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n. 7/8
luglio/agosto 2001

 

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LE RELIGIOSE IN UN MONDO DALLE MOLTE RELIGIONI

Dalla religione alla fede: Proposte per un itinerario

P. Guido Innocenzo Gargano
camaldolese osb

Il Concilio Vaticano II dichiara nel famoso documento  <Nostra Aetate> approvato il 28 ottobre 1965:

“Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane… Una sola comunità infatti cosituiscono i vari popoli. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui provvidenza, testimonianza di bontà e disegno di salvezza si estendono a tutti” (Nostra Aetate, 1).

1. “I vari popoli hanno anche un fine ultimo, Dio, la cui provvidenza, testimonianza di bontà e disegno di salvezza, si estendono a tutti”.

Il riferimento a Dio, riconosciuto dal Concilio come fine ultimo dell’intera umanità, ci invita a fermare la nostra attenzione sul senso o significato appunto di questo fine che coincide con il fine proprio di ciascuno di noi. Siamo infatti persone consacrate perché “Dio sia glorificato in tutto e in tutte le cose” e che compiono ogni loro servizio “per la maggior gloria di Dio”.

In quanto cristiani il nostro modo particolare di raggiungere il fine passa attraverso la mediazione di Cristo a tal punto che noi ci siamo impegnati tutti a “non aver nulla di più caro di Cristo” e tuttavia, trattandosi di evidenziare in questo momento un particolare rapporto, quello di noi religiosi e religiose con le tante religioni presenti nel nostro medesimo territorio, il dato comune è senza dubbio il riferimento all’unico Dio.

2. Riferirsi all’unico Dio, che noi cristiani abbiamo appreso chiamarsi Padre, significa riconoscere ed annunziare simultaneamente che tutti siamo fratelli e sorelle dell’unica famiglia umana e come tali dobbiamo relazionarci fra di noi nonostante la diversità delle nostre lingue, delle nostre razze e anche delle nostre religioni.

Quest’unico Dio, che è anche il Padre di tutti, nasconde però il suo volto nell’oscura profondità del mistero. È vero che noi cristiani abbiamo ricevuto da Gesù, figlio unigenito del Padre, la straordinaria risposta data all’apostolo Filippo: “Chi vede me vede il Padre”, eppure, nonostante questo, anche noi dobbiamo riconoscere che la conoscenza piena di tutta la ricchezza dell’identità ultima del Figlio, nei cui lineamenti si propone il Padre, è connotata a sua volta dal mistero che non è mai totalmente attingibile da creatura umana. Non parliamo forse, anche a proposito di Gesù, di mistero del Figlio, Verbo di Dio fatto carne nel grembo di Maria di Nazaret?

Dopo aver preso coscienza che il riferimento all’unicità di Dio ci permette e ci spinge a riconoscerci tutti fratelli e sorelle fra di noi, occorre aggiungere dunque che questo unico Dio, svelatosi pienamente in Gesù di Nazaret, pur permettendoci di fare esperienza della sua stessa natura divina, attraverso  l’unigenito Figlio, rimane tuttavia nascosto nell’oscurità del mistero.

Un grande Padre della Chiesa, Gregorio di Nissa ha potuto parlare perciò dell’impossibilità per l’uomo, per ogni uomo, di raggiungere questo fine, in modo tale da poter dire di non doverlo ancora cercare, cercare sempre, non solo in questa vita, ma anche in quella futura.

All’uomo resta dunque soltanto una possibilità: mettersi alla ricerca costante di Dio tenendosi continuamente aperto al dono della rivelazione di lui o della verità, scopo dell’uomo e causa della sua felicità.

3. Ma con quali mezzi e attraverso quali accessibili strade possiamo metterci alla ricerca di Dio? La risposta unanime della tradizione cristiana riconosce in Gesù la Via, la Verità e la Vita, perché se Dio non si fosse fatto uomo, l’uomo non avrebbe mai avuto alcuna possibilità di trovare la strada per raggiungere Dio. Ma poi essa aggiunge due cose: primo la consapevolezza che il cammino è  simultaneamente compiuto con l’intelligenza e con l’esperienza concreta della vita e, secondo,  che esso sbocca nel mistero inaccessibile del Padre, perché si progredisce in modo tale che ogni punto di arrivo è sempre punto di partenza all’infinito in un itinerario che, dalle cose umili e faticose, conosciute e sperimentate sulla terra, conduce verso quelle realtà più alte e sublimi che si conoscono ed esperimentano solo grazie alla partecipazione piena della natura divina.

Molto spesso l’immagine utilizzata per indicare questo cammino comporta la salita della scala mistica.

San Benedetto per esempio ne parla  nel contesto della sua proposta monastica che definisce “scuola del servizio del Signore”, quando scrive: “È nostro scopo istituire una scuola del servizio del Signore in cui speriamo di non stabilire nulla di duro, nulla di pesante. Se però per giuste ragioni dovesse seguire cosa alquanto più dura per correggere i vizi e favorire l’amore, non spaventarti abbandonando subito la via della salvezza; all’inizio essa sembra difficile, ma progredendo nella vita monastica e nel cammino di fede, il cuore si dilata e allora con l’inesprimibile dolcezza dell’amore si corre sulla via dei comandamenti di Dio” (Regola di San Benedetto, Prologo).  

