere il proprio debito pubblico al 60%, valore, per
la verità, che attualmente nessun Governo europeo (né gli USA) è
riuscito a mantenere, vista la necessità di spendere per sostenere
l’economia. In Italia però nessuna banca è fallita.
Conseguenze in Europa
In
realtà le cose sono molto più complesse di quello che stiamo
descrivendo. I grandi aiuti concessi alla Grecia, in un primo tempo, non
erano tanto destinati ad aiutare il Paese in difficoltà, quanto ad
aiutare le banche francesi e tedesche che (attirati dagli alti
rendimenti) avevano acquistato grandi quantità di titoli del debito
pubblico greco (equivalenti ai nostri Bot e Btp), che rischiavano di
diventare carta straccia in caso di fallimento della Grecia, travolgendo
anche le banche che li avevano acquistati.
Gli
Stati Uniti, dimenticandosi di aver provocato la crisi, nata a casa
loro, hanno poi chiesto con vigore all’Europa di mettere ordine in casa
propria, per rimettere in marcia l’economia mondiale. La cosa non è così
semplice. Gli Stati Uniti infatti hanno un governo e una banca centrale
che ha un potere effettivo e le cui misure monetarie e creditizie
possono essere imposte a tutta la federazione. Non è così per l’Europa
che, al termine di un lungo e faticoso cammino di unificazione, ancora
tutt’altro che completato, ha compiuto il coraggioso passo di adottare
una moneta unica.
Questo è possibile, e durevole, solo se si unificano anche le economie e
le politiche, cosa che non è affatto avvenuto. I vantaggi della moneta
unica (che speriamo irreversibile) sono evidenti e indiscutibili, ma la
sua sopravvivenza è legata a un maggiore controllo sui bilanci e sulle
misure prese da ogni Stato da parte delle autorità centrali. Gli Stati
sono molto gelosi delle proprie prerogative sovrane e non vogliono
perdere fette di sovranità. Così è vero che la politica monetaria comune
viene decisa a Francoforte, ma ogni Stato ha un regime fiscale diverso,
può stabilire età di pensionamento diverse, leggi sui licenziamenti e
sulle assunzioni molto differenti e così via.
Unificare o uniformare tutto questo significa realizzare un’unione
politica che gli Stati europei non sembrano aver nessuna voglia di
attuare. Inoltre, ogni Paese ha un proprio parlamento e proprie
elezioni, e prima di prendere misure impopolari (anche se necessarie)
ogni governante pensa alle prossime scadenze elettorali, diverse da
Stato a Stato e pesantemente condizionanti.
Per
quanto riguarda l’Italia, il Governo precedente si è accorto di avere
perso ogni credibilità internazionale e ha avuto l’accortezza di
dimettersi prima di essere sfiduciato. Ha affidato a un gruppo di
ministri «tecnici» (con un’anomalia per una democrazia moderna) il
compito di operare le dolorose riforme necessarie che esso non avrebbe
mai avuto la forza di adottare. In realtà il Governo tecnico ha soltanto
il potere che i partiti gli conferiscono, visto che i singoli
provvedimenti devono poi essere approvati in Parlamento, formato da
politici.
Come ritrovare fiducia
Le
prime indispensabili misure prese dal Governo, molto più autorevole del
precedente anche in campo internazionale, erano dirette soprattutto a
far tornare i conti, abolendo ad esempio le pensioni di anzianità,
esistenti solo in Italia, concesse quando il
boom
economico italiano sembrava inarrestabile, e che ovviamente andavano
soppresse. Il mettere mano all’eliminazione o al ridimensionamento di
caste e di corporazioni molto protette, si è rivelato arduo e delicato.
In pratica il sistema italiano è protettivo per chi ha già un lavoro,
penalizzando però chi il lavoro non ce l’ha e in particolare i giovani.
Tutti sono a favore delle riforme, purché vengano fatte a spese degli
altri, senza toccare i loro privilegi.
