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n.2
marzo/aprile 2015

 

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L'altro accanto a noi

 
di
DONATELLA PAGLIACCI

 

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La situazione attuale, ben messa a fuoco nella Caritas in veritate da Papa Benedetto XVI, richiede da parte di tutti impegno ed attenzione maggiori verso l'altro, soprattutto quando l'altro si trova a vivere situazioni di estrema povertà materiale e spirituale, sempre più diffuse in un tempo, com'è il nostro, segnato da una grave crisi antropologica, morale, economica e spirituale.

Dinanzi a queste condizioni, la riflessione filosofica, teologica e morale, ma anche il Magistero di Papa Francesco ci ricordano che, se al centro della speculazione e della prassi non mettiamo l'essere umano, colto nella sua inalienabile dignità e fragilità, rischiamo di perdere di vista anche il riconoscimento di noi stessi. Su questo punto le parole pronunciate proprio nell'Esortazione apostolica Evangelii Gaudium ci sono d'aiuto e possono servire da punto di riferimento per avviare il nostro breve percorso riflessivo1.

Nel segno del riconoscimento

Per tali ragioni vorremmo provare a riflettere sulle circostanze nelle quali la vicinanza con l'altro può essere vissuta nel segno del riconoscimento, oltre che della semplice formulazione teorica della sua dignità, vorremmo provare a mettere a fuoco se e quando diveniamo realmente capaci di andare incontro all'altro, chiunque egli sia: un fratello, un amico, un collega di lavoro, oppure una persona appena approdata sulle rive delle nostre coste, che domani si metterà in fila per chiedere il riconoscimento dei suoi diritti o solo per avere un piatto di minestra calda per sé o per la sua famiglia.

L'altro, chiunque esso sia e qualunque abito indossi, ha bisogno di calore e di vicinanza che spesso mancano nelle parole e nei nostri gesti ordinari; questa sempre più diffusa indifferenza si aggrava quando l'altro vive in condizioni di estrema fragilità, per cui necessita anche di essere risollevato dalla propria miseria. Spesso assistiamo come degli spettatori alla sofferenza altrui e rimaniamo impassibili dinanzi al dolore dell'altro come se tutto ciò che capita ad altri è per noi un fatto normale che non può che colpire l'altro, senza che questo debba costringerci a mutare il corso delle nostre vite.

Per dirlo ancora con le parole di Papa Benedetto: «Come ci si potrà stupire dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite»2.

In tale direzione, può essere opportuno provare a ripensare il legame di vicinanza con l'altro, vedendolo come un legame fatto di cura, oltre che di rispetto, di vicinanza e di accompagnamento, oltre che di parole penose e pietose, che spesso pronunciamo per essere in pace con noi stessi e prima di passare ad un altro canale sul quale focalizzare la nostra attenzione.

Vedere e sentire l'altro

L'incontro con l'altro che ci interpella e ci chiede di metterci in ascolto dei suoi bisogni spesso non è programmabile, non è frutto delle nostre scelte e non dipende dalla nostra volontà di incontrare altri nel nostro cammino, perché spesso l'altro ci sorprende, ci interpella, mette alla prova le nostre convinzioni e le promesse che facciamo quando dichiariamo che ci impegneremo ad occuparci degli altri.

In questa direzione il racconto evangelico del Samaritano costituisce un valido termine di riferimento e un'occasione preziosa per riflettere sul modo nel quale ci poniamo accanto all'altro (Lc 10,25-37). Infatti, il racconto ripropone, attraverso il tema centrale della compassione, la questione del rapporto tra distanza e prossimità con l'altro.

Lo sguardo del Samaritano sullo sventurato non è uno sguardo come quello degli altri, è lo sguardo di chi si lascia sorprendere ed interpellare dalla sofferenza dell'altro, di chi non decide di voltarsi, di chi sente che essere vicino all'altro significa anche fare qualcosa per lui, soccorrerlo, risollevarlo, prendersene cura, perché la sventura che ha colpito il malcapitato è anche la mia sventura e non può essere trascurata.

In questo senso essere vicino all'altro è prendersi cura di lui, essere interpellati dal suo dolore e dalla sua situazione. Quest'attenzione fatta di calore e di tenerezza, questa vicinanza e la conseguente decisione prendono il nome di compassione. Sì perché la compassione, che proviene dall'originaria capacità di vedere e sentire l'altro3, è strettamente connessa con l'empatia, non enfatizza e non ostenta il bene che compie, non nega l'esistenza del male, ma è in grado di riscattarlo, perché è attiva e si mette all'opera mediante il dialogo e la cura. La compassione non è in tal modo passiva, ma è il volto attivo dell'empatia, che ne è la condizione di possibilità4. Si potrebbe ammettere che la compassione possiede, rispetto ai termini di pietà e misericordia, una costitutiva propensione per la partecipazione, l'accompagnamento, la presenza e la condivisione bene espressa nel prefisso cum. È un essere- con-l'altro che può voler dire passione, interesse, sollecitudine, prossimità e partecipazione, ma mai violenza o espropriazione.

       

Apertura ed operosità

Compatire è un altro modo di sentire l'altro, diverso dall'amore personale, dalla fraternità e dall'amicizia, non solo perché l'altro non è prescelto, ma è altro semplicemente e irriducibilmente, ma anche perché nasce da una situazione del tutto negativa, in cui l'altro si trova. È un'emozione mediante la quale entro in contatto con chiunque e, nel momento stesso in cui sento il suo soffrire, questo altro che è altrove e distante diventa per me il mio prossimo. In questo senso è sì un accorciare la distanza che mi separa dall'altro, che nasce però proprio dalla mia possibilità di distanziarmi dall'altro.