Nello stesso contesto Gregorio di Nissa precisa nella sua Vita di Mosè (II, 3-7 passim). (Traduzione di Manlio Simonetti, con qualche piccolo ritocco compiuto tenendo conto del testo greco) rivolgendosi a un giovane monaco: “Mi hai chiesto, carissimo, di descriverti qual è la vita perfetta …Ti rispondo dicendo che …tutto ciò che si misura quantitativamente è contenuto in certi suoi limiti. Per la virtù invece abbiamo appreso dall’apostolo che il solo limite della perfezione è non avere limite… Perché? Perché la natura divina è infinita e illimitata. E siccome tutti coloro che ne sentono parlare desiderano esserne partecipi, anche il desiderio di chi cerca di parteciparne, tendendo all’infinito, non può fermarsi mai”.

4. Mi sembra che queste parole di San Benedetto e di Gregorio di Nissa ci mettano chiaramente in guardia a non pretendere né di possedere mai la perfezione nella conoscenza-esperienza di Dio, né di poterla raggiungere mai in modo pieno e definitivo.

E non c’è dubbio che un atteggiamento simile è un ottimo inizio per qualunque tipo di dialogo interreligioso.

Una simile consapevolezza dovrebbe essere sufficiente da sola infatti a liberarci da alcuni pregiudizi, spesso di tipo espressamente religioso, che accompagnano sia le nostre conquiste teologiche, sia certe nostre comprensioni particolari della vita consacrata intesa come “stato di perfezione”.

Gregorio di Nissa ci aiuta insomma a capire che se le nostre conquiste “teologiche” e quelle cosiddette “spirituali”, legate a ciò che noi chiamiamo “stato di perfezione” vogliono proseguire ad avere un senso nel dialogo, esse devono essere caratterizzate soprattutto dalla dinamicità. Questo significa che le nostre conoscenze “teologiche” e la nostra perfezione “spirituale” vanno intese in modo tale da salvaguardare un divenire che non pretende mai una perfezione acquisita al punto da non aver più bisogno di cambiare per progredire ancora.

Questa precisazione, ci apre già di per se stessa allo “Spirito che fa continuamente nuove tutte le cose” (Apc. ) e ci introduce “in tutta la verità” (Gv 16,13) all’interno delle nostre strutture istituzionali mai definitive una volta per tutte. Ma essa ha delle ripercussioni enormi anche nel presentare all’esterno degli istituti religiosi il nostro particolare modo di testimoniare la fede nella resurrezione del Signore Redentore e Salvatore del mondo.

5. Cerchiamo di individuare adesso le domande che, attraverso la Parola di Dio presente negli eventi e nella interpretazione che di essi hanno gli uomini di Dio, ci vengono rivolte da un mondo a sua volta dinamico e abitato dalle novità che il medesimo Spirito dissemina lungo la storia degli uomini.

Diceva San Gregorio Magno, papa di Roma dal 590 al 604: “ Dobbiamo tener presente che la scienza dei padri è cresciuta attraverso lo svolgersi dei tempi. Infatti, Mosè più di Abramo, i profeti più di Mosè e gli apostoli più dei profeti furono istruiti nella scienza di Dio onnipotente…perché quanto più il mondo si avvicina alla fine, tanto più ampio si apre per noi l’accesso alla scienza eterna” (Omelie su Ezechiele, Lib. II, Omelia 4, 12, Città Nuova Editrice, Roma 1980, pp.100-101. Traduzione di Emilio Gandolfo con qualche ritocco sul testo latino).

L’insegnamento di questi grandi Padri della Chiesa ci invita dunque a tenere gli occhi aperti sulle conoscenze nuove che si aprono davanti a noi col progredire della storia. Fra queste conoscenze non possiamo più fare a meno oggi di porre quelle particolari prospettive e angolature nuove di osservare il mistero di Dio, di Cristo e della Chiesa, che ci vengono proposte dalle altre religioni entrate in contatto con la cattolicità.

Papa Giovanni XXIII diceva, inaugurando il Concilio Vaticano II: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.

E io credo che oggi dovremmo essere forse paradossalmente riconoscenti verso le religioni non cristiane, perchè ci stanno spingendo, forse addirittura al di là delle loro stesse intenzioni, a capire meglio il Vangelo. Credo inoltre che proprio di questo intenda renderci consapevoli l’attuale Papa Giovanni Paolo II quando scrive nella recentissima lettera apostolica <Novo Millennio ineunte>: “Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono nella luce di Cristo… Noi abbiamo il compito stupendo di esserne il <riflesso>… È compito possibile, se esponendoci alla luce di Cristo, sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi”. E prosegue: “È in quest’ottica che si pone anche la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati, nella linea indicata dal Concilio Vaticano II…Il dialogo deve continuare” – insiste il santo Padre – che spiega:

“Nella condizione di più spiccato pluralismo culturale e religioso, quale si va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue tanti periodi nella storia dell’umanità”. Poi conclude: “Il nome dell’unico Dio deve diventare sempre più qual è, un nome di pace e un imperativo di pace” (nn. 54-55, passim).