Bisogna anche dire che riforme incisive comportano un sacrificio
immediato per chi ne è colpito, mentre i vantaggi per l’intera economia
sono per adesso soltanto previsioni e non si sa bene quando si
verificheranno. Purtroppo i primi a dare il cattivo esempio sono stati i
politici che hanno operato soltanto esigui tagli ai propri privilegi e
vantaggi. A questo atteggiamento corporativo si aggiunge il pensiero
delle prossime elezioni alle quali nessun partito vorrebbe arrivare
pesantemente svantaggiato dalle misure che ha approvato. Per fortuna
nessuno, per ora, della strana coalizione che sostiene Mario Monti,
vuole assumersi la colpa di far cadere un governo, ritenuto l’ultima
chance
per
rimettere le cose in ordine e per riacquistare credibilità
internazionale.
Ma
se il Governo è riuscito a rimettere i conti abbastanza in ordine, la
strada per la seconda metà del compito, cioè riavviare il sistema
economico in modo che si facciano investimenti, si assumano lavoratori,
si produca reddito…, è tutta in salita.
Si
tratta infatti di infondere fiducia, senza la quale nessuno si impegna o
fa investimenti, e questa non la si diffonde per decreto. Inoltre non è
un compito che dipenda soltanto dai nostri governanti. L’economia
italiana, ad es., vive molto di esportazione, ma se le cose all’estero
vanno male, si compreranno pochi prodotti italiani e così via. È una
delicata partita quella che si gioca per uscire dalla crisi, cosa che
tutti vorrebbero, e per istituire regole che impediscano il suo
ripetersi. Tutti invocano nuove regole, quando le cose vanno male, ma si
dimenticano non appena il peggio sembra alle spalle. Inoltre si comincia
subito a litigare non appena si scende al concreto per decidere quali
regole, chi deve farle e chi deve farle osservare.
Un’occasione di solidarietà
È
necessario regolare la speculazione internazionale, creare sostegni
efficaci per gli Stati in difficoltà, rendere operante la solidarietà
internazionale. Occorre poi eliminare alcuni meccanismi perversi. Ad
esempio, se l’Italia, che resta pur sempre una grande potenza
industriale, è giudicata poco affidabile a causa dell’elevato debito
pubblico, per ottenere finanziamenti sul mercato (cioè per invogliare
all’acquisto di Bot e Btp) dovrà alzare i tassi di remunerazione,
accumulando una spesa per interessi che può rivelarsi a lungo andare
insostenibile e che sottrae risorse che si sarebbero potute utilizzare
per fare investimenti o per ridurre il debito.
La
Germania, viceversa, giudicata più solida e affidabile, attira capitali
che sperano di rischiare molto meno in quel Paese, anche se vengono
remunerati a tassi irrisori. Il risultato è che i Paesi più poveri e a
rischio, finanziano i Paesi che meno ne hanno bisogno, come la
Germania, perché vedono i loro capitali emigrare alla ricerca di
collocamenti «sicuri». Ma nel frattempo, mancando un panorama di
stabilità e di certezze (soprattutto politiche), le Borse sono in
fibrillazione e la speculazione si scatena con un’altalena quotidiana
che tiene tutti col fiato sospeso e che rende assai difficile una
razionale progettazione economica.
L’economia ha quindi bisogno di riacquistare fiducia, ma anche un’anima
che la renda più solidale; saper regolamentare i mercati (che hanno
dimostrato di non saperlo fare da soli), e ritrovare anche all’interno
dell’Unione Europea (la grande e positiva novità degli ultimi 60 anni)
la compattezza e l’equità che a volte sembra aver perduto per il timore
dei vari componenti di perdere il benessere acquisito e che sono stati
invece alla base del grandioso progetto ideale dei suoi fondatori. Far
crollare il progetto sarebbe una catastrofe per tutti. Come dice
Benedetto XVI, la crisi può essere una grande occasione per uscirne
creando un mondo migliore per tutti.
GianPaolo Salvini sj
Scrittore di
La Civiltà Cattolica
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