La compassione è dunque un genere di apertura e di accompagnamento, di tenerezza e di sostegno, di fiducia e di incoraggiamento; non è solo un'affezione passiva, un sentire l'altro nel momento del suo soffrire, ma un'attiva e creativa propensione all'altro, è un adoprarsi per l'altro, un agire con e per lui, nel momento in cui l'altro non è in grado di autosollevarsi. Un tale sporgersi verso l'altro, non può che sorgere da una disposizione costitutiva, una apertura ad altri, resa possibile dalla capacità di sentire, capacità che poi, esercitandosi, matura e cresce assumendo le forme dell'accompagnamento e della cura5.

La compassione non si fonda su un rapporto paternalistico con l'altro, non tende a destituire l'altro, sottrargli il suo potere, ma si prefigge solo di fargli sentire la docile presenza di qualcuno che è in grado di rassicurarlo: ecco ci sono, nonostante le tue ferite, nonostante il tuo aspetto dimesso e sporco, io vedo la tua dignità, riconosco il tuo valore, e sono qui con te accanto a te per difenderti e restituirti dignità e rispetto nei luoghi e con coloro che non possono, non vogliono, non sanno né sentirevedere!

Essere compassionevoli è dunque un abito, un modo di essere e la compassione è la virtù di una prossimità nella distanza, perché sa mantenersi in equilibrio tra sentire, giudicare e saper agire, anzitutto accogliendo l'altro con tutto il suo essere, in maniera totale e poi agendo in vista del suo bene, perché essere compassionevoli significa non solo riconoscere, ma anche insegnare a riconoscere che ciascuno è un bene in sé6.

Non essendo una semplice emozione, la compassione richiede una sapienza del sentire, un sapersi volgere verso l'altro, verso la sua sofferenza, saper riconoscere quando egli soffrendo sta silenziosamente invocando il nostro aiuto o quando ci chiede di gioire con lui. Com-patire e con-gioire sono fenomeni dello stesso sentire-con, della percezione del valore insopprimibile dell'altro, come direbbe Max Scheler, a prescindere dalla condizione di estrema vulnerabilità della sua sofferenza.

La trappola seducente dell'indifferenza

Non siamo in grado di riconoscere e alleviare la sofferenza altrui se non siamo educati a vedere. Come è accaduto ai passanti della parabola del samaritano o ai compagni di Filottete, il tempo presente ci ha educato a passare oltre, a girare canale, a sintonizzarci su altre modulazioni di frequenza. Tutto ci invita a passare ad un altro argomento, ad un altro contesto, ad un'altra persona che non sia quella lì, che vedo soffrire.

Dietro la scusa dell'impotenza (Cosa posso fare io?) si nasconde la trappola seducente e strisciante dell'indifferenza che a poco a poco persuade e allontana fino a non permetterci più di vedere l'altro, guardarlo in faccia, scorgere la sua umanità ferita e piagata, ridotta ai limiti minimi dell'umano.

L'eccesso di distanza: questo è dunque il problema con il quale dobbiamo seriamente misurarci, perché rischiamo di pensare che il vivere bene sia mantenere la massima distanza dall'altro, ma questo in realtà ci conduce ad annullare la possibilità stessa della relazione; se pongo tra me e l'altro una distanza tale che mi impedisce di sentire il dolore dell'altro, probabilmente questa distanza è già interna a me, è la diluizione del mio stesso sentire, una forma di ottundimento cosciente di ogni sentire. Disabituandoci a poco a poco a sentire, o vivendo sempre in modo superficiale l'esperienza dell'incontro e del dialogo con sé e con altri, l'altro rimane sempre fuori, fuori dalla mia portata, lontano, altrove rispetto a me, anche quando è lì di fronte, presso di me, fino al paradosso estremo che il più vicino è sempre il più lontano, il meno visto. Ripercorrere la parabola della compassione ci aiuta a ritrovare le tracce del nostro sentire, a ricomporre la trama del nostro vissuto emozionale nella complessità del suo darsi, a riconoscere che «il prossimo è il primo Tu»7, ma ci offre anche la possibilità per «mettersi alla ricerca di ciò che, in ogni essere umano, fonda l'unità di sensibilità, emozioni, conoscenza, volontà - ma anche - slancio verso l'assoluto»8 e per lavorare contro la disaffezione dello sguardo che è il peggior nemico della compassione.

 

1 «Chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l'altro e cercare il suo bene» (Francesco, Evangelii Gaudium II, 9).

2 Benedetto XVI, Caritas in veritate, 75.

3 Su questo punto si recepisce la lezione di Edith Stein sull'empatia mediante la quale facciamo esperienza dell'alterità dell'altro, grazie ad un'approssimazione che si declina sempre con la distanza (E. STEIN, Introduzione alla filosofia, a cura di A. M. Pezzella, Città Nuova, Roma

1998). La presente riflessione sulla compassione prende spunto da un nostro lavoro su questo tema: La compassione tra prossimità e distanza, in L. Alici (a cura di), Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza, Atti del III° colloquio di etica, Aracne, Roma 2012, pp. 17-40.

4 Cfr. L. BOELLA, Sentire l'altro, cit., p. 12.

5 Si veda a questo riguardo la posizione di Housset sulla responsabilità: E. HOUSSET, L'intelligence de la pitié, Les éditions du Cerf, Paris 2003, p. 69.

6 Ivi, p. 23.

7 S. KIERKEGAARD, Atti dell'amore, trad. di C. Fabro, Bompiani, Milano 2003, p. 277.

8 L. BOELLA, Sentire l'altro, cit., p. 7.

 

Donatella Pagliacci

Docente di Filosofia

Università di Macerata

d.pagliacci@unimc.it

 

 

 

 
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