Stando alle parole del Papa il nostro modo nuovo di intendere il Vangelo nel nuovo millennio in cui si va prospettando “un più spiccato pluralismo culturale e religioso”, dovrebbe essere dunque quello di favorire “il dialogo interreligioso” per porre, sono le parole stesse del Santo Padre, “un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione”.

In sostanza si può dedurre che il progredire della storia ha permesso all’umanità e alla chiesa di capire meglio il progetto pensato da Dio “fino dalla creazione del mondo”, un progetto che, come ha avvertito il Papa, non può in alcun modo sopportare più che il mondo, in alcuna sua parte, venga rigato di sangue in nome di Dio. A meno che non si voglia prospettare un futuro sinistramente segnato da guerre interminabili, non c’è dunque alcuna scelta alternativa al dialogo in nessuna parte del mondo e neppure in Italia.

Ne segue che nessun carisma interno al mistero della Chiesa può da qui in poi prescindere da questo imperativo del dialogo. Ogni nostra proposta pastorale e ogni nostro modo di fare missione, catechesi o evangelizzazione, deve partire dunque dal dialogo, utilizzare il dialogo e condurre al dialogo.

6. Ma fare dialogo significa ammettere l’importanza determinante dell’interlocutore. Non si parla da soli, né da una sola direzione, perché altrimenti o si fa solo monologo, parlandosi ridicolmente addosso, oppure si avvelenano i rapporti con la pianta amara del proselitismo.

L’interlocutore è sempre un “altro” con tutto il carico di mistero che caratterizza la sua identità più profonda, né più né meno di quanto lo caratterizza la nostra. Accogliere l’”altro” col suo specifico carico di mistero significa mettersi di fronte a lui con lo stesso rispetto, direi con lo stesso timore e tremore o premurosità, con cui ci poniamo davanti al Signore.

 Per assumere con purezza e sincerità un simile atteggiamento dobbiamo forse rinunciare a proporre serenamente la nostra verità all’interlocutore del nostro dialogo?

Niente affatto.

Il Santo Padre ci ha spiegato chiaramente che “Il dialogo non può essere fondato sull’indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di sviluppare il dialogo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa costituire offesa all’altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è un bene per tutti” (o.c., n.56).

E tuttavia questo dono prezioso “va proposto a tutti con il più grande rispetto della libertà di ciascuno”(ivi).

 “Il dovere missionario, prosegue il Papa, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa non finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cfr Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla '‘pienezza della verità'’(cfr Gv 16,13)” (ivi).

Sono fondamentali le espressioni utilizzate dal Santo Padre quando raccomanda di avere “il più grande rispetto della libertà di ciascuno” e di “andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto” sincero dell’interlocutore.

Rispetto della libertà di ciascuno e disponibilità all’ascolto, sono di fatto due componenti che caratterizzano l’autenticità di ogni dialogo e le uniche che lo rendono fruttuoso senza che alcuno prevarichi sulle convinzioni profonde dell’altro e soprattutto mettendo tutti, compreso l’interlocutore cristiano, nella possibilità di arricchirsi misteriosamente con l’apporto dell’altro.

Scrive a questo proposito ancora il Santo Padre: “Non raramente lo Spirito di Dio, che <soffia dove vuole> (Gv 3,8), suscita nell’esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i <segni dei tempi> (GS, 4)? Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i <veri segni della presenza o del disegno di Dio> (GS,11), la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche <ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano> (GS, 44). Questo atteggiamento di apertura, e insieme di attento discernimento, il Concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi seguirne l’insegnamento e la traccia con grande fedeltà” (o.c.,n.56).

7. Se la Chiesa non ha solo dato, ma ha anche ricevuto nel passato, nulla impedisce che essa possa continuare a vivere anche nel presente e nel futuro questa misteriosa esperienza di scambio di doni con “le filosofie, le culture, le religioni” (ivi) che condividono con essa spazi e tempi della vita dell’uomo sulla terra. Dovremo dunque abituarci anche noi a condividere con i nostri coinquilini i doni che ci caratterizzano come credenti nel Signore risorto accettando volentieri di fruire dei doni che gli altri, attingendo alla loro rispettiva esperienza religiosa, amano e godono di proporre a loro volta a noi.

E forse sperimentare questa indicibile e gioiosa reciprocità ci condurrebbe finalmente a recuperare le radici stesse della nostra <vita consacrata> motivata, nutrita e orientata da sempre alla e dalla gratuità dell’amore in cui di fatto consiste quella “carità perfetta” che costituisce da sempre lo scopo condiviso da tutti nella cosiddetta “vita religiosa”.

Scriveva Gregorio di Nissa al termine della già citata Vita di Mosè (II, 320): “Questa  è la perfezione: staccarsi dalla vita di peccato non più per il servile timore di venir punito, né fare il bene per la speranza delle ricompense, mercanteggiando la vita virtuosa con intendimento affaristico e interessato; ma, trascurando anche tutti i beni che speriamo di conseguire secondo la promessa, ritenere temibile soltanto il decadere dall’amicizia di Dio e giudicare per noi onorevole e desiderabile solo il divenire amici di Dio. A mio giudizio questa è la perfezione della vita”.

8. Giunti a questo punto possiamo permetterci di individuare sinteticamente alcune tappe che, dialogando sinceramente con i credenti delle altre esperienze religiose, ci liberano dalla <religione>, intesa come un insieme di paure e di calcoli mercantili o meritocratici nei nostri rapporti con Dio, per aprirci alla <fede> così come essa veniva intesa da Paolo nella sua grande Lettera ai Romani.  Potremmo così constatare che proprio il dialogo con le religioni ci permette di liberarci da quel particolare modo di vivere la nostra fede cristiana che si riduceva a pura e semplice religione della paura, del guadagno o del merito. “Mercanteggiando - come scrive Gregorio - la vita virtuosa con intendimento affaristico e interessato” avevamo forse rischiato di “decadere - come dice ancora il Nisseno - dall’amicizia di Dio” che invece il coraggio di esporci al dialogo ci permette, e direi quasi ci costringe,  a ritrovare.

Il recupero dell’amicizia con Dio rafforza poi abitualmente la nostra fiducia nell’altro dal momento che anche l’altro, essendosi esposto a sua volta con lo stesso coraggio al dialogo, non ha potuto fare a meno di ritrovare nel denominatore comune dell’amicizia un modo nuovo di rapportarsi al “suo” Dio che, inevitabilmente, ha finito col coincidere perfettamente col “nostro” Dio riconosciuto come il Padre comune che toglie di mezzo ogni inimicizia ed estraneità.

Forse è proprio a questo misterioso scambio che si riferisce Giovanni Paolo II quando individua nell’ “umile e fiduciosa apertura” e nell’”attento discernimento”, che hanno caratterizzato il Concilio Vaticano II nei confronti dell’esperienza umana e delle altre religioni, l’eredità da ricevere e da seguire “con grande fedeltà” impegnando proprio in questo duplice atteggiamento quello spirito di obbedienza che tanta parte prosegue ad avere, e noi religiosi lo sappiamo forse meglio di altri battezzati, nell’ordinato cammino della Chiesa.

 Il Papa, particolarmente accorato nel richiamare questa necessaria obbedienza al Concilio, prosegue: “A mano a mano che passano gli anni, quei testi conciliari non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa. A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre” (o.c., n.57).

Potremmo proprio noi religiosi disattendere un appello così accorato del Santo Padre a rivisitare i testi conciliari riappropriandoci di essi e assimilandoli?

9. A tutto ciò che è stato detto finora occorre aggiungere un riferimento preciso a quel particolare percorso personale che avviene nella coscienza del singolo religioso che, dedicandosi giorno e notte all’ascolto della parola di Dio, sente nascergli in cuore l’urgenza di aprirsi integralmente, cioè con tutto se stesso, alle cose continuamente nuove  disseminate dallo spirito simultaneamente in lui e nella storia degli uomini.

Gregorio di Nissa, proponendo come modello universale per ogni credente la figura di Mosè, aveva scritto (in Vita di Mosè, II, 306) che: “La via alla perfezione è il continuo progresso della vita al meglio”. E poi aveva aggiunto, sempre con riferimento a Mosè:  “egli, pur essendosi innalzato per tutta la vita…non mancò di innalzarsi ogni volta al di sopra di sé stesso, così che la sua vita salì più in alto delle nubi, elevandosi in alto come un’aquila, nel cielo delle ascensioni dello spirito” (o.c., n.307).

Gregorio Magno, l’altro santo Padre dell’antichità al quale sono affezionato, sviluppa ulteriormente l’intuizione di Gregorio di Nissa legandola più intimamente alla frequentazione della Sacra Scrittura in un commento famoso a Ez 1,19 in cui il profeta, descrivendo la visione misteriosa di un carro trainato da quattro animali simbolici, racconta: “Quando quegli esseri viventi ( i quattro animali simbolici la tradizione cristiana li accosta ai quattro evangelisti) si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano”. Gregorio spiega:

 “Gli esseri viventi si muovono  quando gli uomini apprendono dalla Sacra Scrittura come deve essere la loro vita morale e si alzano da terra quando gli uomini restano sospesi nella contemplazione. Infatti, nella misura in cui ciascuno progredisce personalmente, anche la Sacra Scrittura progredisce con lui. Del resto le parole divine crescono insieme con chi le legge (divina eloquia cum legente crescunt); e si comprendono tanto più profondamente quanto più profonda è l’attenzione che ad esse viene rivolta dal lettore…Quando infatti l’animo di chi legge è penetrato di amore per le cose del cielo, allora la ruota vola…Infatti dove tende lo spirito, lì si innalzano anche le parole di Dio, perché se in esse cerchi di vedere e di sentire qualcosa di elevato, queste stesse sacre parole crescono con te, con te salgono in alto” (Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 7, paragrafi 8-9; traduzione di Emilio Gandolfo con qualche piccolo ritocco sul testo latino, Città Nuova, Roma 1979, pp.132-133).

Gregorio di Nissa e Gregorio Magno condividono lo stesso insegnamento sulla dinamicità continua della vita di fede. E l’uno e l’altro sarebbero concordi nel ritenere che non si possa neppure iniziare un itinerario personale di fede se non vengono sciolti anzitutto i legami della “religio”, che ci prostrano per terra schiacciandoci nel chiuso di orizzonti esclusivamente terreni. Per aprirsi al volo infinito garantito al credente dalle ali leggere della “fede”, occorre rinunziare ad ogni minima parvenza di interessi terreni, siano pure questi ultimi giustificati come interessi utili alla Chiesa o indispensabili al bene-essere dei nostri rispettivi istituti o congregazioni religiose.

10. Si comincia però sempre, ed anche in questo sono concordi i nostri santi padri antichi, con la frequentazione ininterrotta della Parola di Dio contenuta in modo fontale e paradigmatico nelle Scritture Sante. Le quali sono talmente gelose del proprio tesoro nascosto da non permettere l’accesso oltre la scorza dura della soglia del significato “esteriore”, se non a coloro che si lasciano aprire il cuore dalla freccia appuntita della compunzione e sciogliere le viscere dell’anima dall’incandescenza dell’amore.

Una strada difficile? Sì, ma non certamente impossibile, dal momento che è la Parola stessa di Dio che, premendo in qualche modo dall’interno di sé, facilita il compito del sincero cercatore di Dio attraverso insegnamenti,  insinuazioni e messaggi che abitano lo stesso senso letterale del testo scritturistico.

Gregorio Magno constata che questo compito particolarissimo di spaccare il cuore del credente, se lo assume spesso la preghiera salmodica. È sintomatico, lo dico per inciso, che anche Giovanni Paolo II sia giunto alla stessa conclusione in questi anni maturi del suo pontificato!

Scrive Papa Gregorio: “Il canto dei salmi, quando il cuore è ben disposto, prepara al Signore onnipotente la via del cuore, perché egli infonda nello spirito ben disposto o i misteri della profezia o la grazia della compunzione…Nel sacrificio di lode viene poi mostrato lo stesso Gesù come via, poiché mentre per mezzo della salmodia viene infusa la compunzione, si apre per noi nel cuore la via per mezzo della quale si perviene finalmente a Gesù…infatti a lui, quando cantiamo, apriamo la strada affinché venga nel nostro cuore e vi accenda il fuoco del suo amore” (Omelie su Ezechiele,  I, 1, paragrafo 15, o.c., pp.41-42).

Finché dunque lui stesso non entra nel cuore per accendervi il fuoco del suo amore, non possiamo illuderci di riuscire a sollevare dai riferimenti agli interessi terreni la nostra personale comprensione delle Scritture Sante o vivere il nostro dialogo con gli altri nel distacco richiesto da un autentico cammino di fede.

11. Se non siamo ancora arrivati a tanto, possiamo dunque invocarlo, possiamo cantare a lui le nostre lodi e i nostri cantici e lo faremo, ma con timore e tremore, consapevoli dei nostri limiti e accettando di dare soltanto quei frutti che sono convenienti alla nostra vera età spirituale. Spiega Gregorio Magno: “In tenera età, che è quella dei primi anni della nostra adolescenza o giovinezza, non si deve arare, cioè non si deve ancora predicare: il vomere della nostra lingua non osi fendere la terra del cuore altrui. Finché si è deboli, ci si deve limitare a noi stessi, perché non ci accada di perdere i beni ancora teneri che anzitempo vogliamo ostentare…Non si può proporre come esempio se non ciò che è solido. L’animo deve prima consolidarsi e si esporrà all’utilità del prossimo, solo quando innalzato dalla lode non cadrà e colpito dal biasimo non si avvilirà” (ivi, I, 2, paragrafo 3, o.c., p. 49).

Il cammino dialogico comincia proprio da questa prima fase infantile. Una fase estremamente delicata della quale anche Gregorio di Nissa parla riferendosi a quel periodo della vita in cui Mosè, mentre cresce alla scuola della sapienza egiziana, può rischiare di perdere la sua identità originaria se non accetta di rifugiarsi nella solitudine del deserto fino a quando il Signore stesso non gli manifesterà dall’interno del roveto ardente la sua misteriosa volontà.

Scrive questo grande padre cappadoce: “Uno viva pure con la regina degli Egiziani (che è figura delle conoscenze profane) per approfittare dei ragguardevoli beni che stanno presso costoro, ma poi corra alla madre secondo natura, dalla quale non è rimasto staccato neppure quando era allevato presso la regina, allattato, come dice la storia, dal latte materno”. Poi aggiunge: “Mi sembra che questo episodio ci insegni che, anche quando ci dedichiamo ad acquistare familiarità con la scienza profana durante il tempo dell’educazione, non dobbiamo però staccarci mai dal latte della Chiesa che ci alimenta. E per latte intendo i precetti e le pratiche della Chiesa, dai quali l’anima è nutrita e maturata, prendendo di qui impulso per l’ascesa” (o.c., II, 12).

E prosegue preoccupato: “Occorre tener presente che chi dovrà dedicarsi contemporaneamente alle dottrine straniere e a quelle patrie, di fatto si troverà fra due nemici: infatti la religione straniera si opporrà a quella della sua famiglia originaria, tentando di dimostrare col ragionamento di essere più forte di essa. E tale è apparsa a molti un pò troppo leggeri, che hanno abbandonato la fede patria per passare al nemico, e così hanno tradito l’insegnamento dei padri” (ivi, 13).

Passando infine ad una interpretazione del testo biblico maggiormente legata al riferimento morale, Gregorio osserva: “Se bisogna comunque vivere insieme con lo straniero, cioè se la necessità ci costringe a frequentare la sapienza profana poniamo almeno una scrupolosa attenzione a mettere in condizione di non nuocere i cattivi pastori che usano i pozzi in modo scorretto, facendo cattivo uso della cultura. Succederà così che vivremo solitari, non più mescolandoci e facendo da pacieri tra quelli che lottano fra loro, ma condivideremo la vita con quelli che pascolano presso di noi, hanno gli stessi sentimenti e gli stessi pensieri, e sottomettono insieme con noi tutti gli impulsi dell’anima alla superiore volontà del Logos” (o.c., II, 14-18, passim).

12. La prudenza di Gregorio Magno e le preoccupazioni di Gregorio di Nissa possono essere molto preziose per noi a causa della situazione diasporica in cui le nostre chiese e comunità religiose vivono in modo sempre più evidente in questi anni.

Gli interrogativi che si ponevano questi padri sono in realtà assai simili a quelli che ci poniamo anche noi. Potremmo dunque far tesoro anche noi della loro prudenza e delle loro indicazioni pastorali? Direi proprio di sì. E la mia risposta positiva avrebbe come conseguenza alcune indicazioni concrete che mi permetto di consigliare a mia volta.

 Prima: non avere fretta di gettarsi nel dialogo cosiddetto “teologico” prima di essere preparati a sostenerlo con una preparazione culturale adeguata. Abbiamo sentito il richiamo alla necessaria solidità interiore da parte di Gregorio Magno e alla serietà di una preparazione culturale adeguata da parte di Gregorio di Nissa. Sono richiami validi tuttora che rivelano anche con quale serietà ci si debba impegnare sempre nel dialogo.

Seconda: fa parte integrante di questa preparazione un tempo sufficientemente lungo di solitudine: “vivremo solitari, non più mescolandoci e facendo da pacieri tra quelli che lottano fra loro”. Una richiesta che può apparire contro-corrente o comunque colpevolmente disimpegnata. Nel gergo politico italiano si chiamerebbe <scelta aventiniana> e connoterebbe un atteggiamento remissivo e codardo, proprio di chi non vuol sporcarsi le mani preoccupato soltanto di difendere la propria coerenza illibata. E tuttavia non sempre è giusto e lecito connotare una simile scelta con attributi negativi, dal momento che potrebbe costituire quel necessario distacco che permette alle forze di ritornare e allo spirito critico di osservare le cose con maggiore oggettività e prudenza.

Non si tratterà di una scelta definitiva, ma in ogni caso la si vivrà come fosse tale per lasciare a Dio stesso la libertà di stabilire tempi e modalità nei quali, come successe a Mosè, gettarci nella lotta contro il faraone, i maghi e i suoi ministri per ottenere la liberazione definitiva del popolo dalla schiavitù egiziana.

Terza: un’esperienza vera di vita comune alla ricerca di quell’armonia interiore della persona che permetterà di mostrarci anche all’esterno come comunità nella quale “ viviamo con quelli che pascolano presso di noi, hanno gli stessi sentimenti e gli stessi pensieri e  sottomettono tutti gli impulsi dell’animo alla superiore volontà del Logos” (ivi, II, 18).

Quarta: L’abbandono totale alla volontà del Padre, eseguita con piena fiducia e libertà interiore, ci terrà costantemente pronti a ricevere qualunque tipo di incarico o forse anche nessuno. Ma abitualmente succederà, come successe a Mosè, che “mentre così sorvegliamo le greggi – come scrive Gregorio - vivendo in pace e senza contrasti, ci illuminerà la verità abbagliando coi suoi splendori gli occhi della nostra anima” (o.c., II, 19).

Quinta: La scoperta della verità comporta automaticamente una missione. “Come allora Mosè s’immerse in questa realtà, così fa ora chiunque, secondo quell’esempio, si spoglia dell’involucro terreno e osserva la luce che viene dal roveto, cioè il raggio che risplende a noi attraverso questa carne irta di spine  che però contiene, come dice il Vangelo, la luce vera e la verità. E allora si scopre di potersi occupare anche della salvezza degli altri, combattendo la tirannia e liberando gli oppressi” (ivi, II, 26).

13. Vi provoco un pò troppo se aggiungo che, in questi consigli di Gregorio di Nissa leggo un richiamo abbastanza forte per tutti a recuperare quella dimensione “monastica” della vita consacrata che, come sappiamo, è stata all’origine di ogni forma di vita religiosa nella Chiesa?

Sarebbe forse eccessivo concludere che, per rispondere alle sfide del mondo contemporaneo, in cui la chiesa e la vita religiosa cristiana diventano sempre più minoritarie, la via d’uscita creativa e aperta alla completa fiducia nel Signore debba consistere in una accentuazione della dimensione monastica in ogni forma di vita consacrata.

Rimane in ogni caso valido universalmente il richiamo dei nostri padri antichi a non perdere mai di vista la fraternità, la più intima e sincera possibile, con coloro che condividono con noi gli stessi pensieri e gli stessi sentimenti, che sono poi quelli stessi di Cristo.

E occorre aggiungere che solo una sincera ricerca della quiete o esichia del cuore permetterà alla Parola di Dio, di conformarci pienamente a Cristo, insostituibile guida del nostro vivere e del nostro operare per testimoniare in modo credibile ed efficace la fede cristiana in questo nostro mondo dalle molte fedi o religioni.

Ma la sfida delle religioni e il pullulare di scuole di preghiera profonda o silenziosa o di rilassamento sotto le denominazioni più varie, interpellano seriamente tutti i nostri istituti religiosi e di vita consacrata soprattutto sul piano della nostra vita di preghiera.

Accanto alla testimonianza della carità, che sotto le forme più diverse mostra efficacemente a tanti membri di religioni non cristiane, presenti per lavoro o per necessità nel nostro paese, il nostro modo concreto di proporre Cristo e il suo insegnamento, credo che si debba fare qualche sforzo in più perché coloro che vengono raggiunti dai nostri numerosi servizi di carità e di attenzione fraterna, possano anche capire dove sta, in ciascuno di noi, quel nucleo incandescente dal quale si irradia il calore della nostra carità operosa di credenti in Cristo e nel suo Vangelo.

In sintesi

Scrive il Concilio Vaticano II (LG, VII, 48): “La promessa restaurazione che aspettiamo è già incominciata con Cristo, è portata avanti con l’invio dello Spirito Santo e per mezzo di lui continua nella Chiesa…Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi (1Cor. 10, 11) e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in certo modo reale è anticipata in questo mondo; difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Ma fino a che non vi saranno cieli nuovi e terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt. 3, 13), la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rom. 8, 19-20)…Pertanto, <finché abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore> (2Cor. 5, 6) e avendo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi (cfr Rom. 8, 23) e bramiamo di essere con Cristo (cfr Fil. 1, 23)”.

Questa profonda riflessione del Concilio potrebbe essere il colore di fondo in cui ricevere le indicazioni proposte in questa comunicazione radicata nella Parola del Vangelo, letto alla luce del pensiero dei Padri della Chiesa e del Magistero.

All’interno di questo riferimento costante, e in obbedienza al tema che mi è stato assegnato, si evidenziano:

a)              La necessità che ogni dialogo trovi nella confessione dell’unicità di Dio la sua origine e lo scopo primario;

b)              La consapevolezza che la comune confessione dell’unicità di Dio comporta simultaneamente una riscoperta della piena fraternità e sororità fra tutti i membri del genere umano riconosciuti parte integrante dell’unica famiglia di Dio;

c)              L’attenzione al mistero, in cui Dio abita come in una luce inaccessibile, impone a tutti di non pretendere mai di aver detto o mostrato tutto di Dio e dunque di parlare di Lui con timore e tremore sapendo che Dio trascende sempre ogni nostro modo di dire o di fare il Suo nome;

d)              La ricerca incessante di Dio è l’unico modo concreto di aprirsi al dono della rivelazione di Lui o della Verità;

e)              Da qui la natura dinamica e provvisoria di ogni nostro modo di parlare di Lui e di testimoniarlo attraverso le nostre istituzioni umane con conseguenze estremamente pratiche che ci obbligano a considerare a loro volta provvisori e mutabili anche i nostri  istituti religiosi e le nostre regole;

f)                Il cammino verso il Signore comporta la partecipazione simultanea dell’intelligenza e del cuore nell’accoglienza di Lui che venendo fino a noi ci indica la strada del ritorno a Lui dandoci anche l’energia della quale abbiamo bisogno per poter iniziare e proseguire sulla strada della ricerca di Lui;

g)              La scala mistica della tradizione spirituale antica, che comporta una graduale ascensione dalle cose più umili e pesanti, legate alla terra e necessarie per i principianti, alle cose più alte e leggere raggiunte grazie alla dilatazione del cuore e all’inesprimibile dolcezza dell’amore liberante e liberato;

h)              La necessità del passaggio da un atteggiamento, che potremmo definire “religioso”, ancora legato a paure, calcoli, meriti e attesa del premio, a un atteggiamento, che potremmo definire di “fede”, basato unicamente sulla gratuità dell’amore che è proprio di chi nulla ha di più caro dell’amicizia di Dio e nulla intende anteporre all’amore di Cristo;

i)                La conversione continua, vissuta con la gioia di chi scopre cose continuamente nuove compiute dallo Spirito fino alla liberazione più piena da ogni scoria di interesse terreno, è il vero portale di un dialogo che voglia essere condotto con estremo rispetto del mistero dell’altro e sincera disposizione ad ascoltare l’altro in tutto ciò che egli crede e ama, offrendogli il dono della nostra testimonianza di fede, ma lasciandosi arricchire anche dal suo, senza prevaricazioni o proselitismi di nessun tipo e con quella completa fiducia nel Signore che non mancherà di far trionfare la verità attraverso la strada della libertà e dell’amore.

L’insegnamento dei Padri antichi non si limita a richiamare solo le esigenze della conversione continua della persona, ma invita anche ad aprire gli occhi sulle cose continuamente nuove rivelate dallo Spirito col progredire della storia umana e cosmica verso la fine dei tempi;

 Tra queste cose nuove si potrebbero porre anche le prospettive diverse dalle quali osservare l’unico mistero di Cristo e della Chiesa grazie alle sollecitazioni delle grandi religioni che si fanno più esplicite e insistenti nell’attuale momento storico dell’umanità, tenendo conto dell’invito del Papa a ricordare che la Chiesa cattolica non ha soltanto dato, ma ha anche ricevuto dalla cultura profana, dalle filosofie e dalle religioni non cristiane. E dunque verosimilmente un simile scambio dovrà essere ritenuto possibile anche oggi e nel prossimo o lontano futuro.

Il modo migliore per aprirsi a queste prospettive nuove, spesso chiamate dialogo interreligioso, sembra essere quello che il Santo Padre ha individuato nel compito a esporsi a quella stessa luce di Cristo nella quale si aprono il nuovo secolo e il nuovo millennio, aprendosi alla “grazia che ci rende uomini nuovi” nella linea indicata dal Concilio Vaticano II.

Il che comporta:

a)   la consapevolezza che nessun carisma interno alla Chiesa può da qui in poi sottrarsi all’imperativo del dialogo interreligioso che, come insiste il Santo Padre “deve continuare”;

b)      che dialogare significa ammettere l’importanza determinante della stima e rispetto dell’altro, della profonda libertà della sua coscienza, del mistero che racchiude in sé ogni interlocutore umano e dunque che per un cristiano non è sufficiente la semplice tolleranza del “diverso”, dovendo stabilire con l’altro, rispettato nella sua irriducibile diversità, una vera e propria apertura d’amore;

c)      “Il dovere missionario non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto…contando sull’aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità che ci condurrà alla pienezza della verità” (cfr Gv, 14,17;16,13), ha ricordato il Santo Padre;

d)      L’amicizia, cornice indispensabile di ogni tipo di dialogo, si nutre col “ritenere temibile soltanto il decadere dall’amicizia di Dio” – come dice Gregorio di Nissa –Infatti sarà l’impegno comune a voler restare soprattutto amici di Dio che porterà gli interlocutori di un dialogo vero a riscoprirsi “in Dio”  sempre più amici fra loro;

e)      La crescita nell’amicizia di Dio comporta così quasi impercettibilmente, nel confronto fraterno e rispettoso fra dialoganti, uno spogliamento progressivo degli  interessi della “religio” , che ci prostrano a terra schiacciandoci nel chiuso di orizzonti esclusivamente terreni, e un’apertura al volo all’infinito della “fede” sulle ali leggere dell’amore;

f)        La prudenza di Gregorio Magno e le preoccupazioni pastorali di Gregorio di Nissa, ci ricordano che non si diventa dialoganti autentici e seri senza una prolungata preparazione che comporti: -Formazione culturale, spirituale e teologica adeguate; - Lasciare a Dio di decidere la chiamata personale al dialogo, nei modi e nei tempi che      parranno bene a Lui, attraverso l’obbedienza; -Docilità alla Parola di Dio  ottenuta con l’allenamento della vita comune e della purificazione del cuore.

g)      Per ultimo una provocazione: È possibile rivisitare con maggiore impegno i valori propri della vita monastica che sono all’origine di ogni altra forma di vita religiosa o consacrata nella Chiesa? A voi la risposta.

Per parte mia vi pregherei di non identificare semplicisticamente la vita monastica con quelle forme medioevali, rinascimentali, barocche, neo-gotiche, neo-romaniche, neo-bizantine, neo-copte o altro, con le quali spesso viene riproposta oggi da tanti cosiddetti “nuovi monachesimi”. La vita monastica cristiana alla quale mi riferisco la penso semplicemente come ritorno a uno stile di vita essenziale che “non anteponga nulla all’amore di Cristo”, e dunque che accetti di apparire “inutile” al mondo, come può apparire inutile l’amore; ponga la celebrazione delle lodi di Dio, “santificando il Suo nome”, al di sopra di ogni altra testimonianza della fede; si metta umilmente alla scuola della sapienza dei Padri; e testimoni in modo credibile a tutti, credenti e non credenti, che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

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Modificato domenica 16 marzo 2014
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